Fine dell’articolo 18? Anatomia di una riforma chiamata Jobs Act

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Bollettino ADAPT 4 marzo 2024, n. 9
 
Il Jobs Act così come lo abbiamo conosciuto nel 2015 non esiste più. L’obiettivo della riforma – contenuta nella lettera della legge-delega n. 183 del 2014 – era quello di incrementare l’occupazione facendo leva su due importanti poli: da un lato, il potenziamento e il rafforzamento dell’azione dei servizi pubblici nella gestione delle politiche attive (art. 1, commi 3 e 4); dall’altro, rivedere il sistema sanzionatorio del licenziamento (art. 1, comma 7, lett. c), con l’obiettivo di “superare” l’art. 18 St. Lav. In questo senso, il legislatore delegato ha adottato il d.lgs. 14 settembre 2015, n. 150 allo scopo di riordinare la normativa in materia di servizi per il lavoro e le politiche attive e il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 allo scopo di ripensare le tutele a fronte dei licenziamenti dichiarati illegittimi.
 
Lasciamo ad altri le valutazioni sulla capacità di questa riforma di aver raggiunto o meno tali scopi, consapevoli del fatto che ogni tentativo in tal senso è piuttosto arduo posto che nel nostro Paese manca una robusta cultura del monitoraggio e della valutazione del reale funzionamento delle leggi di riforma del mercato del lavoro (T. Treu, Dal pacchetto Treu alla legge Biagi. Intervista a Tiziano Treu, in M. Tiraboschi (a cura di), Venti anni di Legge Biagi, Adapt University Press, 2023, p. 3).
 
Ciò che, invece, possiamo constatare nell’immediato è, in primis, il mancato superamento dell’art. 18 St. Lav., considerato che il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 non ne ha mai disposto l’abrogazione, avendo semplicemente stabilito per i lavoratori e le lavoratrici assunte da una certa data in poi (7 marzo 2015), l’applicazione di un diverso regime sanzionatorio. Senza contare, poi, che in non pochi casi la contrattazione ne ha comunque garantito l’applicazione anche ai c.d. “nuovi assunti” (M. Tiraboschi, L’art. 18 come benefit? A proposito del caso Novartis e dell’applicazione in via pattizia del regime di stabilita reale del contratto di lavoro, in D. Mosca, P. Tomassetti (a cura di) La trasformazione del lavoro nei contratti aziendali Una analisi di buone prassi contrattuali, Adapt Labour Studies, n. 44, 2015, p. 146 e ss.; G. Piglialarmi, Gli accordi anti-Jobs Act, ancora un fenomeno marginale?, in GLav, 21 settembre 2018, n. 37, p. 37 e ss).
 
Inoltre, bisogna anche prendere atto della abolizione dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) ad opera del DPCM 22 novembre 2023, n. 230. Infine, non vanno trascurati i ripetuti interventi della Corte Costituzionale sul d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, i quali hanno sostanzialmente vanificato l’impianto di fondo del nuovo regime sanzionatorio, utile a consentire al datore di lavoro di prevedere il costo di un licenziamento potenzialmente esposto a censure di legittimità (c.d. firing cost). Di questa (ennesima) riforma, dunque, non resta quasi più nulla, se non un cospicuo numero di pronunce della Corte Costituzionale (ben 7) che oggi orientano imprese e lavoratori sulle conseguenze derivanti dal licenziamento illegittimo. Peraltro, non si conoscono riforme che siano state scrutinate così tante volte dal giudice delle leggi. Si potrebbe sostenere che nonostante sia venuta meno la prevedibilità del “costo” del licenziamento, del Jobs Act resterebbe in piedi comunque un sistema sanzionatorio molto più orientato alla tutela indennitaria che a quella reintegratoria. Ma sappiamo bene che l’area della tutela reale era stata già “ristretta” dalla riforma dell’art. 18 St. Lav. ad opera della Legge Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92).
 
