I premi di risultato: una fotografia della contrattazione aziendale tra il 2012 e il 2021

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Bollettino ADAPT 19 dicembre 2022, n. 44
 
Come noto il premio di risultato è un elemento della retribuzione complementare ai minimi fissati dai contratti di categoria, di natura monetaria e a carattere variabile, la cui corresponsione è collegata alla misurazione e al raggiungimento di obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Il premio, sostenuto da robuste normative di agevolazione sul piano fiscale e contributivo, può essere istituito unilateralmente dalla direzione aziendale oppure, più spesso, dalla contrattazione, individuale o collettiva, a livello aziendale oppure nazionale.
 
La retribuzione di risultato si diffonde a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, ma è solo negli anni Ottanta e Novanta che si assiste a un suo primo radicamento nella esperienza italiana  (vedi, ad accesso aperto, il numero monografico del 1991 della rivista Diritto delle Relazioni Industriali dedicato alla retribuzione ad incentivi); anni in cui, nella dialettica tra lavoratori e datori di lavoro, si manifestano i diversi e coincidenti interessi ad ottenere la condivisione dei benefici legati all’andamento positivo dell’azienda, da un lato, e ad incentivare la prestazione lavorativa dei dipendenti, dall’altro. La funzione dei premi di risultato, dunque, è fin dal principio duplice: per i lavoratori, infatti, consente la redistribuzione dei ricavi conseguenti alle migliori prestazioni aziendali, per i datori di lavoro, invece, permette di stimolare i lavoratori a raggiungere determinati obiettivi di redditività, produttività e qualità del lavoro. Alla funzione redistributiva e a quella incentivante si è poi aggiunta anche una funzione sanzionatoria, solitamente connessa ai giorni di assenza dal lavoro.
 
In virtù della logica sottesa a tale istituto, dunque, è stata principalmente la contrattazione collettiva aziendale a farne uso, tanto da portare la retribuzione premiale ad essere la materia più presente negli accordi di secondo livello. È a livello aziendale, infatti, che la previsione di premi può essere maggiormente utile per garantire, nell’ambito di una cooperazione tra datore di lavoro e lavoratore, il raggiungimento di determinati obiettivi d’impresa, nell’ottica affermata, ad esempio, dall’accordo Hayes Lemmerz del 2013 (vedi il I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), secondo cui «il premio di risultato ha lo scopo di contribuire a massimizzare la partecipazione e il coinvolgimento dei collaboratori al conseguimento dei risultati aziendali» connessi «al conseguimento di obiettivi concordati tra le parti, misurati attraverso opportuni indicatori di performance».
 
È possibile affermare, come testimoniato dall’esperienza degli ultimi dieci anni, che esiste una enorme varietà nella regolazione della retribuzione di risultato, che muta in considerazione delle strategie e dell’organizzazione della singola azienda. Anche per quanto attiene alla modalità di determinazione, quindi, esistono molteplici tipologie di indicatori e algoritmi utili a stabilire l’an e il quantum del premio, che è determinato in funzione degli obiettivi aziendali, a loro volta funzione del tipo di processo produttivo, del tipo di prodotto e della tipologia di mercato di riferimento.
 
Per quanto attiene agli indicatori la misurazione cronometrica dei tempi di lavoro non è più oggi il principale parametro della retribuzione di risultato. La principale distinzione, infatti, può esser fatta tra indicatori di redditività e indicatori di efficienza produttiva/qualità del lavoro, anche se è complesso tracciare una linea di demarcazione netta, poiché, in realtà, i premi risultano spesso calcolati sulla base di un’ibridazione dei diversi indicatori, su cui incidono anche altri indici costruiti ad hoc in base alla realtà aziendale di riferimento. Pur nell’impossibilità di adottare una rigida categorizzazione, si possono osservare, esaminando i contratti aziendali, alcune linee di tendenza, come la maggiore incidenza di parametri connessi a redditività e efficienza.
 
