I congedi obbligatori e facoltativi dopo la riforma della l. n. 105/2022: problemi ancora aperti

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Bollettino ADAPT 24 luglio 2023, n. 28
 
Il d.lgs. 105/2022, emanato in attuazione della direttiva europea del 20 giugno 2019 sull’equilibrio tra attività professionale e vita familiare, riforma alcuni articoli del Testo Unico in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità (d.lgs. 151/2015) ed in particolare la disciplina dei congedi del padre lavoratore.
 
Il nuovo art. 27-bis stabilisce che, nel periodo compreso tra i due mesi antecedenti ed i 5 mesi successivi alla nascita del figlio, il padre lavoratore «si astiene dal lavoro per un periodo di 10 giorni lavorativi», da utilizzare anche in via non continuativa. Il successivo art. 28, rinominato col titolo «congedo di paternità alternativo», estende al padre lavoratore il diritto di astensione dal lavoro per la parte residua che sarebbe spettata alla madre lavoratrice in caso di morte o grave infermità di quest’ultima, ovvero di abbandono o di affidamento esclusivo del bambino al padre.
 
Il decreto inserisce inoltre l’art. 2-bis alla l.104/1992 introducendo (ancorché non fosse obbiettivamente necessario) un ridondante divieto di «discriminare o riservare un trattamento meno favorevole» ai lavoratori che chiedono o usufruiscono dei benefici del prolungamento del congedo parentale,  dei riposi e dei permessi in caso di figli con handicap grave, che fanno richiesta di rendere la prestazione lavorativa in modalità agile ovvero di assistere il coniuge convivente in condizioni di disabilità.  
 
Il datore di lavoro, che «rifiuta, si oppone o ostacola l’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro di cui all’art. 27-bis» è punito, ai sensi dell’art. 31-bis, con la sanzione amministrativa da euro 516 a euro 2.582 e con il divieto di rilascio delle certificazioni di genere se la violazione risulta commessa nei due anni precedenti. Ancor più grave è la sanzione prevista per la violazione dell’art. 28, per il quale, oltre al divieto di rilascio del certificato, è previsto l’arresto fino a 6 mesi.
 
Sempre in tema di tutele, l’art. 54 del d.lgs.151/2015 mantiene il divieto di licenziamento del padre lavoratore «per la durata del congedo stesso» esteso «fino al compimento di un anno di età del bambino».
 
Da ultimo, nel corpo degli art. 54 e 55 del novellato decreto si prevede, a favore del padre lavoratore «che ha fruito del congedo di paternità» il divieto di licenziamento nei primi 12 mesi di vita del bambino e il diritto al pagamento del preavviso in caso di dimissioni volontarie dallo stesso presentate nel medesimo periodo.
 
Si conferma infine l’obbligo di convalida delle dimissioni volontarie presentate da entrambi i genitori lavoratori entro i primi 3 anni di vita del bambino (o dalla data di ingresso del bambino nel nucleo familiare, in caso di adozione).
 
La continua sovrapposizione di novelle sul testo (e verosimilmente un’insufficiente attenzione al coordinamento ed alla coerenza tra le varie disposizioni sotto il profilo logico-sistematico) è stato oggetto di numerosi commenti e di interventi anche da parte della Suprema Corte. Nella sentenza n.11676/2012 la Cassazione si è posta il problema della necessità della preventiva fruizione del congedo obbligatorio di paternità (all’epoca di durata più ridotta) come condizione per applicare la disciplina in materia di convalida delle dimissioni al lavoratore padre, auspicando un intervento chiarificatore da parte del legislatore.
 
Di contrario avviso, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro, con propria comunicazione R.U n.0000749 del 25 settembre 2020, si è pronunciata nel senso che, non essendo detta fruizione esplicitamente richiesta dalla norma di riferimento anche ai fini della convalida delle dimissioni, non si frappone alcun ostacolo all’obbligo di adempiere alla convalida stessa.
 
Oggi dunque, a legislazione vigente, l’effettiva fruizione dei congedi ex art. 27-bis e 28 d.lgs. n. 151/2015 costituisce ancora condizione per far valere il divieto di licenziamento entro i primi dodici mesi di vita del bambino e non interferisce sull’obbligo di convalida delle dimissioni volontariamente presentate dal padre lavoratore entro i primi 3 anni di vita del bambino.
 