La tabella che segue mira a fornire un quadro sinottico di tutti gli interventi della Corte Costituzionale sul d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, identificando la disposizione normativa scrutinata, l’esito del giudizio e il principio di diritto scaturente dalla decisione della Corte. Sebbene le dichiarazioni di incostituzionalità espresse siano soltanto 3 (C. Cost. 8 novembre 2018, n. 194; C. Cost. 16 luglio 2020, n. 150; C. Cost. 22 febbraio 2024, n. 22), in altre pronunce (C. Cost. 26 novembre 2020, n. 254; C. Cost. 7 maggio 2021, n. 93) la Corte dà atto di non poter entrare nel merito della questione di legittimità costituzionale a causa di vizi contenuti nell’ordinanza di remissione della questione. In un altro caso, invece, la Corte ha solo “rimandato” una possibile dichiarazione di incostituzionalità, mettendo in mora il legislatore nel richiedere un suo esplicito intervento in materia (C. Cost. 22 luglio 2022, n. 183). Gli effetti che tali pronunce hanno comportato sono diversi: a) in caso di licenziamento illegittimo, non è più possibile tenere conto della sola anzianità di servizio nel determinare l’indennità risarcitoria di cui agli artt. 3 e 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23; b) sebbene manchi ancora un intervento legislativo sul punto, è acclarato che, alla luce della trasformazione dei processi produttivi, la dimensione occupazione tra più o meno 15 dipendenti non è più indicativa della effettiva forza economica del datore di lavoro, né rispecchia la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno ai sensi dell’art. 9 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23; c) in caso di licenziamento nullo ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, la tutela reintegratoria si applica a tutti i casi di nullità previsti dalla legge, anche laddove la sanzione della reintegrazione non è espressamente prevista.
 

Estremi della pronuncia Disposizione normativa scrutinata

 

Esito Massima
8 novembre 2018, n. 194
(giudice relatore Silvana Sciarra)

 

 

art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
(criteri per la determinazione dell’indennità risarcitoria a fronte di un licenziamento illegittimo)
Dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 In conseguenza della declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 (sia nel testo originario, sia nel testo modificato dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, conv., con modif., nella legge n. 96 del 2018), il giudice – nel rispetto del limite minimo (quattro, elevate a sei, mensilità) e del limite massimo (ventiquattro, elevate a trentasei, mensilità) entro i quali va determinata l’indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato – terrà conto innanzi tutto dell’anzianità di servizio (quale criterio prescritto dall’art. 1, comma 7, lett. c, della legge delega n. 184 del 2013 e al quale è ispirato il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015) nonché degli altri criteri desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
16 luglio 2020, n. 150
(giudice relatore Silvana Sciarra)

 

art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015
(criteri per la determinazione dell’indennità risarcitoria a fronte di un licenziamento viziato per ragioni di forma o procedurali)
Dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 È dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3, 4, primo comma, e 35, primo comma, Cost. – l’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, limitatamente alle parole «di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». La norma, nel prevedere un criterio di commisurazione dell’indennità da corrispondere per i licenziamenti viziati sotto il profilo formale o procedurale ancorato in via esclusiva all’anzianità di servizio, determina un’indebita omologazione di situazioni profondamente diverse, accentua la marginalità dei vizi formali e procedurali e ne svaluta ancor più la funzione di garanzia e tutela della dignità della persona del lavoratore, soprattutto nei casi di modesta anzianità di servizio. Il giudice, pertanto, nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, determinerà l’indennità innanzitutto in base all’anzianità di servizio e, in chiave correttiva, con apprezzamento motivato, potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema, che concorrano a rendere la determinazione dell’indennità aderente alle particolarità del caso concreto, come la gravità delle violazioni, il numero degli occupati, le dimensioni dell’impresa, il comportamento e le condizioni delle parti. Spetta in ogni caso alla responsabilità del legislatore ricomporre secondo linee coerenti una normativa di importanza essenziale, che vede concorrere discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari.
26 novembre 2020, n. 254
(giudice relatore Silvana Sciarra)

 

artt. 1, 3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015
(regime sanzionatorio per licenziamenti collettivi intimati in violazione delle procedure o dei criteri di scelta)
Dichiarata inammissibile la questione di costituzionalità sull’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e sugli artt. 1, 3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 Sono dichiarate inammissibili, per insufficiente motivazione sulla rilevanza e ambiguità del petitum, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d’appello di Napoli sull’art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014 e degli artt. 1, 3 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella versione antecedente alle modifiche dettate dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 87 del 2018, conv. con modif. nella legge n. 96 del 2018 che, con riguardo al contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, prevedono, per le ipotesi di licenziamenti collettivi intimati in violazione delle procedure o dei criteri di scelta, il diritto ad una tutela esclusivamente monetaria. In ordine alla rilevanza, il giudice d’appello trascura di descrivere la fattispecie concreta e di allegare, anche solo con un’argomentazione non implausibile, elementi idonei a corroborare l’accoglimento dell’impugnazione in virtù di una violazione dei criteri di scelta, che era già stata esclusa dal giudice di prime cure. È inoltre incerto l’intervento richiesto poiché, dalla formulazione delle censure, non è dato comprendere se il rimettente prefiguri una pronuncia ablativa o manipolativa ed inoltre permane l’alternativa – che comunque investe le scelte eminentemente discrezionali del legislatore – tra il ripristino puro e semplice della tutela reintegratoria o la rimodulazione della tutela indennitaria, in una più accentuata chiave deterrente.
7 maggio 2021, n. 93
(giudice relatore Silvana Sciarra)
 
