Decreto PNRR: si arricchisce o si complica ulteriormente il quadro normativo vigente in materia di appalti e contrattazione collettiva?

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Bollettino speciale ADAPT 10 aprile 2024, n. 1
 
In data 2 marzo 2024 è entrato in vigore il Decreto- Legge n. 19/2024, noto anche come “Decreto PNRR”, recante disposizioni urgenti per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Tra le diverse disposizioni, assume particolare rilievo l’art. 29, comma 2 lett. a) il quale, integrando l’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 stabilisce che “Al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nell’eventuale subappalto è corrisposto un trattamento economico complessivo non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale maggiormente applicato nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto”.
 
L’intervento del legislatore è finalizzato ad impedire che nella catena degli appalti si assista a un peggioramento delle condizioni del lavoro, ciò in considerazione dell’eventuale applicazione, da parte degli operatori economici, di contratti collettivi nazionali che non risultino collegati rispetto all’ attività oggetto dell’appalto.

Difatti, le imprese hanno cercato di utilizzare a loro favore l’assenza nel quadro normativo dell’obbligo di attuare un determinato contratto collettivo, facendo fede al principio secondo il quale l’applicazione del contratto deriva dalla volontà dell’imprenditore di prendere parte alla procedura di appalto.

 
Frequenti sono stati i casi in cui diversi operatori economici hanno fatto ricorso all’esternalizzazione di parte del processo produttivo, anche al fine di abbattere i costi di produzione. Costi che venivano ridotti anche perché l’appaltatore o il subappaltatore ricorreva all’applicazione di un CCNL più conveniente e non del tutto attinente all’attività oggetto dell’appalto o del subappalto. Le conseguenze più gravi nel mercato del lavoro hanno riguardato una forte distorsione della concorrenza e, soprattutto, lo sfruttamento dei lavoratori coinvolti nell’esecuzione dell’appalto. Sul punto, sono significative le esperienze nel settore della filiera delle carni e dell’alimentare, dall’analisi delle quali emerge che appaltatori e subappaltatori hanno utilizzato contratti collettivi con un ampio campo di applicazione e con condizioni molto più favorevoli rispetto a quelle dei contratti indicati dai committenti (cfr. A. Bellavista, “Appalti e tutela dei lavoratori”, WP C.S.D.L.E. “Massimo D’Antona” .IT – 454/2022, pag. 16). In tal senso, è esemplificativo il “caso Castelfrigo”; grazie all’affidamento dei lavori derivante dal “sistema” della catena degli appalti, le imprese appaltatrici hanno scelto CCNL tramite i quali hanno provocato un abbattimento del costo del lavoro di circa il 40%, se paragonato al contratto collettivo indicato dall’ente appaltante.
 
Ciò premesso, l’art. 29, comma 1-bis del d.lgs. n. 276 del 2003 pone ora in capo ad appaltatori e subappaltatori l’obbligo di applicare ai lavoratori impiegati un trattamento economico complessivo che rispetti determinati limiti, stabilendo un argine, in tal modo, alla riduzione del costo del lavoro tramite l’applicazione di un CCNL non pertinente all’oggetto dell’appalto o tramite l’applicazione di CCNL sottoscritti da  sindacati minoritari e associazioni imprenditoriali poco rappresentativi, e caratterizzati da condizioni economiche e normative inferiori rispetto a quelli siglati dai sindacati confederali – c.d. contratti pirata.
 
La disposizione normativa in esame non si esprime nei termini di un obbligo di applicazione del contratto collettivo, allontanando così ogni possibile rischio di incostituzionalità per le ben note questioni connesse all’art. 39 Cost. (cfr. ex multis Cons. St., sez. V, del 18 dicembre 2023 n. 10886; Cons. St., sez. III, 15 marzo 2021, n. 2168; Cons. St., sez. V, 11 gennaio 2022, n. 199); piuttosto, il contratto collettivo viene individuato come “parametro adeguato” al fine di determinare un trattamento economico che non leda i parametri stabiliti dall’art. 36 Cost. e di evitare che si inneschino meccanismi di concorrenza al ribasso, giocata sui livelli salariali (cfr. Corte Cost. sent. n. 51/2015).

Tuttavia, il dettato della disposizione che desterebbe maggior interesse da un punto di vista interpretativo riguarda il riferimento al contratto collettivo nazionale e territoriale “maggiormente applicato nel settore e per la zona”; sul punto, diverse considerazioni.
 