Quale sia la «ratio» di questo doppio binario, che la Suprema Corte aveva (correttamente) ritenuto disallineata sotto il profilo logico-sistematico, resta dunque un tema aperto. In ogni caso non chiarito dalla (ennesima) riforma del 2022.
 
Procedendo con ordine, sembra opportuno evidenziare alcuni aspetti che restano aperti nel contesto normativo che disciplina i congedi (obbligatori e facoltativi) e che suscitano dubbi interpretativi, ma anche necessità di riflessioni più attente.
 
Un primo tema riguarda l’obbligo del congedo obbligatorio dei 10 giorni da parte del padre genitore. La norma che lo ha istituito, infatti, inspiegabilmente sanziona il (solo) datore di lavoro che «rifiuta, si oppone o ostacola l’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro di cui agli art.27bis e 28», trascurando che l’obbligo di astensione riguarda anzitutto il genitore, e solo di riflesso il datore di lavoro che deve solo garantirlo e non può ostacolarlo, essendo questa, senza alcun dubbio, la ratio legis voluta dal Legislatore.
 
Si potrebbe ex adverso sostenere che una sanzione economica (indiretta) a carico del genitore inadempiente sia in realtà posta nel corpo degli art. 54 e 55, che riconosce alcuni diritti e tutele a favore del padre lavoratore nei primi dodici mesi di vita del bambino. Che risultano tuttavia sottoposti alla condizione che lo stesso abbia rispettato l’obbligo di astenersi dal lavoro per la durata di 10 giorni nel periodo di durata del congedo obbligatorio della madre.
 
L’obiezione tuttavia non convince. Se così fosse, infatti, saremmo in presenza di una prospettazione giuridica gravemente lesiva del principio sanzionatorio, atteso che se un obbligo è posto dalla norma in modo imperativo e inderogabile, esso va rispettato tout court senza offrire all’ obbligato vie di fuga, scelte alternative, o promesse di vantaggi.
 

Nel caso specifico, peraltro, la questione prospetta profili di  discriminazione tra i diritti riconosciuti alla madre lavoratrice che – anche per effetto dell’intreccio della disciplina dei permessi con quella della sicurezza sul lavoro – non può sottrarsi in alcun modo all’obbligo di astenersi dal lavoro per 5 mesi,  durante i quali percepisce un’indennità ridotta all’80% della retribuzione  e i diritti riconosciuti al padre genitore, che può decidere (di fatto senza reali conseguenze sanzionatorie) se rispettare o meno un obbligo imperativo previsto dalla legge. E che, qualora decida di rispettarlo, viene «premiato» con il pagamento dell’intera retribuzione nei giorni di assenza dal lavoro e con l’estensione dei benefici del divieto di licenziamento e del diritto al pagamento del preavviso, già riconosciuti alla madre lavoratrice.
 

La discriminazione appare evidente anche se si considera che l’obbligo di astensione della madre lavoratrice, va rispettato in modo assoluto anche nel caso che la sua attività lavorativa consenta una gestione del tempo e della prestazione attraverso modalità tali da far tranquillamente convivere le esigenze di cura ed assistenza al bambino e quelle di lavoro.
 

Una condizione nota e molto più concretamente normata, anche sotto il profilo della parità tra i sessi, nella gran parte dei Paesi Europei, in cui il periodo complessivo di congedo obbligatorio, esteso ad entrambi i genitori, si colloca tra le 12 e le 16 settimane, con punte più alte nei Paesi nordici. Con la differenza sostanziale, tuttavia, che l’indennità percepita dai genitori che si astengono nel periodo di congedo parentale e di permessi per i figli – che nel caso italiano, detto senza false ipocrisie, riguardano soprattutto la madre lavoratrice – è decisamente più alta e, in taluni casi, interamente compensativa. Uno spunto che andrebbe considerato quando si pone mano alle leggi in materia e si adottano politiche di crescita della natalità nel nostro Paese.
 

