Il weekend che rottama piazza e vincoli

L’ autunno caldo è morto, al compimento del suo quarantacinquesimo anno di età. Era nato nell’ottobre del 1969. E da allora è stato un classico della vita pubblica italiana, scandendo con poche eccezioni il contrasto ai governi via via in carica attraverso massicce mobilitazioni sindacali, piazze piene, ruvidi cortei, scioperi generali. La sua sepoltura avviene a opera di un premier che è parecchio più giovane, e che di quei fatti e della tumultuosa atmosfera politico-culturale dei Bruno Trentin e dei Luciano Lama non può avere, per ragioni anagrafiche, nemmeno diretta memoria.

 

E la grande novità è che la cerimonia funebre è del tutto illacrimata. Anzi, Matteo Renzi la considera una parte fondante, simbolica e metaforica del cambio non di pagina, ma di capitolo che vuole imprimere alla storia italiana. In altri tempi, un milione di manifestanti Cgil in piazza scuotevano dalle fondamenta governi e certezze politiche. E se questo era ovvio contro governi come quelli Rumor tanti anni fa o Berlusconi più recentemente, era doppiamente vero quando al governo era la sinistra. Massimo D’Alema fu piegato in due al congresso del Pds nel 1997.

 

Fu piegato dall’allora segretario della Cgil Cofferati, quando provò con forza a intonare l’inno Clinton-Blair a favore della flessibilità sul lavoro contro il sindacatone rosso «più chiuso e più sordo all’esigenza di una riflessione critica», accusato di essere diventato insensibile al fatto che «la spesa sociale non va ai più poveri» e che «il blocco sociale tutelato dal nostro welfare è diventato una minoranza».

 

Quel capitolo è chiuso. Per la prima volta un milione dí manifestanti Cgil in piazza rafforzano il premier-segretario del Pd, invece di indebolirlo. Si è capito subito, mediaticamente, che Renzi non avrebbe alleggerito i toni ma al contrario avrebbe utilizzato fino in fondo l’occasione per segnare tra sé e l’ostile piazza Cgil una linea netta, quasi invalicabile. Chi pensa in modo vecchio è libero di farlo ma non mi ferma, e non c’è gloria rivendicata del suo passato che possa annullare le differenze attuali tra chi vuole riformare in profondità, e chi invece è nostalgico del passato: così pensa Renzi, e così si comporta in ciò che è maestro, la comunicazione politica.

 

L’ultima riprova è avvenuta ieri, all’incontro tra ministri e sindacati. Susanna Camusso ne è uscita incredula e avvampante di rabbia, all’idea che i ministri le avessero detto «mandateci un fax». Per lei è semplicemente impensabile che il segretario e i ministri del Pd diano una risposta simile alla Cgil. Che, per inciso, forse non ha fatto bene a estendere la sua manifestazione ai rappresentanti della minoranza Pd, usciti anch’essi fortissimamente ridimensionati dalla scarpinata dietro i cartelli antigovernativi. Meglio allora Landini, che a Renzi non le manda a dire ed è tostissimo, ma recisamente nega di pensare anche solo un minuto a candidarsi come leader di una frattura politica simile alla Die Linke tedesca, a sinistra della Spd.

 

La complessa storia della sinistra e del sindacato italiani portano molti commentatori a non credere fino in fondo a questa svolta, a immaginare che anche Renzi troverà il modo di farsi concavo e convesso, come tanti altri leader del Pci-Ds-Pds-Pd prima di lui. Invece no. Renzi ha bruciato le navi alle sue spalle. Chiedere scusa alla Cgil, come fece D’Alema, sarebbe per lui la fine di ogni credibilità riformatrice. Naturalmente, la difficoltà sta come sempre non nella comunicazione, ma nelle cose concrete fatte davvero. Solo il tempo dirà, se l’accoppiata tra legge di stabilità e Jobs Act davvero riporteranno nel 2015 a una ripresa credibile, al segno positivo non solo nel Pil ma negli occupati e nel reddito, dopo gli anni del disastro alle nostre spalle. È una scommessa difficilissima, perché nella legge di stabilità c’è l’abbattimento Irap e l’incentivo ai nuovi assunti a tempo indeterminato, ma ci sono anche le pesanti tassazioni retroattive del risparmio previdenziale e l’aumento fiscale sul tfr.

 

Non è un caso ma quasi una necessità, nella comunicazioné renziana, che le esequie dell’autunno caldo avvengano in contemporanea a un’altra sepoltura: quella del tabù del vincolo esterno, e del confronto con le regole del rigore di bilancio europeo. Anche sui questo secondo fronte su cui Berlusconi cadde, nell’estate-autunno 2011 ad altri governi italiani avrebbe portato malissimo, la contestazione della legge dí stabilità da parte di Bruxelles. Renzi invece l’ha voluta e preparata in un’estate nel corso della quale gli interventi sulla spesa pubblica sono stati ridotto al minimo, per poi scodellare una finanziaria che riduceva allo 0,1% del Pil il miglioramento dei saldi tendenziali, scegliendo 11 miliardi di coperture in deficit. Non è il passaggio dallo 0,1% allo 0,3%, sancito ieri con la lettera di Padoan alla Commissione europea, a mutare la sostanza.

 

 

Anzi, il colpo di rasoio alla Figaro finale è quello di dire agli italiani che, dei 4,5 miliardi di miglioramento del deficit, 4 miliardi verranno dalla rinuncia di meno tasse, tra tagli al fondo di restituzione fiscale e aumenti di Iva. Come a dire che, se non riusciamo a tagliare di più le tasse, la colpa è dei dannati rigoristi europei, non del fatto che molte proposte di Cottarelli sul taglio alla spesa sono rimaste nel cassetto. Eppure, anche su questo tema del vincolo europeo, la novità rilevante è che Renzi vengono applausi e sostegni dal mondo accademico alla politica, sinistra e destra. Altri, al suo posto, sconterebbero dure critiche, visto che veleggiamo stabilmente su 40 punti di spread più della Spagna.

 

Pesa anche il vantaggio di essere solo in campo, per Renzi, visto che destra e Cinquestelle hanno deciso di non toccare palla. Non è affatto detto che la fine dell’autunno caldo e l’allentamento del vincolo europeo non ci riservino temibili colpi di coda. Magari sotto forma di un’inattesa crisi dei mercati che riabbatta al suolo le oggettive gravissime debolezze italiane, figlie di 20 anni di errori. Ma una cosa è sicura. Se Renzi continua nella sua contundente strategia con l’obiettivo di stravincere le prossime elezioni non ha colpe ma meriti. La colpa è di chi mostra di non aver niente di meglio non solo da dire, ma di cui convincere la maggioranza degli italiani. Su questo, le nostalgie fordiste della Cgil e quelle di una destra che crede al bis del 1994 non sono poi così diverse.

 

Il weekend che rottama piazza e vincoli
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