Il salario minimo di Seattle supera a sinistra perfino Piketty

Il testo dell’audace legge con cui la città di Seattle ha aumentato il salario minimo a 15 dollari l’ora si apre con un Piketty apocrifo: «Il noto economista Thomas Piketty ha prescritto nel suo libro Capital in the 21st Century la necessità di agire sulle diseguaglianze, visto che gli stipendi della maggior parte dei lavoratori americani sono cresciuti poco o niente dall’inizio degli anni Settanta, ma i salari per l’1 per cento dei più ricchi sono cresciuti del 165 per cento, quello dello 0,1 per cento del 362 per cento».

 

L’economista francese è diventato per vox populi il protettore di qualunque battaglia per la giustizia sociale, ma lo pseudo-Piketty evocato dal Consiglio di Seattle è in realtà Paul Krugman, la coscienza dei liberali, altra celebrity economica per tutte le stagioni, citata, in questo caso, mentre recensiva per la New York Review of Books il tomo più discusso degli ultimi mesi. Interpolazioni filologiche a parte, Piketty effettivamente invoca un aggiustamento del salario minimo, strumento che «ha un ruolo fondamentale nella formazione e nell’evoluzione delle diseguaglianze» e che negli Stati Uniti è stato troppo a lungo bloccato su livelli insostenibili.

 

La paga minima, a livello federale di 7,25 dollari l’ora, potrebbe essere tranquillamente innalzata senza danneggiare il mercato del lavoro, sostiene Piketty, felicemente in sintonia con Barack Obama, che si è impegnato a portare l’asticella a 10,10 dollari l’ora. Una scuola economica vivacemente rappresentata all’interno dell’Amministrazione sostiene da tempo queste tesi, ma la legge di Seattle è molto più ambiziosa di così, perfino troppo ambiziosa per i più focosi antagonisti della diseguaglianza.

 

Lo stato di Washington ha fissato il salario minimo a 9 dollari l’ora, il 25 per cento in più del minimo federale, e ora Seattle ha imposto un altro aumento del 60 per cento rispetto alla legge in vigore. Le aziende con più di 500 dipendenti dovranno adeguare gli stipendi entro il 2017, mentre alle piccole e medie imprese è concesso fino al 2021, con un ulteriore aggiustamento al rialzo nel 2024, fino ad arrivare a 17,50 dollari l’ora.

 

Sono numeri esagerati anche per Piketty, il quale scrive che un aumento «del 25 per cento (da 7,25 dollari a 9 dollari l’ora) avrà un impatto minimo o irrilevante sul numero di posti di lavoro. L’innalzamento del salario minimo non può continuare indefinitamente: all’aumentare del minimo, gli effetti negativi sui livelli occupazionali tenderanno a prevalere. Se il minimo raddoppiasse o triplicasse, sarebbe sorprendente se gli effetti negativi non fossero dominanti».

 

Aumentare il minimo, insomma, fa bene alla giustizia sociale e al mercato, ma up to a point. Oltre un certo livello deprime invece di incentivare, distrugge il potere d’acquisto dei lavoratori invece di aumentarlo. E la legge di Seattle si spinge molto oltre il punto, tanto da superare a sinistra con una sola manovra sia Obama sia Piketty, mentre incontra le simpatie degli amministratori più radicali, vedi il sindaco di New York, Bill de Blasio, secondo cui la proposta della Casa Bianca è troppo timida (la pensa diversamente però il governatore Cuomo).

 

Dai sindacati ai dipendenti di fast food in perenne agitazione fino al professore Alan Krueger ex capo del Consiglio economico di Obama e autore di un importante e controverso studio sull’effetto dell’aumento dei minimi sull’occupazione l’America invoca in varie forme una svolta sul salario. In questo contesto la ricetta del presidente appare tutto sommato moderata: 10,10 dollari l’ora significa riallineare il potere d’acquisto dei lavoratori americani ai loro pari del 1969. A Seattle e altrove circolano idee molto più radicali. Così radicali che nemmeno l’economista più amato dai giustizieri sociali s’azzarderebbe a concedere la sua benedizione.

 

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