Il trattamento economico retributivo e il trattamento di fine rapporto

Il trattamento di fine rapporto è un trattamento economico indennitario connesso alla cessazione del rapporto di lavoro, in sostanza costituisce una forma di retribuzione differita, e in definitiva un’obbligazione aggiuntiva posta a carico del datore di lavoro proporzionata all’anzianità di servizio (così in M. Biagi, M. Tiraboschi, Istituzioni di diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2012, quinta ed., p. 547).
 
Il dettato normativo delineato dal legislatore con la legge n. 297 del 1982 recante la disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica, si inseriva in un panorama di accese dispute giurisprudenziali afferenti l’originario sistema dell’indennità d’anzianità, istituto di natura premiale spettante al lavoratore alla cessazione del rapporto non dipesa da colpa o da dimissioni.
 
Al fine di rendere l’istituto conforme al dettato costituzionale e per ridurre il costo del lavoro che l’effetto moltiplicatore dell’indennità procurava alle imprese, quest’ultima è stata sostituita dal trattamento di fine rapporto (t.f.r.). La base di calcolo del t.f.r., in seguito alla sostituzione non è più consistita nel prodotto dell’ultima mensilità di retribuzione per un coefficiente proporzionale agli anni di servizio, ma ad un trattamento pari alla retribuzione annuale (comprensiva di tredicesima e di eventuali altre mensilità aggiuntive) divisa per il coefficiente fisso di 13,5 rivalutato annualmente. Il t.f.r., poi, col d.lgs. n. 252/1995 è stato oggetto di rivisitazione nell’ambito della previdenza complementare, cosicché, a determinate condizioni, la gestione del t.f.r. nel corso del rapporto di lavoro può essere conferita dal lavoratore ai fondi di previdenza complementare. E infine, la materia è tornata di grande attualità per la possibilità, prevista dalla legge di stabilità 2015 (in attuazione, si veda il D.P.C.M. n. 29/2015), di ottenere l’anticipo del t.f.r. direttamente in busta paga.
 
Tuttavia, dopo un trentennio d’applicazione dell’istituto, non appaiono sopite le incertezze e le controversie giurisprudenziali in tema di determinazione della base di calcolo del t.f.r.
Per stabilire la retribuzione costituente parametro per il calcolo degli istituti di retribuzione indiretta o differita, appare necessario rammentare l’inesistenza nel nostro ordinamento del principio dell’onnicomprensività della retribuzione (vd., G. Santoro Passarelli (a cura di), Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale, in Collana diritto privato, Ipsoa, 5° ed., 2009, p. 703).
 
La Corte di Cassazione pronunciatasi più volte sul punto a Sezioni Unite, in definitiva ha stabilito l’inesistenza di un principio generale e inderogabile di onnicomprensività, alla stregua del quale concorrano a determinare la retribuzione tutti quei compensi aventi carattere di corrispettività, continuità, obbligatorietà e determinabilità (cfr. Cass. S.U., 13 febbraio 1984, n. 1069; Cass. S.U., 23 giugno 1989, n. 3005; Cass. S.U., 1 aprile 1993, n. 3888). Tali caratteri, infatti, non possono essere concepiti tali in assoluto in mancanza di un dato normativo unico e omogeneo o nel silenzio della normativa collettiva, ma devono essere valutati in relazione alla particolare natura di ciascun compenso.
 
Un automatismo del riconoscimento degli emolumenti comporterebbe, come già sperimentato, una restrizione degli spazi affidati alla contrattazione collettiva e quindi ad effetti distorsivi moltiplicatori dei costi del lavoro (cfr. G. Zilio Grandi, Diritti sociali e diritti nel lavoro, Giappichelli, Torino, 2006, p. 148).
 
In mancanza di una generale definizione inderogabile di retribuzione, occorre esaminare la specifica disposizione codicistica sulla disciplina del t.f.r.
Dall’esegesi dell’art. 2120 c.c., comma 2, così come novellato dalla legge n. 297 del 1982, il legislatore ha determinato una base di calcolo del t.f.r. estremamente ampia, la quale ricomprende «tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro». Tale formulazione onnicomprensiva è seguita da esclusioni espresse, per cui non devono essere computate: le somme non corrisposte in «dipendenza del rapporto di lavoro», le somme corrisposte a titolo «occasionale» e quelle corrisposte a titolo di «rimborso spese».
 
