“Ecco perché scegliamo l’apprendistato di primo livello”. Intervista a Franco Bercella

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Bollettino ADAPT 25 febbraio 2019, n. 8

 

Bercella S.r.l. è un’azienda manifatturiera che si occupa dello sviluppo e della produzione di materiali compositi per i settori aerospace, difesa e automotive, con sede a Varano de’ Melegari, in provincia di Parma. È un’azienda di medie dimensioni, con settanta dipendenti, e una forte propensione all’export. Accoglie ragazzi in alternanza scuola-lavoro e, soprattutto, in apprendistato di primo livello, strumento quest’ultimo che hanno deciso di adottare con convinzione, riconoscendolo come strumento utile per favorire una crescita integrata a livello territoriale. La presente intervista, realizzata con il titolare dell’azienda Franco Bercella, vuole approfondire i perché dietro la scelta di investire sull’apprendistato.

 

Come e quando nasce Bercella S.r.l.?

 

Sono sempre stato innamorato delle tecnologie, che sono anche il mio hobby. Lavoravo in Dallara, un’azienda che si occupa di automotive, e 23 anni fa ho deciso di mettermi in proprio per fondare una mia azienda. Con l’ingegner Dallara, che è un po’ il mio secondo padre, il quali mi ha aiutato sin da subito dandomi dei preziosi consigli fin da subito e abbiamo iniziato a lavorare assieme. Ci occupavamo soprattutto di prototipazione rapida utilizzando, ed eravamo tra i primi in Italia, materiali compositi. La crescita dell’azienda è stata la crescita del territorio: attraverso una collaborazione fattiva con gli altri imprenditori della zona abbiamo contribuito a costruire delle realtà di eccellenza, da qualche tempo riconosciute come protagoniste della c.d. Motor Valley, la zona dell’Emilia dove hanno sede e producono Ferrari, Lamborghini, Ducati – solo per citare le più note. La nostra logica di crescita ha sempre avuto come orizzonte il territorio nel quale siamo inseriti, lavorando fianco a fianco con gli altri imprenditori, ed è per questo che abbiamo deciso di scommettere sull’apprendistato come leva per la crescita locale.

 

È quindi in quest’orizzonte territoriale che nasce l’interesse per l’apprendistato. Da quanto tempo utilizzate questo strumento, e perché?

 

Tutto ha inizio nove anni fa. L’istituto superiore Gadda, situato nella vicina Fornovo di Taro (PR), formava diplomati che, però, non riuscivano a trovare lavoro: la scuola li preparava per mestieri e gli dava competenze non richieste dal territorio. Ci accorgemmo, a un certo punto, che gli stessi venti diplomati giravano da un’azienda all’altra, cercando lavoro invano, o dimettendosi dopo poco tempo. Come imprenditori, decidemmo di collaborare realizzando un corso di riqualificazione professionale della durata di 300 ore, dove aprimmo le nostre aziende agli studenti. Si imparava girando da un’azienda all’altra, con l’esperienza concreta e sul campo. Alla fine del percorso, tutti e venti i ragazzi erano occupati. Se mi permettete la metafora, gli “ingredienti” erano gli stessi: cos’era cambiato? La “ricetta” utilizzata: quei ragazzi, messi alla prova in un percorso formativo dove le competenze erano ottenute nella pratica lavorativa, erano diventati ottimi collaboratori. Allora, tra noi imprenditori, ci chiedemmo: perché non rendere sistema questo strumento, finora occasionale? Decidemmo quindi di collaborare con le scuole locali, in primis con l’istituto Gadda, per formare assieme i giovani, realizzando un sistema di partnership pubblico-privato. La scuola, nello stesso periodo, stava subendo un drastico calo di iscrizioni, gli studenti iscritti alla prima classe diminuivano del 30% all’anno. È stato quindi interesse comune mettersi in gioco per creare, dialogando, ognuno a partire dalla propria specifica esperienza, un metodo con cui formare i giovani del territorio.  E i numeri, per ora, ci stanno dando ragione: oggi gli studenti del Gadda aumentano del 300%. Questo è un dato significato anche per le imprese: significa che stiamo lavorando per la competitività del nostro territorio, evitando che i giovani vadano altrove a studiare o lavorare, e formando giovani dotati di competenze capaci di renderli facilmente occupabili. Il metodo che abbiamo scelto per arrivare a quest’obiettivo è stato quello del “fare per imparare”: mettere a disposizione le nostre aziende, i nostri dipendenti, aprirli alla scuola, e di rimando entrare – noi stessi – a scuola, favorendo la creazione di laboratori tecnologici e collaborando con i docenti per la progettazione di una didattica veramente integrata, tra scuola e lavoro. Non c’è – o meglio, non ci dovrebbe essere – un “salto” tra scuola e lavoro, ma una continuità: ad esempio, noi assegniamo ai ragazzi delle superiori alcuni compiti che hanno poi un utilizzo pratico. E sui quali continuano a lavorare quando entrano in azienda. Lavoriamo quindi per la creazione di un unico ecosistema scuola-lavoro. Da qui, quasi naturalmente, la scelta dell’apprendistato di primo livello, che da un paio d’anni utilizziamo per formare i giovani e accompagnare il loro ingresso in azienda. Abbiamo assunto anche apprendisti di terzo livello, iscritti all’ITS Maker di Bologna, specializzato nell’automotive, o in collaborazione con il Politecnico di Milano e l’Università di Parma.

