Il dovere della memoria per i nostri giovani e per i nostri studenti

È certamente un caso che la nuova riforma del lavoro – varata dal Governo Renzi a marzo e ora in via di definitiva approvazione (con rilevanti modifiche) in Parlamento – cada a cavallo del giorno dedicato alla memoria delle vittime del terrorismo. L’occasione è tuttavia particolarmente preziosa per restituire alla memoria collettiva, specialmente dei più giovani, la storia di tutte le vittime del terrorismo, dalle più note e celebrate a quelle rimaste in ombra: storia che, per larghi tratti, si sovrappone a quella del riformismo del lavoro in Italia.

 

Ricordiamo, tra i tanti, Ezio Tarantelli, ucciso a Roma la mattina del 27 marzo 1985, mentre usciva dalla sede della Facoltà di Economia de La Sapienza dove insegnava Economia politica. Allievo di Franco Modigliani, Tarantelli aveva proposto alle forze politiche e sociali un originale intervento di predeterminazione dell’inflazione, poi recepito nell’accordo di San Valentino del 14 febbraio 1984 sulla scala mobile e che si rivelerà decisivo per governare, attraverso un sapiente “gioco d’anticipo”, quelle spinte inflazionistiche che tanto incidevano sulla nostra economia e sulle retribuzioni dei lavoratori.

 

Ricordiamo anche Massimo D’Antona, ucciso a Roma la mattina del 20 maggio 1999, mentre usciva di casa per recarsi al lavoro. Giurista fra i più colti e profondi della sua generazione, D’Antona aveva offerto il suo prezioso contributo progettuale per la regolamentazione di alcuni degli snodi cruciali del diritto del lavoro.

 

Ricordiamo infine l’amico e Maestro Marco Biagi, ucciso dalle Brigate Rosse la sera del 19 marzo 2002, raggiunto da cinque colpi d’arma da fuoco mentre faceva rientro nella propria abitazione nel centro storico di Bologna, a pochi passi dalle Due Torri. Allievo di Federico Mancini, da cui aveva recepito l’importanza del metodo comparato e il lavorare “a progetto”, Biagi era impegnato in un ambizioso progetto di modernizzazione del nostro diritto del lavoro che, ancora oggi, è rimasto al punto in cui lo aveva ipotizzato attraverso la codificazione di uno Statuto dei nuovi lavori.

 

Ci rivolgiamo soprattutto ai nostri giovani studenti e ricercatori e a quanti, come loro, non conoscono questi volti e queste storie, per dire che, purtroppo, non stiamo parlando di un capitolo chiuso, di una vicenda che appartiene al passato del nostro Paese. Chi, negli ultimi quindici anni, a partire dalla approvazione del «pacchetto Treu» del 1997 fino al «Jobs Act» dei nostri giorni, ha seguito da vicino i temi del lavoro sa bene che così non è e che vi sono anzi numerosi elementi di allarme e preoccupazione che potrebbero trovare nella perdurante crisi economica in atto e nella delegittimazione dei corpi intermedi (sindacato in primis) un potente detonatore.

 

Certamente, e fortunatamente, negli ultimi anni il numero degli omicidi e degli atti terroristici non è comparabile con quello che, negli anni di piombo, appariva un vero e proprio bollettino di guerra. Ma tutto il processo di modernizzazione del nostro diritto del lavoro è ancora oggi costellato da una miriade di intimidazioni, brutalità, violenze. Se il nostro è l’unico Paese al mondo in cui una persona viene uccisa per il solo fatto di avere ideato e progettato una riforma del mercato del lavoro ci sarà pure una ragione. E questa va forse trovata nel contesto culturale di odio e di delegittimazione sistematica dell’avversario che, anche attraverso palesi mistificazioni, condiziona, da sempre e ancora oggi, il dibattito sul lavoro. Uccidendo Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona e Marco Biagi i terroristi non individuarono, infatti, obiettivi simbolici. Né ad essi si può applicare il semplicistico schema del “colpirne uno per educarne cento”.

 

Il loro ruolo di uomini delle istituzioni e servitori dello Stato, rimarcato con ottuso disprezzo nei volantini di rivendicazione, è stata semmai la vera ragione della loro condanna. Proprio il loro agire con mente aperta, senza condizionamenti e logiche di parte e in funzione di una visione generale nell’interesse dell’intero Paese, ne faceva uomini chiave nel non facile tentativo di ricercare innovative soluzioni di compromesso e sintesi più avanzate tra i diversi punti di vista che si confrontano e scontrano in ogni società.