Il t.f.r., dunque, viene commisurato non solo in base alla retribuzione percepita, ma anche all’insieme dei trattamenti di qualsiasi natura goduti dal lavoratore; in tal modo costituiscono parametro del calcolo anche somme non aventi natura retributiva in senso tecnico. D’altronde, la natura stessa del t.f.r. quale retribuzione differita, ovvero di importo di rilevante entità corrisposto alla fine del rapporto, ne determina la differenziazione rispetto alla retribuzione corrente.
 
Sebbene il dettato normativo sia chiaro, non si è realizzato lo scopo perseguito dal legislatore dell’82, ovvero “evitare ogni contenzioso” in punto di determinazione della base di calcolo.
La volontà del legislatore di parametrare il t.f.r. a qualisiasi utilità goduta dal lavoratore in modo non occasionale per ciascun periodo annuale di riferimento, ha determinato incertezze per la difficoltà di individuare nei singoli casi la frequenza che esclude l’occasionalità.
 
Recentemente la Corte di Cassazione ha riconosciuto computabile nella base di calcolo del t.f.r., il premio fedeltà (caratterizzato dalla protrazione dell’attività lavorativa e rigorosamente legato allo svolgimento del rapporto di lavoro da Cass. 9 aprile 2008, n. 9252), l’indennità sostitutiva delle ferie non godute (Cass. 11 settembre 2013, n. 20836), l’indennità di trasferta (Cass., 11 dicembre 2013, n. 27643), la maggiorazione del premio di rendimento (Cass. 1 ottobre 2012, n. 16636), le indennità erogate in corrispettivo di prestazioni di lavoro notturno (Cass. 21 maggio 2012, n. 7987), il controvalore in denaro delle prestazioni erogate in natura (Cass. 26 luglio 2006, n. 17013).
 
Dall’analisi di tali pronunce di legittimità si può desumere che, le erogazioni indicate non entrano aprioristicamente nel computo, ma solo in seguito ad una valutazione che accerti se il determinato trattamento sia stato in concreto corrisposto a quel lavoratore con una frequenza tale da escludere il carattere occasionale della prestazione. In sostanza, l’inclusione del parametro non può essere determinato in base ad una mera tipizzazione del titolo sganciato dalle modalità temporali della corresponsione.
 
Il criterio della non occasionalità ha ampliato la base di calcolo del t.f.r., esempio degno di nota è quello del compenso per lavoro straordinario.
Tale compenso rientra nella base di calcolo, non sul presupposto della semplice reiterazione delle prestazioni eccedenti l’orario normale, ma in forza del carattere costante e sistematico della prestazione, da individuarsi nell’uniformità della reiterazione per un «apprezzabile periodo di tempo» tale da farla assurgere ad «abituale nel quadro dell’organizzazione del lavoro» (Cass., 17 maggio 2006, n. 11536).
Il compenso per lavoro straordinario svolto in modo non occasionale deve essere incluso nella base di computo del t.f.r. in mancanza di una volontà collettiva in deroga all’art. 2120 c.c., comma 2 (in tal senso vd. Cass. 10 marzo 2009, n. 5707; Cass. 15 marzo 2010, n. 6204; C. Stato 30 maggio 2014, n. 2808).
 
Dall’esame della normativa e della giurisprudenza emerge quindi l’importanza del rapporto tra legge e autonomia collettiva. L’interpretazione dell’art. 2120 c.c., infatti, si pone come indispensabile solo nei casi in cui manca la regolamentazione collettiva o questa risulti inapplicabile al caso concreto. Pertanto la chiara definizione a livello collettivo degli emolumenti alla base del calcolo del t.f.r., posta l’ampia discrezionalità sia in melius sia in peius, riconosciuta sul punto alla parte collettiva, potrebbe contribuire a ridurre possibili contestazioni individuali.
 
Laura Vinci
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@LauraVinci88
 
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