La redditività, in particolare, permette di parametrare la retribuzione di risultato alle sorti dell’impresa, implicando una gratificazione del lavoratore a seguito di un’effettiva crescita economica dell’attività imprenditoriale, anche se è da sottolineare come i risultati dell’attività d’impresa non dipendano esclusivamente da fattori endogeni, ma anche esogeni, come la concorrenza, la selettività, la collocazione dei prodotti sul mercato e così via. Per riequilibrare tale circostanza, quindi, alcuni contratti affiancano al premio di risultato una gratifica una tantum per i lavoratori che si distinguono per l’apporto all’attività d’impresa. Da questo punto di vista è molto peculiare il caso dell’accordo Rodacciai del 2012 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 228), che ha introdotto una indennità di polivalenza per il lavoratore che si è distinto per la capacità di svolgere mansioni diverse da quelle per le quali viene assunto, stabilendo un premio congruo all’ulteriore mansione svolta e meritevole di gratifica. Una simile prassi, tuttavia, potrebbe rivelarsi in contrasto con la disciplina delle mansioni prevista dall’art. 2103 del Codice Civile. Meno ambiguo, da questo punto di vista, si rivela, invece, l’accordo integrativo Tenaris del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 177),  che, ad integrazione del premio di risultato, prevede una serie di premi volti a gratificare i lavoratori che si sono distinti sotto alcuni profili sul posto di lavoro (sicurezza sul lavoro, professionalità, assiduità o formazione oltre l’orario ordinario di lavoro).
 
Quanto all’indicatore dell’efficienza, è diversamente definito a seconda dell’azienda e del settore produttivo, ma è possibile affermare che si tratta generalmente di indicatori che riguardano l’efficienza orientata in termini di produttività, qualità e riduzione dei costi. Gli indicatori di produttività utilizzati dalle aziende sono i più disparati: il rapporto tra il tempo predeterminato per l’effettuazione delle singole produzioni e il tempo utilizzato per raggiungere l’obiettivo, il raggiungimento di determinati tempi di consegna e di eliminazione delle non conformità, il rapporto tra i costi di produzione interna e i giorni di produzione interna, il rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, ma anche indicatori relativi all’efficienza organizzativa e produttiva, come la crescita dello smart working e la riduzione dei tempi di reazione dell’organizzazione aziendale alle oscillazioni della domanda. Alcuni accordi, poi, prevedono che l’efficienza sia da intendere in termini di qualità, utilizzando quale indicatore il rapporto tra il numero di prodotti buoni e processati in linea di montaggio oppure il numero di pezzi difettosi su ogni milione di pezzi consegnati. È interessante il caso dell’accordo Spumador (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225), dove, a partire dal 2018, l’indicatore di produttività misura la prestazione della singola linea produttiva in termini di efficienza, di qualità e di manutenzione, così da valorizzare il tempo di lavoro effettivamente produttivo. Per quanto attiene all’efficienza organizzativa è emblematico l’accordo Sibelco Italia del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 174), che, mirando a perseguire logiche coerenti con le trasformazioni tecnologiche e organizzative, ha individuato come presupposti dell’erogazione della retribuzione di risultato l’«introduzione dello smart working tra il 3% e il 5% dei ruoli compatibili» e la diminuzione dei costi effettivi inerenti al monte ore ferie.
 
Spesso il premio è assegnato in base alla combinazione di diversi indicatori legati a redditività e produttività: è il caso dell’accordo Fisher&Paykel del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 195), che prevede che il premio dipenda per un 20% da indicatori di redditività, per un 40% dall’efficienza produttiva, intesa come rapporto tra ore assegnate e ore lavorate, e per un 40% da un indice di qualità della produzione, calcolato sulla base della difettosità primaria.

Alcuni accordi collettivi, inoltre, prevedono indicatori diversi dalla efficienza e dalla redditività, volti a raggiungere altri obiettivi dell’impresa, ad esempio in materia di sicurezza sul lavoro: è il caso dell’indicatore del Total Case Incident Rate, previsto dall’accordo Pittway del 2014 (I Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo agli anni 2012-2014, qui p. 234),  che esprime il numero di infortuni registrati rispetto al target stabilito dall’azienda. Con una logica simile, l’accordo Diamalteria Italiana del 2019 (VI Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2019, qui p. 170) prevede che gli obiettivi di efficienza aziendale siano connessi a indicatori che valutano la partecipazione di tutti i dipendenti a progetti utili a identificare i rischi e a rinforzare i comportamenti positivi in materia di sicurezza sul lavoro.
 
