Conversazione con Luca Visentini, segretario generale Ces, candidato alla guida della Ituc-Csi (Confederazione Sindacale Internazionale)

a cura di Francesco Lauria

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Bollettino ADAPT 14 novembre 2022, n. 39

 

Luca Visentini è nato il 1° gennaio 1969 a Udine, ma ha iniziato la sua attività sindacale a Trieste, dove ha studiato filosofia all’Università e ricoperto incarichi di rappresentanza studentesca. Poco più che ventenne è stato nominato responsabile regionale della Uil giovani e poi eletto segretario della Uiltucs la categoria che segue i lavoratori del turismo, servizi e commercio. Alla metà degli anni Novanta è stato eletto segretario generale della Uil Fvg, dove ha iniziato a interessarsi sempre di più di tematiche transfrontaliere ed europee divenendo Presidente del Consiglio sindacale interregionale (CSIR) tra i sindacati del Friuli Venezia Giulia, del Veneto e della Croazia (Istria, Fiume, Quarnero e Lika). Nel 2007 è divenuto uno dei coordinatori europei dei Csir.  Membro del Comitato Economico ed Occupazione della Ces dal 2010 è diventato segretario confederale a seguito del congresso della confederazione europea di Atene, l’anno successivo. Ha seguito, tra gli altri, i dossier della contrattazione collettiva e politica salariale, migrazione e mobilità, istruzione e formazione, fondi strutturali, coesione sociale ed economica.

 

In occasione del congresso di Parigi dell’ottobre del 2015 è divenuto segretario generale della Confederazione Europea dei Sindacati oltre che, conseguentemente, segretario regionale del Consiglio Regionale Paneuropeo (Perc), l’organizzazione regionale della Confederazione Sindacale Internazionale (Ituc-Csi).

 

Nel corso del 2022 ha formalizzato la sua candidatura alla segreteria generale della Confederazione Sindacale Internazionale, lanciando una propria piattaforma programmatica in vista del congresso mondiale della Csi che si terrà a Melbourne (Australia) dal 17 al 22 novembre 2022. (Vedi il sito del congresso):

Molto attivo in ambito culturale e letterario è stato, tra l’altro, Presidente della Casa dei teatri dei Trieste ed è autore di volumi di poesia e racconti, alcuni tradotti anche in inglese.

 

* * *

 

Da alcuni mesi è stato lanciato un Manifesto (vedi il testo del documento in lingua italiana) che ha illustrato le motivazioni e le priorità della sua candidatura a Segretario Generale della Confederazione Sindacale Internazionale (Ituc-Csi) in vista dell’ormai imminente Congresso Mondiale di Melbourne.

 

Nella sua piattaforma congressuale si sottolinea come sia giunto il momento che il movimento sindacale internazionale faccia sentire ancor di più la propria voce e si mobiliti con maggiore vigore per un Nuovo Modello Economico, che vada oltre il PIL e il profitto e che sia basato sulla sostenibilità, l’inclusione e la giustizia sociale, per un’economia al servizio delle persone.

 

In premessa ha poi posto due priorità: una forte integrazione dei diversi punti di vista politici e delle prospettive regionali emersi al precedente Congresso di Copenaghen della Csi e l’ambizione di un’agenda sindacale a lungo termine.

 

Può spiegare ed approfondire queste tematiche rendendole comprensibili anche ad un pubblico che non conosce nel dettaglio la Csi?

 

L. Visentini: Il messaggio più importante che ho cercato di lanciare con il mio Manifesto e con la candidatura alla segreteria generale della Confederazione Sindacale Internazionale è che, di fronte alle sfide drammatiche che il movimento sindacale internazionale ha davanti a sé, sia necessaria una forte unità. I postumi della crisi economica e finanziaria, delle politiche di austerità e neoliberiste hanno colpito duramente i diversi modelli sociali ed economici nei vari continenti, aumentando le disuguaglianze. Dopo ciò la pandemia globale e una guerra in Europa che ha conseguenze in tutto il resto del pianeta hanno complicato ulteriormente la situazione internazionale: di fronte a queste sfide così pressanti l’impegno che io ho cercato di costruire con maggiore energia possibile è proprio l’unità d’intenti all’interno della Confederazione Sindacale Internazionale.

