Di cosa parliamo quando parliamo di legge sul salario minimo*

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Bollettino ADAPT 13 giugno 2022, n. 23
 
Il nostro mercato del lavoro ha tanti problemi e non da oggi. La politica ha deciso di occuparsi in questo periodo soprattutto di due tra questi: il lavoro povero e i bassi salari. Gli argomenti sono forzosamente trattati insieme, seppure si riferiscano a due nodi diversi per genesi e natura. In altri termini, la causa del lavoro povero non è da ricercarsi innanzi tutto nei bassi salari medi. Questa affermazione merita di essere approfondita in altra sede. Nelle righe seguenti ci si concentrerà invece sul tema di più stringente attualità: finalità e conseguenze di una eventuale legge sul salario minimo.
 
I c.d. working poor sono lavoratori occupati per più di sei mesi, con qualsiasi tipologia contrattuale, che si trovano in situazione di povertà relativa, ossia dispongono di un reddito inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. Si trova in questa condizione un lavoratore su dieci del nostro Paese. Tra le principali cause di questo fenomeno, crescente in tutto il mondo occidentale, vi sono la quantità (ore) e la qualità (modalità di coinvolgimento/assunzione) del lavoro. Rilevante, ma eziologicamente meno importante, è il livello salariale del settore ove si è occupati. Non a caso il rischio di povertà lavorativa è doppio per i lavoratori part-time rispetto a quelli a tempo pieno e triplo per i lavoratori con contratti a termine o per gli autonomi rispetto agli assunti a tempo indeterminato. È indubbio che si tratti di una problematica seria, che merita di essere affrontata senza esitazioni tecniche ed ideologiche.
 
Nei giorni scorsi il Parlamento Europeo, a seguito di un lungo processo negoziale, si è impegnato a recepire la direttiva sui salari minimi presentata dalla Commissione Europea il 20 ottobre 2020 proprio per affrontare questo problema, ossia promuovere livelli adeguati delle retribuzioni dei lavoratori per ridurre il lavoro povero. Una direttiva che non comporta alcuna correzione legislativa nei molti Paesi comunitari che già ora dispongono per legge o per contrattazione collettiva di riferimenti salariali superiori al limite del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano individuati dalla stessa direttiva come confine del lavoro povero. In Italia questi indici determinano un valore soglia di 7 euro/ora lordi, inferiore anche ai 7,66 euro/ora che è il limite di “working poverty” indicato da Eurostat.
 
Non sbagliano coloro che segnalano come in Italia manchi una legge che obblighi trattamenti salariali minimi, quale esiste in 21 dei 27 Paesi della Unione (con valori però assai diversi). Gli stessi non ricordano però che nel nostro Paese il tasso di copertura della contrattazione collettiva è superiore al 90% (il 97% se analizziamo i dati INPS e CNEL calcolati sulle comunicazioni di applicazione dei contratti operate dalle aziende) e i minimi tabellari sono largamente sopra i 7 euro identificati dalla direttiva europea come confine di “dignità”. L’informazione è necessaria per due motivi: innanzitutto perché chiarisce che anche in Italia vi sono dei paletti alla implosione verso il basso dei redditi e questi sono i minimi tabellari fissati ogni tre anni dalle associazioni di imprese e dai sindacati dei lavoratori in contratti collettivi che sono molto di più che un mero tariffario, tanto che, se considerati nella loro integralità (c.d. trattamento economico complessivo, comprensivo di mensilità aggiuntive, TFR, indennità e welfare), prevedono un trattamento salariale medio oltre i 10 euro, superiore anche ai 9 euro lordi ipotizzati nel disegno di legge firmato dalla ex Ministro Nunzia Catalfo (cifra comunque sopra i limiti fissati dall’Europa, poiché corrisponde al 78% del salario mediano e al 62% del salario medio); in secondo luogo perché è lo stesso atto europeo a chiarire che negli Stati ove i contratti collettivi regolino almeno l’80% dei rapporti di lavoro non solo non è obbligato alcun intervento legislativo, ma anzi è possibile che siano minori le diseguaglianze salariali.
 
Ciononostante, il fronte di coloro che richiedono un intervento legislativo è crescente e piuttosto rumoroso, galvanizzato dalla promessa di miracolosa sparizione del lavoro povero allorquando fosse approvata una nuova legge. Questa potrebbe disporre due diverse soluzioni, anche associabili: la prima è la fissazione di una cifra oraria non derogabile, come ipotizzato dal Movimento 5 Stelle; la seconda è il rimando diretto alle soglie della contrattazione collettiva comparativamente più rappresentativa, come proposto dal Ministro Orlando.
 