 

L’apprendistato in Italia è diffuso soprattutto nella sua forma professionalizzante, che rappresenta quasi il 97% del totale degli apprendistati, mentre l’apprendistato di primo e terzo livello sono in calo. Dal quadro d’insieme emerge quindi un apprendistato in cui non c’è formazione, constatazione questa che mette in dubbio il valore stesso dell’istituto, soprattutto nelle sue versioni più formative. Quando poi si parla di apprendistato di primo livello, la giovane età degli apprendisti fa sospettare che siano sfruttati o utilizzati per compiti poco formativi, in quanto non dotati delle giuste competenze. Qual è il percorso di formazione di un apprendista in Bercella S.r.l.?

 

Parte della “colpa” è di noi imprenditori, che spesso non riconosciamo il valore strategico della formazione, soprattutto di quella che non ha come orizzonte solamente i nostri dipendenti ma lo stesso territorio. Noi realizziamo percorsi d’apprendistato di primo livello di durata biennale, in quarta e quinta. In terza invece i ragazzi svolgono un periodo d’alternanza scuola-lavoro. Il ragazzo in apprendistato non è qui per imparare un mestiere: indubbiamente guadagna competenze utili per il proprio futuro professionale, ma il primo obiettivo è quello di generare consapevolezza. Consapevolezza di che cos’è il lavoro, di cosa vuol dire lavorare spalla a spalla con qualcuno che ti accompagna passo dopo passo in ciò che fai, consapevolezza del gusto di un lavoro fatto bene, del senso complessivo dell’impresa così com’è inserita nel proprio territorio. È questa consapevolezza che rende davvero occupabili: nel nostro settore, imparare il lavoro è un processo che dura anni. Anche i professionisti già formati, quando arrivano da noi in azienda, hanno bisogno di un periodo di 7-8 mesi per cominciare a comprendere le nostre logiche. È impossibile pensare che un giovane, in due anni, mentre va a scuola, impari tutto quel bagaglio di competenze che si ottiene solo con l’esperienza. Può però guadagnare la consapevolezza di cosa significa il lavoro, di cosa significa per lui. Alla fine del percorso, può allora capire che la mia azienda non va bene per lui, e va in quella del vicino: ma ciò è comunque un bene, perché io ho contribuito a formare un lavoratore di qualità. Dato che la competitività si gioca tra territori, ho comunque raggiunto il mio obiettivo. Questo lo scopo: per quanto riguarda poi il metodo, è la stessa modalità con cui si organizza il lavoro in azienda che genera processi d’apprendimento continuo. Noi in Bercella utilizziamo un “flusso di inserimento e formazione”, nel quale ogni nuova risorsa è collocata. Si viene affiancati, a turno, a diversi lavoratori, per comprendere meglio le proprie inclinazioni e interessi, ma anche per avere uno sguardo globale su cos’è l’impresa. Non si è mai soli, e passo dopo passo, si è accompagnati in un percorso di crescita continuo, che diventa poi anche di condivisione della propria conoscenza, con i nuovi ingressi e con i colleghi. Alla base c’è un’organizzazione