La retribuzione incentivante, inoltre, può anche collegarsi alla misurazione delle competenze dei lavoratori: nel caso della Santander, ad esempio, una quota di retribuzione premiale è demandata dal 2016 ad una valutazione delle competenze comportamentali dei lavoratori, al cui esito si lega l’importo del premio. Il tema è affrontato in maniera articolata anche dall’accordo ICAM del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 192), che realizza un sistema di retribuzione della professionalità e delle competenze acquisite dai lavoratori, valido per tutte le mansioni e per tutti i dipendenti: tale sistema prevede un importo fisso, denominato “professionalità” e legato alla mansione svolta dal lavoratore, e un importo variabile, definito attraverso un sistema chiamato “pagella”, basato sulla valutazione complessiva delle competenze tecniche e comportamentali del lavoratore. Un ultimo spunto interessante è offerto dall’accordo Bonfiglioli del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 197), che collega il premio di risultato alla professionalità e quest’ultima alla formazione, stabilendo che l’accesso ad una quota significativa della retribuzione premiale venga subordinato alla frequenza di alcune ore di formazione tecnica (svolta in maniera individuale e al di fuori dell’orario di lavoro) e in materia di sicurezza sul lavoro (svolta collettivamente all’interno dell’orario di lavoro).
 
Un’altra traiettoria evolutiva è segnata dalla diffusione di intese che prevedono meccanismi retributivi connessi ai c.d. “obiettivi verdi”, parametri finalizzati all’efficienza e conservazione energetica, come nel caso dell’accordo Luxottica del 2015 (II Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2015, qui p. 210), dove il premio di risultato è legato ad una serie di indicatori di sostenibilità, detti “zero sprechi”, legati al consumo di energia elettrica, alla riduzione di stampe, all’incremento di utilizzo dei mezzi pubblici, nonché alla riduzione nel consumo di materiali indiretti in funzione dei volumi di produzione.
 
Dall’analisi degli indicatori previsti dai contratti collettivi, è possibile affermare che il sistema del premio di risultato è volto ad incentivare non il singolo lavoratore, ma l’intera azienda o quantomeno un’area produttiva. Soltanto attraverso un buon andamento dell’azienda nel complesso e dell’organizzazione in cui è inserito il singolo lavoratore, infatti, è possibile conseguire il premio. La retribuzione di risultato, dunque, così intesa ha natura collettiva, in quanto incentiva il personale ad una maggiore efficienza ed è spesso legato anche alla redditività dell’azienda. Il singolo, per quanto virtuoso possa essere, non ha la possibilità di conseguire un premio elevato se il resto della forza lavoro non è altrettanto efficiente e l’azienda non raggiunge determinati risultati in termini di redditività o efficienza.
 
Tuttavia, non sempre la condotta del singolo lavoratore è irrilevante ai fini della determinazione del premio. Gli accordi collettivi, infatti, possono prevedere una rimodulazione del premio in base all’effettiva presenza in azienda del dipendente. A tal proposito, dunque, si osservano indici individuali correttivi di adeguamento del premio di risultato percepito dal singolo lavoratore. In particolare, il coefficiente moltiplicatore correttivo può essere strutturato in tre diversi modi: il premio presenza, che interviene aumentando il premio di risultato al raggiungimento dell’obiettivo di presenze, ma non ha effetti in caso contrario; la penalità per assenza, che comporta una diminuzione del premio in corrispondenza di certe soglie di eventi di assenza; il correttivo proporzionale in funzione della presenza e dell’assenza, che agisce in entrambe le direzioni. Emblematico è, da questo punto di vista, l’accordo Menarini del 2016 (III Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2016, qui p. 172), che, con una previsione confermata anche nel successivo accordo del 2019, considera l’assiduità individuale sul posto di lavoro come «uno dei fattori principali per il conseguimento del risultato economico dell’Azienda». A tal fine l’accordo prevede che l’importo del premio possa crescere o decrescere in base alla frequenza dei periodi di malattia e della durata della stessa (con esclusione dei ricoveri ospedalieri e dei giorni dedicati a particolari tipi di terapie). Il premio, quindi, non è corrisposto ai lavoratori che si trovino in aspettativa, in maternità (per il periodo di astensione facoltativa), in cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, ovvero in periodi di solidarietà superiori a due settimane. Ispirato da una logica simile è anche l’accordo Lombardini del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 174), che affianca ad un elemento di natura collettiva legato all’andamento globale dello stabilimento, misurato in termini di produttività e qualità del lavoro, un indicatore di assiduità individuale, che misura la percentuale di assenza dello stabilimento (intesa come carenza per malattia con costo interamente a carico del datore di lavoro) e le ore di assenza individuali. Un caso parzialmente diverso è quello dell’accordo AARTEE del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 179), che prevede distinti premi di risultato erogati in base a produttività e qualità dei prodotti a livello di stabilimento e assiduità delle presenze a livello individuale.
 