Entrambe le strade sono problematiche. Lo sono per una serie di nodi tecnici che ancora non hanno trovato risposta (per esempio: l’importo da prendere a riferimento sarebbe lordo o netto? È da considerarsi il trattamento minimo o quello complessivo, come definito in precedenza? Vi è contrasto con il dettato Costituzionale?). Lo sono perché strutturalmente costruite attorno al lavoro dipendente e quindi non ricomprendenti proprio le categorie più esposte alla povertà lavorativa: i free lance a partita IVA, i collaboratori coordinati e continuativi, i lavoratori occasionali e i tirocinanti. Lo sono, ancor più, per il ribaltamento degli assunti di fondo del nostro sistema di regolazione del lavoro, che, da sempre, non è basato soltanto sulla legge, ma anche sulla libera contrattazione tra le parti sociali.
 
Viene da chiedersi se non sia proprio questo l’obiettivo di chi propone con forza una legge sul salario minimo.

L’eventuale intromissione del Parlamento nella regolazione economica del rapporto di lavoro, per quanto legittima, cristallizzerebbe due convinzioni che quelli che il prof. Mario Grandi chiamava “i falsi amici della rappresentanza” comunicano spesso: la prima è che le parti sociali, soprattutto i sindacati, non sono stati in grado di garantire la dignità del lavoro, obbligando l’intervento della politica; la seconda è che la legge è maggiormente in grado di difendere i più deboli rispetto a qualsiasi forma di contrattazione privata.
 
Concetti tutt’altro che neutrali, che meritano di essere brevemente commentati.
 
I sindacati italiani hanno da sempre scelto di non sottomettersi all’art. 39 della Costituzione per ribadire la propria indipendenza dalla politica, che ha sempre rispettato questa scelta non dando seguito legislativo a quella disposizione. Tale equilibrio ha generato un sistema contrattuale autonomo forse complesso, talvolta lento, ma in grado di garantire ai lavori italiani trattamenti non solo economici, ma soprattutto normativi tra i più avanzati nel mondo occidentale. I contratti collettivi che regolano i rapporti di lavoro non sono freddi tariffari, ma ricercate (e sofferte, in momenti di crisi come questi) mediazioni ove si trovano diritti sindacali, permessi, welfare, diritto allo studio, difesa della maternità, obblighi in materia di salute e sicurezza etc… Ricondurre la difesa dei diritti dei lavoratori al loro stipendio è una forzatura non soltanto tecnica, ma anche culturale e storica. La contrattazione collettiva ha sempre anticipato le conquiste del diritto del lavoro e tuttora è più dinamica del legislatore.
 
La convinzione che la legge sia per definizione “di tutti”, inoltre, non “sporcata” da alcun interesse e più equa dell’agire “privato” è un ideologico retaggio del passato. Proprio nell’ambito del lavoro si osserva come le soluzioni calate dall’alto, uguali da Bolzano ad Agrigento e nella meccatronica così come nella cooperazione, semplicemente non funzionano. La regolazione operata dagli stessi attori economici, ancor più se direttamente sui luoghi di lavoro (contrattazione aziendale) può disporre di quella intelligenza e realismo della prossimità che a Roma è impossibile.
 
La forzatura su questi assunti è più rischiosa dei possibili effetti economici negativi di una disposizione rigida sul salario minimo, comunque ampiamente trattati anche in dottrina: dall’effetto depressivo sull’incremento salariale nei settori già sopra i limiti di legge (perché continuare a concedere trattamenti generosi quando la legge certifica che l’equo compenso è sensibilmente più basso?) alla possibile fuga dai contratti collettivi per potersi sottomettere alla più vantaggiosa tariffa di legge, fino ai rischi di una determinazione salariale del tutto sconnessa dalla produttività del lavoro.
 
In un dibattito politico e sociale sempre più costruito attorno ai 140 caratteri di un tweet è assai difficile argomentare a favore di una posizione contro-intuitiva come quella di opposizione al salario minimo. Il processo di isolamento delle poche forze sociali e degli ancor meno centri di ricerca che ancora provano a segnalare la sproporzione tra i rischi connessi a un intervento così costruito e i suoi vantaggi è già iniziato. La speranza è che costoro non si scoraggino e che il Governo non si accontenti della soluzione più comoda, ma ricerchi quella maggiormente in grado di proteggere e promuovere la dignità dei lavoratori.
 
Emmanuele Massagli

Presidente ADAPT

Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del lavoro e sulle Relazioni industriali

@EMassagli
 
*Pubblicato anche su Tempi, 11 giugno 2022

Di cosa parliamo quando parliamo di legge sul salario minimo*
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