del lavoro finalizzata ad esaltare il know-how aziendale e condividerlo attraverso flussi d’apprendimento dinamici. Ad esempio: un ragazzo entra in azienda in apprendistato, viene assegnato ad un ufficio, dove affianca un lavoratore senior. Poi viene spostato in officina, magari per una propria predilezione “tecnica”, e viene affiancato ad un altro lavoratore. A sua volta, quando arriverà un altro apprendista, il primo potrà aiutarlo ad orientarsi. Anche in questo caso, infatti, l’elemento fondamentale è la consapevolezza. Consapevolezza di come muoversi all’interno dell’azienda, consapevolezza del proprio ruolo all’interno di un processo più grande. Questa consapevolezza si costruisce in due modi, tra loro complementari: attraverso la formazione e l’organizzazione del lavoro. È all’interno di queste dinamiche che l’apprendistato vede esaltate le sue qualità. Un altro elemento di metodo è coinvolgere apprendisti e studenti nella realizzazione di progetti aziendali: ad esempio, a un gruppo è stato assegnato il compito di realizzare parte di un bastone per non vedenti, che verrà poi perfezionato e dato in beneficenza ad una onlus. Messi così in gioco, davanti alla realtà e riconoscendo il senso di quello che fanno, possono davvero esprimersi e crescere, umanamente prima che professionalmente. È la crescita della persona quella che ci interessa.

 

L’apprendistato di primo livello è un sistema integrato tra scuola e lavoro. Nella vostra esperienza, qual è il ruolo della scuola e quale quello dell’impresa?

 

La scuola gioca un ruolo fondamentale, quello di dare ai giovani le nozioni e le conoscenze necessarie per il loro futuro professionale. Ma questo non basta, se non dialoga con il tessuto produttivo nel quale è inserita. Con l’apprendistato la didattica dialoga con l’impresa, e in questo è fondamentale il lavoro dei tutor formativi, della scuola e dell’azienda. Il loro obiettivo, insieme a quello dei professori e dei dipendenti, è infatti quello di “tenere assieme” nel processo d’apprendimento del giovane ciò che impara dietro un banco con ciò che vede all’opera in azienda. Ma prima di tutto, la scuola è chiamata ad aiutare i giovani a conoscere il territorio in cui vivono, e le aziende che in esso lavorano. Le nostre imprese, viste da fuori, sembrano tutte uguali: bisogna viverle da dentro. E qui entra in gioco il ruolo degli imprenditori, che devo spalancare i propri cancelli a studenti e ai loro genitori. Questo è orientamento! La conoscenza del tessuto produttivo del proprio territorio non vuol dire “piegare” la scuola al lavoro, ma aiutare processi di formazione che portano alla consapevolezza che sopra si richiamava. Abbiamo tutti bisogno di imparare a dialogare e collaborare, per costruire assieme il nostro futuro, per il quale le competenze sono tanto importanti quanto i bilanci aziendali.

 

Molti imprenditori riconoscono nell’apprendistato un “costo” e poco altro, oppure sono dubbiosi perché scoraggiati dalla burocrazia. Quale la sua opinione in proposito?

