Il futuro Governo e quella inaspettata continuità tra le politiche del lavoro di PD e Cinquestelle

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Bollettino ADAPT 2 settembre 2019, n. 30

 

Non sappiamo con certezza se e come si realizzerà un governo PD-M5S. È invece indubbio che i nodi più complessi da sciogliere nel programma di questa nuova coalizione non siano da ricercare nell’ambito del lavoro, avendo il Movimento, da sempre, una sensibilità sul tema molto vicina a quella del PD, ancor più a quello zingarettiano, sbilanciato a sinistra rispetto al recente passato. È abbastanza semplice ricostruire i possibili interventi che la nuova maggioranza metterebbe in cantiere.

 

Il filo rosso, neanche troppo sottile, che lega le due forze è la convinzione che questa sia una epoca di necessaria riscoperta dello Stato, a scapito della sussidiarietà verticale (si prospettano giorni difficili per i processi di autonomia) e di quella orizzontale (i corpi intermedi dovranno tornare ad obbedire a quel che decide per loro il Legislatore). Certo, anche la Lega è, tutto sommato, una forza centralista, ma solo nella dimensione orizzontale, mentre ha sempre creduto ai benefici economici derivanti da una maggiore responsabilizzazione delle amministrazioni più vicine al cittadino. Argomento che non persuade per nulla né il PD, artefice in passato di un referendum costituzionale volto proprio a redistribuire maggiori poteri verso lo Stato, né il Movimento di Grillo e Di Maio, che raccoglie i voti nei territori che temono una “fuga” del produttivo Nord.

 

Allora: “più Stato e meno società”. Come si può declinare questo proposito nelle sfide prossime in materia di lavoro e occupazione?

 

Il primo punto del programma è già scritto poiché concerne un nodo con il quale entrambi i partiti si sono cimentati, tanto nella azione di Governo, quanto in sede di proposta legislativa. Si tratta della approvazione di un salario minimo fissato per legge, volto, quantomeno a parole, a innalzare i livelli salariali italiani. La proposta della Capogruppo alla Commissione Lavoro in Senato del M5S, Nunzia Catalfo, è già in buono stato di avanzamento e il PD non avrebbe particolari ritrosie a votare un testo non così dissimile da quello presentato da un suo esponente di punta, Tommaso Nannicini. Corollario inevitabile a questo intervento sarebbe l’approvazione di una legge sulla rappresentanza sindacale e datoriale, necessaria per potere individuare i contratti collettivi più rappresentativi e quindi deputati a diventare riferimento in ogni settore. In un colpo solo sarebbero così abbattuti due colonne portanti della autonomia collettiva e della storia del movimento sindacale, sancendo l’ingresso del Parlamento nelle dinamiche delle relazioni industriali.

 

Operazione, questa, che potrebbe dispiacere anche alla CGIL, indubbiamente la forza sociale più vicina al nuovo e ipotetico esecutivo. Il malessere sarebbe agilmente colmato dalla approvazione di altre misure molto prossime alle tesi di Maurizio Landini. In particolare, non sono da escludersi interventi in materia di licenziamento collettivo, la blindatura del Decreto Dignità (al massimo potrebbe esservi un intervento di consolidamento sulle causali necessarie per la stipulazione dei contratti a termine) e l’incoraggiamento delle sole assunzioni a tempo indeterminato per il tramite di incentivi economici ad hoc (come fu fatto ai tempi del Governo Renzi), finanziati dal superamento della flat tax per i lavoratori autonomi, destinati a tornare ad essere visti come evasori “fino a prova contraria”.

 

E del reddito di cittadinanza che ne sarà? Per quanto provino a nasconderlo, è palese la volontà dei dirigenti del PD di entrare nei meriti di questa misura. Erano convinti che non si potesse fare nulla oltre gli 80 euro e il Reddito di Inclusione (ReI). Di Maio, invece, ha dimostrato di sapere portare a compimento una politica ben più vasta e maggiormente rivolta alla popolazione in difficoltà. Per una forza che ambisce ad essere di sinistra, una misura di questo genere non solo non può essere messa in dubbio, ma anzi va potenziata. Il tentativo del PD potrebbe allora essere quello di innestare nel Reddito di Cittadinanza alcuni contenuti delle proprie proposte precedenti, per dimostrare ex post come questo non sia altro che l’evoluzione dell’azione Renzi-Gentiloni. Gli 80 euro saranno allora riciclati in chiave più sociale e sarà affiancato all’impianto dell’attuale Ministro del lavoro un nuovo disegno sulle politiche attive, sul rientro al lavoro dei beneficiari del Reddito di Cittadinanza. Uno dei contenuti più originali della riforma costituzionale renziana era il ri-accentramento delle politiche attive allo Stato, che avrebbe affidato la competenza all’ANPAL, creata proprio a questo scopo (e poi rimasta una scatola vuota). Di Maio è riuscito laddove il PD si era fermato: i Navigator sono un tentativo di controllo dal centro delle politiche di ricollocazione, sono il frutto geneticamente modificato dell’albero piantato il 4 dicembre 2016 e poi contagiato dalla Chernobyl politica che fu il referendum. Il PD non potrà che prendere atto della paternità culturale di queste misure.

 

I punti della possibile collaborazione sembrano quindi abbastanza chiari. Assolutamente incerti sono invece gli esiti sul Paese di un programma che, se fosse così concepito, sarebbe molto più vicino alla agenda degli anni Settanta che a quella del 2030.

 

Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

@EMassagli

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