art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015
(criteri per la determinazione dell’indennità risarcitoria a fronte di un licenziamento viziato per ragioni di forma o procedurali)
Dichiarata manifestamente inammissibile, per sopravvenuta carenza di oggetto, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015 Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 del d.lgs. n. 23 del 2015, non può essere presa in esame la richiesta della parte costituita di dichiarare costituzionalmente illegittima, in via consequenziale, la previsione dell’ammontare massimo dell’indennità risarcitoria spettante per i licenziamenti viziati dal punto di vista formale o procedurale. Tale richiesta sottende una diversa questione e mira ad ampliare irritualmente il tema del decidere, così come delimitato dall’ordinanza di rimessione, ove le censure del giudice a quo si appuntano sul meccanismo di determinazione dell’indennità e non sull’ammontare – minimo e massimo – determinato dal legislatore.
22 luglio 2022, n. 183
(giudice relatore Silvana Sciarra)
 
art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
(regime sanzionatorio per licenziamenti illegittimi intimati nelle imprese con meno di 15 dipendenti)
Dichiarata inammissibile la questione di costituzionalità sull’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 Sono dichiarate inammissibili, per richiesta di intervento implicante scelte affidate alla discrezionalità del legislatore, le questioni di legittimità costituzionale relative all’art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, in base al quale, per i lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nell’ipotesi di licenziamento illegittimo intimato da datori di lavoro che non possiedono i requisiti dimensionali di cui all’art. 18, commi 8 e 9, della legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), l’ammontare delle indennità è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità. La norma censurata si caratterizza per alcune disarmonie che traggono origine, per un verso, dall’esiguità dell’intervallo tra l’importo minimo e quello massimo dell’indennità e, per altro verso, dal criterio distintivo individuato dal legislatore, che si incardina sul numero degli occupati. Quanto al primo profilo, un’indennità costretta entro l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza. Quanto al secondo profilo, il limitato scarto tra il minimo e il massimo determinati dalla legge conferisce un rilievo preponderante, se non esclusivo, al numero dei dipendenti, quando invece oggi tale criterio, in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, non è più indicativo della effettiva forza economica del datore di lavoro, né rispecchia la gravità del licenziamento arbitrario e neppure fornisce parametri plausibili per una liquidazione del danno che si approssimi alle particolarità delle vicende concrete. Tuttavia, spetta alla valutazione discrezionale del legislatore la scelta delle soluzioni più appropriate per garantire tutele adeguate, fermo restando che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e indurrebbe la Corte costituzionale, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente.
22 gennaio 2024, n. 7
(giudice relatore Giovanni Amoroso)
 
artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015
(disciplina sanzionatoria per il licenziamento collettivo dichiarato illegittimo per violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero o per vizi procedurali)
Dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 È dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015, nella parte in cui modificano la disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, eliminando, per quelli assunti dopo il 7 marzo 2015, la tutela reintegratoria, con concentrazione nella sola tutela indennitaria determinata con la previsione di un “tetto” massimo. Il limite massimo di ventiquattro mensilità, elevato a trentasei dal d.l. n. 87 del 2018, come conv., non si pone in contrasto con il canone di necessaria adeguatezza del risarcimento, che richiede che il ristoro sia tale da realizzare un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. La dissuasività della disciplina dell’illegittimità dei licenziamenti e l’adeguatezza del ristoro vanno valutate con riferimento alla regolamentazione complessiva, articolata nella tutela reintegratoria e in quella solo indennitaria secondo un criterio di gradualità e proporzionalità che vede la tutela reintegratoria nei casi di violazioni più gravi e quella solo indennitaria negli altri.
22 febbraio 2024, n. 22
(giudice relatore Giovanni Amoroso)
 
art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015
(regime sanzionatorio per i licenziamenti nulli)
Dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015 Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alla parola “espressamente”, dovendosi ritenere tale disposizione illegittima nella parte in cui, nel riconoscere la tutela reintegratoria, nei casi di nullità, previsti dalla legge, del licenziamento di lavoratori assunti con contratti a tutele crescenti (quindi a partire dal 7 marzo 2015), l’ha limitata alle nullità sancite “espressamente”. Dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola “espressamente”, consegue che il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra l’espressa sanzione della nullità, sia che ciò non sia testualmente previsto, sempre che risulti prescritto un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti.

 
Giovanni Piglialarmi

Ricercatore in diritto del lavoro
Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@Gio_Piglialarmi

Fine dell’articolo 18? Anatomia di una riforma chiamata Jobs Act