 

Uccidendoli i terroristi hanno voluto colpire quelle rare figure di raccordo tecnico-istituzionale – penso, sul terreno delle riforme istituzionali, anche alla figura di Roberto Ruffilli, generosamente impegnato in un delicato lavoro di rinnovamento della politica e delle istituzioni democratiche – che rendono concretamente praticabili, in termini di tessitura del dialogo e di terzietà dell’apporto consulenziale, riforme apparentemente impossibili come quelle di cui si discute da svariati decenni nell’ambito delle relazioni industriali e di lavoro. Talvolta, come nel caso di Walter Tobagi e di Marco Biagi, oggetto di una campagna di denigrazione e violenza verbale che, nel creare una situazione di solitudine e isolamento, spesso anticipa la violenza fisica e il barbaro assassinio. Vittime non solo designate, ma anche lucidamente consapevoli di ciò, eppure tenacemente convinte della necessità di non cedere il passo e di andare avanti. Con animo sereno sorretto da una fede che li induce a non pretendere di essere artefici del proprio destino umano.

 

L’essenza del riformismo del lavoro è tutta qui. Nella capacità progettuale di indicare, a chi si ostina nella strenua conservazione dell’esistente o nella rottamazione a prescindere, nuovi possibili equilibri e modelli innovativi di regolazione dei rapporti economici e sociali. Nella capacità di cogliere e portare a frutto tutti i germogli positivi di una società che vive una grande trasformazione a partire dal lavoro e per questo lacerata, oggi come trenta anni fa, anche se per motivi e con manifestazioni esteriori certo assai diverse.

 

L’analogia più impressionante fra le vicende di allora e l’ultima stagione delle riforme del lavoro sta, a mio avviso, proprio qui. Nella tenacia, nella disperata solitudine di uomini coraggiosi capaci più di altri, anche grazie al confronto con l’Europa e con i modelli presenti in altri ordinamenti, di leggere gli scenari futuri dei rapporti giuridici, economici e sociali e di contrapporre il dialogo e la forza del merito alla radicalizzazione ideologica e faziosa della dialettica politica e sindacale. Uomini e intelligenze, ora come allora, consapevoli che le tutele dei lavoratori possono essere mantenute e soprattutto rese effettive solo in un quadro di relazioni industriali di tipo partecipativo, in grado cioè di assecondare e governare l’evoluzione dei processi economici e sociali in atto nel rispetto di un equilibrio tra ragioni dell’impresa ed istanze di tutela della persona che lavora. Il loro non era un disegno elitario, ostile alle ragioni dei lavoratori.

 

Il tempo, che come sappiamo è galantuomo, consente oggi di dimostrare che la loro proposta ha contribuito a migliorare in modo concreto le condizioni di vita e di lavoro dei più deboli e degli esclusi dando loro maggiori opportunità, nuove e più effettive tutele. Nel mio lungo periodo di apprendistato nella bottega artigiana di Marco Biagi e soprattutto ora, in questi ultimi anni, a ruoli invertiti, nella formazione dei tanti giovani apprendisti della nostra Scuola, posso serenamente testimoniare che i riformisti del lavoro non sono eroi e tantomeno ambiscono a targhe e medaglie, specie se alla memoria. Ma non sono neppure una razza maledetta. Come ebbe a scrivere il Maestro di Marco, Federico Mancini, nell’introduzione al saggio Terroristi e riformisti del 1981, il riformista «non è un’anima bella e non ne mena scandalo». È idealista, ma non ingenuo. Si muove lungo l’orizzonte delle riforme possibili. Non cerca l’utopia. Spesso, anzi si accontenta di ogni anche più piccolo contributo che possa rendere la nostra società almeno un poco più decente.

 

Il riformista del lavoro sa però anche che la strada del cambiamento democratico può pretendere confronti duri e non ha paura, quando serve, di fare un concreto passo in avanti e indicare una visione e una linea di confronto più alta per sconfiggere e mettere all’angolo ogni spirito deleterio di pura conservazione.
Credo che questo fosse il senso delle ultime parole di Marco Biagi scritte per il suo amato Sole 24 Ore nel fondo consegnato il 19 marzo 2002, là dove chiudeva il ragionamento a sostegno della sua legge riconoscendo, con una profezia tragica, che «ogni processo di modernizzazione avviene con travaglio, anche con tensioni sociali, insomma pagando prezzi anche alti alla conflittualità».

 

La manutenzione della memoria è un compito doveroso e ciò non di meno estremamente delicato perché investe emotività e sensibilità profondamente differenti. Incrocia terreni inviolabili. Non di rado tocca nervi ancora scoperti del nostro corpo sociale. Alimenta travagli. Talvolta vere e proprie lacerazioni nel tessuto della rappresentanza politica e sindacale che ancora faticano a comporsi. Dobbiamo pertanto essere grati al Parlamento italiano per avere istituito, con la legge 4 maggio 2007, n. 56, il Giorno della memoria dedicato a tutte le vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice.

 

Percorsi di lettura:

 

L. Montuschi, M. Tiraboschi, T. Treu, Marco Biagi: Un giurista
progettuale, Giuffrè, Milano, 2003 pdf_icon

M. Biagi, Progettare per modernizzare, in T. Treu, Politiche del
lavoro. Insegnamenti di un decennio, Il Mulino, Bologna, 2002 pdf_icon

M. Biagi, Federico Mancini: un giurista “progettuale”, Bologna, 2001

 

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

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