 

Il sindacato mondiale ha vissuto, infatti, un congresso terribilmente divisivo nel 2018 che ha lasciato degli strascichi e delle ferite ancora oggi non del tutto rimarginate.

 

C’è però il rischio che anche il congresso di Melbourne sia un congresso di divisione.

 

Ciò a causa del fatto che è emersa un’altra candidatura (il candidato alternativo a Luca Visentini è Kemal Özkan, turco. Qui il sito della sua campagna per la segreteria generale dell’Ituc-Csi), assolutamente legittima, non basata però su reali divisioni politiche e sindacali, ma soprattutto scaturita da una concorrenza tra nomi e organizzazioni, su una battaglia di potere e non su un reale scontro politico interno.

 

Per queste ragioni ho cercato per quanto più possibile di fare appello all’unità anche perché ho ricevuto pressanti richieste in questo senso da tutti i continenti e da moltissime delle maggiori organizzazioni. Un congresso unitario quindi (fin dove sia possibile), ma al tempo stesso un congresso di cambiamento.

 

Ho costruito il mio manifesto cercando di tenere in conto le proposte che avevano diviso il campo tra le candidature di Sharan Barrow e Susanna Camusso nel 2018, cercando di riconciliare questi differenti approcci politico-sindacali in una piattaforma unitaria che potesse gettare le fondamenta per un lavoro congiunto e per una visione quanto più possibile ambiziosa, energetica e avanzata dei prossimi quattro anni della Confederazione Sindacale Internazionale.

 

Questo sforzo di unità e di riconciliazione delle differenze si è basato soprattutto su alcuni elementi strategici: il primo dei quali è sicuramente la necessità di rinegoziare il modello di economico e sociale a livello globale.

 

Dobbiamo cercare di promuovere modelli di sviluppo alternativi alla vulgata neoliberista, cercando di sostenere non soltanto un’economia maggiormente sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale, ma anche un’economia più equa nel senso di dare opportunità di sviluppo adeguate a tutti i continenti e a tutte le aree del pianeta.

 

Dobbiamo cercare di superare quanto più possibile la contrapposizione tra paesi più sviluppati e paesi meno sviluppati o tra il Nord Ovest del Mondo e il “Global South” come spesso si usa dire oggi, mirando al contrario ad introdurre elementi di equità, di sostenibilità, di inclusione, di sviluppo sostenibile in tutti i continenti.

 

Per muoversi in questa direzione ovviamente c’è bisogno di un’azione molto incisiva da parte del sindacato mondiale. Bisogna riconoscere alla segretaria generale uscente Sharan Barrow che, nell’arco dei suoi dodici anni di mandato, ha fatto moltissimo per, da una parte, aumentare l’influenza della Confederazione Sindacale Internazionale nello scenario multilaterale globale sia nel rapporto con le istituzioni finanziarie internazionali sia nel portare quanto più possibile al centro del dibattito il tema della sostenibilità ambientale.

 

Da qui bisogna ripartire per fare di più.

 

Che cosa significa? Dobbiamo passare da un approccio lobbistico-istituzionale ad un approccio più negoziale e sindacale. Ciò non significa semplicemente basare la nostra azione su campagne e mobilitazioni, ma significa al contrario utilizzare le campagne e le mobilitazioni per incrementare quanto più possibile il potere negoziale del movimento sindacale internazionale nei confronti delle istituzioni internazionali, dei singoli governi a livello nazionale, delle imprese multinazionali e delle organizzazioni delle imprese a livello globale.

 

Questo è il tema, a mio parere, più importante al quale si collegano altri due aspetti fondamentali. Il primo è la necessità di costruire un nuovo contratto sociale, che fa parte dei documenti congressuali dell’Ituc-Csi (vedi qui la piattaforma congressuale della Ituc-Csi) e non solo del mio Manifesto e che significa garantire diritti, uguaglianza, emersione dal lavoro sommerso e irregolare, promozione di standard di lavoro dignitoso a prescindere dalla collocazione geografica dove il lavoro si determina.

