Il dibattito sullo smart working manca il bersaglio*

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Bollettino ADAPT 13 settembre 2021, n. 31

 

La polemica innescata dall’annuncio del Ministro Brunetta di riportare al lavoro in presenza la maggior parte del personale della pubblica amministrazione ha riattivato il dibattito sul ruolo dello smartworking dopo la pandemia. Se fino a pochi mesi fa il refrain sul tema era quello del “non torneremo più indietro” oggi le opinioni sono più variegate e sembra che si sia giunti, come per tanti altri temi che riguardano le questioni del lavoro, all’inevitabile fase di forte polarizzazione. Schiacciata tra chi vuole un ritorno, seppure con alcune innovazioni, alle modalità di lavoro precedenti alla pandemia e chi vede nel lavoro da remoto un orizzonte inevitabile c’è la complessità di un fenomeno che ha molte facce e pochi dati per essere correttamente compreso. Quello che è certo è che in uno dei paesi con le maggiori rigidità organizzative e la minor presenza, come certifica OCSE, di pratiche di organizzazione innovative nelle imprese sposare tesi deterministiche sui benefici certi del lavoro da remoto è come minimo azzardato. Ed è proprio questo il problema principale che si fatica a mettere a tema: il lavoro da remoto inteso nell’accezione del moderno smartworking non è una questione tecnologica ma soprattutto una questione organizzativa. E se le tecnologie si acquistano e si installano in poco tempo, l’organizzazione del lavoro richiede tempo e una mutazione dell’atteggiamento delle persone coinvolte.

 

Prendiamo solo l’ormai celebre “lavorare per obiettivi”, principio sacrosanto ma raramente reso sistema all’interno delle organizzazioni. Questo perché l’organizzazione è un fenomeno con cui il determinismo tecnologico si deve per forza scontrare e spesso lo scontro non è indolore. Questo vale sia per le imprese private, soprattutto per quelle più piccole (dove infatti i lavoratori sono in larga parte tornati in presenza ormai da tempo), sia per la Pubblica Amministrazione che non brilla, in generale e tolti casi locali virtuosi, per efficienza organizzativa.

 

Abbiamo invece ridotto l’occasione che la pandemia ci ha offerto ad una massiccia diffusione di telelavoro e di tecnologia che lo consente, senza approfittare, almeno per ora, per profonde rivoluzioni nell’organizzazione. Di certo i cambiamenti organizzativi non si affrontano nel mezzo di una pandemia e con una diffusione repentina e pervasiva di una nuova modalità di lavoro che in pochissimi utilizzavano. È invece proprio questa la fase in cui riorganizzarsi per la ripresa e per una ripresa che non butti quanto imparato, nel bene e nel male, durante i mesi più complessi.

Per questo anche le posizioni di chi nega ogni importanza allo strumento del lavoro da remoto è da rifiutare perché in ultimo figlia, nei casi peggiori, di una sfiducia nell’autonomia delle persone o, nei casi più cinici, di chi non ha alcuna intenzione di affrontare il tema del cambiamento organizzativo che questo porta con sé.

 

Per prendere sul serio la sfida del lavoro da remoto occorre in primo luogo riconoscerne luci e ombre senza pensare che evidenziare criticità coincida, come troppo spesso avviene, con l’affossamento dello strumento. Occorre poi procedere con gradualità, facendo sì che lo strumento sia sempre di più libero all’interno di schemi che le imprese e la Pubblica amministrazione possono definire a seconda del livello di sperimentazione che vogliono mettere in atto e a seconda delle criticità che hanno rilevato durante lo scorso anno e mezzo.

 

Almeno tre azioni possono essere utili per implementare un lavoro da remoto che sia concreta opportunità di innovazione organizzativa. Il primo è che il PNRR faccia sua questa sfida e supporti imprese e Pubblica amministrazione con risorse per favorire il cambiamento delle organizzazioni, cambiamento che richiede attività di consulenza e di formazione che hanno spesso costi importanti e che potrebbero essere detassate, nel privato, e promosse, nel pubblico, anche con criteri di premialità. Il secondo è il ruolo che possono svolgere sul tema gli attori delle relazioni industriali a livello territoriale e aziendale. Ogni realtà aziendale e ogni territorio hanno le loro caratteristiche peculiari e non esiste un modello organizzativo unico, occorre quindi lasciare spazio per la definizione di regole e sperimentazioni di prossimità che siano costruite caso per caso. Il terzo è migliorare la raccolta e l’elaborazione dei dati, qui il riferimento è alla Pubblica amministrazione, sulla produttività dei lavoratori per avere dei parametri di valutazione delle prestazioni e delle sperimentazioni.

 

Francesco Seghezzi

Presidente Fondazione ADAPT

Scuola di alta formazione su transizioni occupazionali e relazioni di lavoro

@francescoseghezz

 

*pubblicato anche su Domani, 7 settembre 2021

 

 

Il dibattito sullo smart working manca il bersaglio*
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