Un secondo tema, connesso peraltro al precedente, riguarda la differenza di trattamento del congedo obbligatorio con il congedo parentale ed i permessi di assistenza ai figli, questi ultimi affidati alla scelta volontaria dei genitori che possono astenersi o meno dal lavoro per un periodo frazionabile complessivo di 10 mesi.  Al netto della indennità pari al 30% della retribuzione per i primi tre mesi, che appare decisamente insufficiente se si considerano le necessità economiche crescenti di una nuova nascita in famiglia, nessun altro vantaggio o indennizzo è previsto a favore dei genitori.  Che a loro volta, detto anche in tal caso senza inutili ipocrisie, sono costretti ad usufruire delle ferie o decidono di assentarsi dal lavoro per [presunte o inesistenti] malattie, accollando a loro volta il relativo costo a carico del datore di lavoro e della fiscalità generale.
 

Restando in tema, il padre lavoratore, che per qualunque motivo si sia sottratto all’obbligo del congedo obbligatorio ma che abbia successivamente utilizzato il congedo parentale per una durata che può estendersi fino a 6 mesi, inspiegabilmente non gode delle tutele sul divieto di licenziamento e sul diritto al pagamento del preavviso in caso di dimissioni volontarie nei primi 12 mesi di vita del bambino.
 

Quale sia, ancora una volta, la ratio di questa scelta legislativa resta un mistero, essendo evidente che la presenza del padre è molto più necessaria in una fase successiva alla nascita e non certo nel periodo immediatamente precedente o successivo alla nascita del figlio, quando a favore della mamma lavoratrice si muove l’intero welfare familiare dei nonni, fratelli, sorelle e zie.
 

Un terzo tema riguarda la convalida delle dimissioni davanti all’Ufficio del Lavoro, obbligatoria per entrambi i genitori in caso di dimissioni volontarie presentate entro i tre anni di vita del bambino.
 

Stando alla lettura sistematica della norma la disposizione, come detto, si applica anche al padre lavoratore che non abbia fruito del congedo obbligatorio, e costituisce condizione di efficacia della risoluzione del rapporto di lavoro. Fino alla convalida, dunque, il rapporto di lavoro resta sospeso.
 

Risulta obbiettivamente difficile intravvedere, se non la ratio, almeno la logica della convalida, alla quale non risulta connesso alcun obbligo o beneficio a favore dei due genitori. Né, peraltro, la legge si pone il problema di sanzionare il genitore che non informa tempestivamente la propria azienda della nascita (o semplicemente dell’età raggiunta dal figlio all’atto di presentazione delle dimissioni), lasciando in tal modo aperto un potenziale conflitto sulla sussistenza del rapporto di lavoro in caso di successivo ripensamento del dimissionario, anche a distanza di mesi.
 

Si potrebbe forse ipotizzare (in modo un po’ spericolato) che l’intento del legislatore, sottointeso ma non esplicitato attraverso una norma, sia quello di sollecitare il datore di lavoro a valutare, di volta in volta, la reale motivazione delle dimissioni presentate dal genitore entro il terzo anno di vita del figlio, adottando se del caso misure appropriate per favorire un eventuale ripensamento. Al di là, ovviamente, delle ipotesi in cui, oggettivamente, la risoluzione del rapporto avviene in specifici casi previsti dalla legge o dal contratto collettivo (scadenza del contratto a termine, cessazione dell’attività aziendale, licenziamento per giusta causa, ecc.).
 

Ma escludendo questa ipotesi, certamente fantasiosa, cosa dovrebbe accertare l’Ufficio del Lavoro in sede di convalida oltre al dato anagrafico dell’età del bambino? Forse il comportamento datoriale o il contesto lavorativo successivo alla nascita del figlio?  E se anche, per ipotesi, emergesse che le dimissioni del genitore siano state volontariamente «offerte» ma sostanzialmente «sofferte» e dunque conseguenza di un disagio vissuto nell’ambiente di lavoro dal genitore dopo la nascita del figlio, cosa potrebbe fare l’Ufficio quando sia trascorso il periodo in cui vige il divieto di licenziamento?  Quali azioni potrebbe assumere? Rifiutare la convalida? Disporre un accertamento?
 

I dubbi sulla disciplina dei congedi, obbligatori o facoltativi, restano dunque ancora in molti casi aperti. E forse sarebbe utile un supplemento di riflessione sull’intera materia.
 

Antonio Tarzia

ADAPT Professional Fellow

I congedi obbligatori e facoltativi dopo la riforma della l. n. 105/2022: problemi ancora aperti