 

È chiaro che per costruire un modello sociale nuovo a livello globale occorre un radicale cambiamento politico ed economico, altrimenti non si riuscirà mai a portare a casa questo risultato. La stessa cosa vale per la necessità di continuare il lavoro su una transizione ecologica, ma anche digitale giuste, dove le persone possano essere adeguatamente protette e anche il lavoro sia adeguatamente tutelato.  Va quindi ribadito che non si riuscirà ad ottenere delle transizioni giuste di carattere ambientale e digitale se non ci sarà prima di tutto un cambio radicale dell’impostazione del modello economico e politico-istituzionale a livello globale.

 

La riforma del multilateralismo da una parte e del modello economico dall’altra, sono le precondizioni fondamentali per raggiungere effettivamente un vero contratto sociale a livello globale e transizioni giuste in campo climatico e digitale che portino con sé anche la protezione del lavoro e dei diritti umani.

 

Tutto ciò implica una serie di corollari importanti: penso al tema della promozione di politiche industriali eque o all’introduzione di principi di protezione dei diritti all’interno delle catene del valore delle imprese multinazionali.

 

Ci troviamo di fronte alla base delle prospettive più rilevanti della Confederazione Sindacale Internazionale: un triangolo fondamentale costituito da cambio del modello economico, dalla promozione di un nuovo contratto sociale e dalla realizzazione di transizioni giuste.

 

Su questi elementi si deve fondare una strategia maggiormente negoziale, meno lobbystica della Csi, in cui siano certamente importanti la capacità di mobilitazione, le campagne, anche l’organizing, cioè l’impegno ad incrementare la presenza del sindacato e i tassi di sindacalizzazione nei vari continenti, ma in cui questi elementi siano messi al servizio del rafforzamento della nostra capacità propriamente sindacale per raggiungere risultati concreti.

 

In caso di sua elezione a segretario generale con quali politiche e strumenti e avvalendosi di quali risorse intellettuali e organizzative intende declinare concretamente questi ambiziosi posizioni programmatiche?

 

L. Visentini: Questi punti programmatici implicano anche un cambio radicale della struttura della Confederazione Sindacale Mondiale: perché c’è la necessità di riorientare il nostro lavoro centrale e dello staff politico e operativo nella sede di Bruxelles in una visione più “contrattuale”, basata sui risultati concreti da conseguire per il movimento dei lavoratori.

 

Significa che la Csi del futuro non dovrà essere, almeno per come la penso io, un: “one man o un one woman show”, ma che si dovrà favorire una reale condivisione politica delle priorità all’interno della leadership eletta al congresso, ma anche una suddivisione di competenze che favorisca il fatto che tutti possano lavorare adeguatamente nella stessa direzione per raggiungere gli obiettivi comuni.

 

Non è stato così in passato perché la segreteria della Csi non è mai stata una vera segreteria con delle deleghe, con segretari generali aggiunti che seguissero dei dossier precisi. Da questo punto di vista c’è da portare avanti un lavoro importante di riforma interna che proceda insieme ad un riposizionamento, rifocalizzazione, rimotivazione dello staff della confederazione basato su Bruxelles.

 

A questo si deve aggiungere anche una apertura del dibattito, delle possibilità di accesso, della partecipazione alle discussioni e alle decisioni della confederazione mondiale che, fino ad oggi è stato, secondo me, insufficiente.
 

C’è bisogno di coinvolgere di più le strutture regionali nei vari continenti, affidando ad esse maggiore responsabilità e quindi delegando potere e fornendo possibilità di accesso. Ma al tempo stesso va richiesta a queste realtà anche più assunzione di responsabilità e più attivismo. Ci sono alcune strutture regionali che fanno molto e altre che si impegnano troppo poco.

 

Occorre aprire, coordinare meglio, dare accesso a ciò che viene deciso a livello centrale, ma al tempo stesso ci deve essere anche un processo biunivoco di riattivazione delle capacità a livelli regionali di produrre risultati e di essere veramente attivi nel portare avanti le strategie che verranno decise assieme al congresso e dopo il congresso.
 

Tutto questo necessità di una riforma interna non solo di un cambio di passo per quel che riguarda le politiche sindacali più esterne e generali. Questa dovrebbe essere la cifra dei cambiamenti e del nuovo corso che io vorrei impersonare se verrò eletto segretario generale della Csi. E’ chiaro che il cambio completo della leadership dovrà produrre un mutamento significativo delle strategie politiche, ma anche delle strategie organizzative. Ciò non significa sconfessare ciò che è stato fatto in passato, al contrario significa utilizzare le molte cose buone che sono state portate avanti per cercare di raggiungere risultati ancora migliori nel prossimo futuro.