 

Per prima cosa, ritengo che quando un imprenditore si giustifichi dicendo che “non ha tempo”, stia sbagliando: tutti abbiamo lo stesso tempo a disposizione, dipende come lo impieghiamo e su cosa investiamo. Io seguo gli open day aziendali, aperti a studenti e genitori, che realizziamo il sabato mattina. Avrei altro da fare? Certamente. Ma riconosco in quell’attività un investimento strategico per il futuro del territo, non solo come valore economico, ma sociale. L’apprendistato “costa”, prima di tutto, tempo e fatica: ma ogni imprenditore sa per esperienza che senza tempo e senza fatica non avrebbe potuto raggiungere nessun traguardo, una volta riconosciutone il valore. Il problema è allora tornare a riconoscere il valore di questi sistemi integrati scuola-impesa. Ma è una sfida urgente: in un territorio dove le imprese sono ricche e il tessuto sociale muore, c’è una bomba a orologeria, che prima o poi esploderà. Se non si investe nelle competenze e nella formazione dei giovani, aiutando le scuole, i giovani andranno a studiare – e lavorare – altrove: è così che un territorio muore. Investendo invece nell’apprendistato, investiamo nel nostro futuro come imprenditori, oltre che come cittadini di questo territorio. Una volta riconosciuto questo valore, si può affrontare qualsiasi sfida, anche perché non si è da soli: la prima cosa da fare è mettersi in gioco, andare a parlare con le scuole, con gli imprenditori che hanno già realizzato questi progetti. Noi siamo contattati quotidianamente per consigli o richieste di supporto: è facendo rete che è possibile superare la logica dei costi economici e burocratici, abbracciando un orizzonte più ampio.

 

Quale futuro per l’apprendistato in Italia? Cos’è necessario per promuoverne la diffusione, e quali consigli potete dare ad altri imprenditori?

 

Se l’apprendistato è scelto esclusivamente a fini occupazionali, per abbattere il costo del lavoro e senza una formazione veramente integrata, non ha futuro. O almeno, non ne ha nella misura in cui non è un “vero” apprendistato, cioè un percorso nel quale un giovane vede affiancato all’apprendimento “scolastico” la diretta esperienza della realtà del lavoro, in una logica di integrazione reciproca. Sicuramente gli imprenditori devono collaborare tra loro, adottare uno sguardo che li vede proiettati fuori dalle loro quattro mura, in una competizione globale, per la quale è necessario investire sul proprio territorio. Possono molto anche le realtà di rappresentanza datoriali, così come la politica, chiamata ad investimenti strategici per aiutare lo sviluppo delle imprese. È fondamentale anche lavorare molto sull’orientamento in uscita e favorire un “orientamento al lavoro”, con visite aziendali e una riflessione che nasce già in classe sul senso del lavoro. Altrettanto importante è investire sulla formazione dei tutor aziendali, sia per quanto riguarda la formazione interna che per promuovere il dialogo con la scuola. Senza poi un coinvolgimento attivo dei sistemi formativi, chiamati a mettersi anche loro in discussione, l’apprendistato non può prendere piede. Ad esempio sull’apprendistato di terzo livello siamo all’anno zero. Le università mi sembrano meno propense, rispetto alle scuole, a instaurare un dialogo, anzi: siamo noi che, bisognosi di giovani laureati, dobbiamo andare a chiedere. Sembra che il rapporto con le imprese sia un’opzione tra le altre, a conferma di una logica accademica ancora troppo autoreferenziale. Per fortuna non tutte le università sono così: però i numeri dell’apprendistato di terzo livello in Italia mostrano come per ora l’istruzione terziaria sia ancora parzialmente indifferente a questa logica di sviluppo territoriale e commistione tra teoria e pratica. È invece importante mettersi in gioco, collaborare, costruire assieme, tra imprenditori e tra imprese e scuole, condividere le buone pratiche così come le difficoltà. La sfida dell’apprendistato, e del futuro dei territori, si vince solamente assieme.

 

La sede di Bercella S.r.l. a Varano de’ Melegari

 

Matteo Colombo

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@colombo_mat

 

“Ecco perché scegliamo l’apprendistato di primo livello”. Intervista a Franco Bercella
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