Per quanto attiene all’apporto individuale, è possibile anche che gli accordi mirino a premiare particolari contributi dei singoli lavoratori, come nel caso dell’accordo Peroni del 2018  (V Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2018, qui p. 172),  in cui «il premio si pone gli obiettivi di riconoscere i contributi eccellenti, le idee più innovative e valorizzare le persone, considerandole centrali anche per il processo di cambiamento».
 
Con riferimento alle modalità di corresponsione, si segnala un’ulteriore diversificazione negli accordi di secondo livello: il premio può essere riconosciuto in un’unica soluzione durante l’anno o, alternativamente, le parti possono prevedere la rateizzazione in due o più tranches, solitamente collocate a metà e a fine anno. In ogni caso, però, il premio fa riferimento all’annualità, con la conseguenza che per i lavoratori a tempo determinato e i lavoratori a tempo parziale è da riproporzionare considerando solo il tempo effettivamente lavorato.
 
Diversi contratti aziendali, inoltre, consentono al lavoratore di richiedere la conversione del premio di risultato in beni e servizi di welfare. Tale conversione può riguardare l’intero premio di risultato, come nel caso dell’accordo Liquigas del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 178),  che lascia al lavoratore la possibilità di determinare la quota (compresa tra il 5% e il 100%) del premio da convertire, o solo una parte, come previsto dall’accordo Hera del 2017, confermato per la stessa azienda anche dal contratto del 2020 (VII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2020, qui p. 175), per cui è possibile convertire fino alla metà del premio. Alcuni accordi, inoltre, possono decidere di selezionare i lavoratori a cui viene riservata la possibilità di welfarizzazione della retribuzione di risultato: è il caso dell’accordo Creval del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194),  che prevede una simile facoltà solo per i dipendenti con redditi da lavoro superiori a €80.000. Altri contratti, invece, adottano a monte una combinazione tra le diverse modalità di erogazione della retribuzione premiale: ad esempio il contratto Albaleasing del 2021 (VIII Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2021, qui p. 194) prevede, sempre con riferimento ai lavoratori con redditi superiori a €80.000, che il premio sia erogato al 50% in forma monetaria e al 50% sotto forma di servizi di welfare. Di particolare interesse risulta anche l’accordo Ineos del 2017 (IV Rapporto ADAPT sulla contrattazione collettiva in Italia relativo all’anno 2017, qui p. 225),  che consente ai lavoratori di convertire una piccola quota del premio di risultato (corrispondente a 60 euro lordi) in una giornata di riposo da godere durante l’anno.
 
In chiusura, è possibile osservare, analizzando le previsioni della contrattazione collettiva di secondo livello in materia di retribuzione di risultato nel corso dell’ultimo decennio, come, sul punto, la linea di tendenza principale sia rappresentata dall’utilizzo di parametri e indicatori che sempre meno hanno a che fare con la mera misurazione del tempo di lavoro. Gli indicatori più diffusi, infatti, sono quelli collegati ai risultati raggiunti dall’impresa in termini di redditività e produttività, ma si stanno affermando anche parametri che premiano il raggiungimento di obiettivi legati ad altri interessi, come quelli relativi alla sicurezza sul lavoro o alla sostenibilità ambientale ed energetica. In quest’ottica, dunque, si può affermare che la retribuzione di risultato è certamente un importante testimone del passaggio da un mercato del lavoro connotato principalmente come mercato del tempo di lavoro ad un diverso modello in cui rilevano maggiormente competenze e professionalità, necessarie per raggiungere gli obiettivi delle imprese.
 
Francesco Alifano

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@FrancescoAlifan

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