 

Questi sono gli elementi fondamentali se si vuole cercare di costruire una vera unità. Le confederazioni che hanno deciso di sostenermi sono le prime che devono assumersi la responsabilità di costruire un dialogo con le altre, ma ci deve essere anche l’assunzione di consapevolezza da parte di coloro che, invece, hanno deciso di sostenere il mio concorrente o addirittura non hanno deciso nulla (abbiamo ancora il 20% degli affiliati che non si sono ancora espressi). Tutti, insomma, si devono assumere l’impegno di promuovere una vera discussione politica e poi di impegnarsi per l’unità.

 

Sono passati oltre sette anni dalla sua elezione a segretario generale della Ces al congresso di Parigi. In che modo assumere una leadership così importante ed in tempi così complessi ha cambiato il suo modo di fare sindacato e il suo approccio alla risoluzione dei problemi?

 

Quale la maggiore soddisfazione di questi anni e quale il maggior rammarico/o sfida ancora aperta?

 

L. Visentini: Quando ho iniziato la mia carriera nella Ces nel 2011 come segretario confederale la situazione, non tanto nella sola Confederazione Europea dei Sindacati, quanto in generale nell’Unione Europea, appariva davvero sconfortante.

 

Eravamo ancora nel pieno del secondo mandato di Manuel Barroso, con una Commissione Europea assolutamente neoliberista e di destra che era riuscita, da una parte, a distruggere l’economia del continente con le politiche di austerità tagliando i salari e le protezioni sociali e dall’altra a smantellare completamente qualsiasi politica sociale promossa dall’Unione Europea. 

 

Da quindici anni non si riusciva ad avere una sola Direttiva, un solo provvedimento legislativo in materia sociale nell’Unione a causa dell’atteggiamento della Commissione e, ovviamente, anche dei governi nazionali. L’interlocuzione con le istituzioni era complicatissima ed eravamo tutti molti frustrati perché costretti a mettere in campo solo manifestazioni e proteste che però producevano veramente molto poco. C’è stata, in quel periodo, anche una capacità di elaborazione politica e di proposta: penso ad esempio al grande piano di investimenti che, come Ces, avevamo lanciato, e che solo successivamente avrebbe cominciato a produrre dei risultati. In quel momento purtroppo erano prevalenti le frustrazioni.

 

Poco prima della mia elezione a segretario generale, ma poi in particolare durante il mio primo mandato, la musica è cambiata. Dopo le elezioni europee del 2014, con l’insediamento della Commissione Europea di Jean Claude Junker, c’è stato un cambio di passo significativo.

 

Il punto più importante che siamo riusciti a realizzare da quel momento, e che poi abbiamo continuato durante la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, è stata di cogliere al balzo queste nuove opportunità che si aprivano. 

 

La Commissione voleva rilanciare il dialogo sociale, così come la legislazione in materia sociale, voleva riaprire alla ricostruzione del modello sociale europeo, basandolo anche su un’economia più espansiva, più progressista, con piani di investimento. Come movimento sindacale europeo abbiamo avuto la capacità di cogliere questa nuova sfida ed era che si apriva e di utilizzarla per cercare di raggiungere risultati importanti. Ricordo molto bene quando Junker venne al congresso della Ces di Parigi e annunciò due suoi obiettivi: il primo di voler rilanciare il modello sociale e il dialogo sociale europeo, il secondo che voleva parità di trattamento nel mercato del lavoro interno e quindi avrebbe proposto la revisione della direttiva europea distacchi. Quei due punti diedero il là ad un processo completamente nuovo.

 

Durante la Commissione Junker, con la proclamazione del Pilastro Europeo dei diritti sociali, con il Piano per gli investimenti e poi con ventitre nuovi provvedimenti legislativi in materia sociale dopo quindici anni di totale buco nero in particolare durante l’era Barroso, abbiamo avviato un percorso virtuoso. Tutto ciò è continuato con la Commissione guidata da Ursula von der Leyen, con le misure per combattere le conseguenze del Covid, con il Fondo Sure, con Next Generation Eu, con il piano di azione per il Pilastro dei diritti sociali, con la direttiva su salari e contrattazione collettiva.