Il primo profilo riguarda il parametro scelto per l’individuazione del contratto collettivo nazionale e territoriale, in quanto si menziona il criterio della maggiore applicazione. Si rilevi come non viene fatto riferimento a quello della maggiore rappresentatività comparativa delle organizzazioni sindacali sottoscriventi, un criterio da tempo consolidatosi nel disciplinare i rapporti tra legge e contrattazione collettiva, come è possibile notare sia nell’ambito del codice degli appalti pubblici (art. 11 d. lgs. 36/2023) sia nel contesto della disciplina organica dei contratti di lavoro (art. 51 d. lgs. 81/2015).

Pertanto, il legislatore si allontana da una dinamica già collaudata nel quadro normativo, soffermandosi su un parametro non esente da criticità.
 

Parte della dottrina, muovendo dall’analisi dell’archivio del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (cfr. F. Alifano, G. Impellizzieri, M. Tiraboschi, Davvero esiste una proliferazione incontrollata e non monitorata di CCNL in Italia?, in Bollettino ADAPT 27 novembre 2023, n. 41), aveva già preannunciato che il criterio della maggiore applicazione avrebbe avuto un ruolo importante ma problematico nel panorama contrattuale, alla luce della diffusa volontà di utilizzarlo come riferimento per determinare il trattamento economico minimo dei lavoratori; difatti, bisogna comprendere cosa si intenda per maggiore applicazione, e soprattutto rispetto a cosa quest’ultima vada valutata.

Si consideri, peraltro, come non necessariamente il profilo della maggiore applicazione si sovrappone a quello della rappresentatività dei sottoscriventi il CCNL.

 
Quanto precede assume maggiore rilievo alla luce dei criteri cui il dispositivo normativo si rivolge per individuare il contratto collettivo, ovvero la maggiore applicazione “nel settore e per la zona il cui ambito di applicazione sia strettamente connesso con l’attività oggetto dell’appalto.

L’espressione “settore” ha un contorno più definito soprattutto in relazione alla parte successiva della norma, posto che si ricollega all’attività oggetto di appalto e, pertanto, permette di delineare l’ambito di applicazione del contratto collettivo.
 
Maggiori, invece, sono le perplessità sul significato della voce “zona”.

L’inciso si presta ad una duplice lettura interpretativa. Da un lato, la “zona” potrebbe essere intesa come attinenza meramente territoriale, ovvero legata a considerazioni di natura geografica o amministrativa; in altri termini, la zona altro non rappresenterebbe che il confine “amministrativo” dei territori (comuni, province, regioni etc.).

Dall’altro, si potrebbe valutare detta espressione in modo più confacente al rapporto tra la contrattazione collettiva e la presenza delle imprese sul territorio, riferendosi così alla presenza di sistemi contrattuali territoriali maggiormente applicati dalle imprese di un dato territorio. Quest’ultima ipotesi appare maggiormente condivisibile.
 
Ulteriore aspetto problematico riguarda il fatto che i riferimenti di “settore” e “zona” dovrebbero essere considerati congiuntamente nella valutazione della maggiore applicazione del contratto collettivo, e non in modo autonomo l’uno dall’altro, ciò al fine di evitare una situazione di confusione che ne deriverebbe in caso contrario. Difatti, da un punto di vista sia logico che testuale, sarebbe opportuno verificare la maggiore applicazione prima con riguardo al settore, e successivamente con riguardo alla zona oggetto di interesse. Solo tramite una valutazione contestuale di entrambi, sarebbe possibile risalire a un concetto più chiaro di “maggiore applicazione”.
 

Concludendo il ragionamento, si può affermare che il Decreto PNRR altro non fa che introdurre una disposizione che impone alle parti di un contratto di appalto di prevedere una clausola sociale volta a tutelare il trattamento economico dei lavoratori. Si tratta, però, di una disposizione che si differenzia nettamente rispetto quella prevista nel campo degli appalti pubblici, la quale farebbe invece riferimento non ai contratti collettivi maggiormente applicati ma a quelli stipulati dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Una differenza i cui effetti sono ancora tutti da vagliare.
 
Edoardo Maria Poiani Landi 

Dottore in giurisprudenza presso l’Università Sapienza di Roma

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