 

Ci sono stati dei provvedimenti storici che mai avremmo potuto lontanamente immaginare negli anni precedenti. Mai nessuno avrebbe potuto pensare che avremmo avuto una direttiva sui salari e un piano di mille miliardi di euro di investimenti pubblici nell’Unione Europea o che avremmo inventato un meccanismo come Sure che ha creato una sorta di cassaintegrazione europea.

 

Raggiungere traguardi di questo genere sarebbe stato completamente inimmaginabile persino all’epoca di Jacques Delors. C’è stata quindi una rivoluzione dal punto di vista di un modello economico più inclusivo, penso anche al Green Deal, con una vera e propria opera di ricostruzione del modello sociale europeo.

 

Sono questi elementi di grande soddisfazione, come è di grande soddisfazione il fatto che come Ces siamo stati capaci di “cogliere l’attimo”, di entrare dentro questo processo a pieno titolo, persino più di Business Europe, degli imprenditori europei, perché abbiamo deciso di impegnarci fino in fondo e di puntare ad essere un vero interlocutore negoziale della Commissione Europea, del Consiglio, del Parlamento.

 

Per la prima volta abbiamo cominciato a discutere non solo con la Dg Employment (Lavoro), ma con tutta la Commissione, per la prima volta abbiamo iniziato a interloquire direttamente con i paesi membri, con i Primi Ministri, con i Ministri del Lavoro, il tutto per influenzare le decisioni del Consiglio Europeo, non soltanto le decisioni della Commissione e del Parlamento.

 

Sapevamo che, dopo la riforma dei trattati e l’introduzione di un nuovo equilibrio tra le tre istituzioni comunitarie senza il quale non si può prendere nessuna decisione, non potevamo più rappresentare semplicemente un attore di dialogo sociale in maniera tradizionale, ma dovevamo cominciare a diventare un vero negoziatore istituzionale che avesse un rapporto con tutte e tre le istituzioni europee. Volevamo influenzare concretamente i processi legislativi e ottenere risultati concreti. Abbiamo valorizzato e utilizzato una nuova spinta più sociale e progressista, per quanto i capi delle Commissioni Junker e Von Der Layen fossero cristiano-democratici, conservatori, ma esponenti di un conservatorismo molto attento ai temi del lavoro.

 

Abbiamo utilizzato questo quadro politico nuovo per portare a casa dei risultati, ma abbiamo cambiato anche il nostro modo di approcciarci alle istituzioni e di negoziare a livello europeo e anche nazionale, cercando di attivare e coinvolgere i nostri affiliati nel dialogo sociale tripartito quando coinvolgeva anche il livello degli Stati membri. Questo è secondo me l’obiettivo più importante che siamo riusciti a realizzare. Spero che tutto ciò continui in futuro anche se temo che le elezioni europee del 2024 ci porteranno indietro da questo punto di vista, visto l’orientamento che molti governi nazionali stanno prendendo, spingendosi a destra e lontano dalle sensibilità sociali.

 

Il rammarico principale è la divisione crescente che si è determinata dentro la Ces con blocchi politici dentro l’organizzazione che seguono purtroppo le logiche dei rispettivi governi.

 

Il quadro vede i sindacati nordici e le organizzazioni che ruotano intorno al sindacato tedesco Dgb che vedono la Ces o vorrebbero vedere la Ces sempre di più come una mera struttura di coordinamento incapace di una vera iniziativa politica. Essi cercano di svuotarne il potere negoziale e di nazionalizzare o ri-nazionalizzare quanto più possibile le politiche sindacali in Europa.

 

Questa involuzione è, secondo me, molto preoccupante anche se, per fortuna, non maggioritaria. È una situazione che disturba molto all’interno della Ces e che crea continue divisioni e conflittualità. Mi aspetto purtroppo che il congresso del 2023 sarà attraversato da queste tensioni e da queste divisioni in maniera molto grave, come lo è stato a dir il vero, anche il congresso di Vienna del 2019. In prospettiva temo che le cose peggioreranno ed è una tendenza che mi preoccupa molto e che potrebbe avere un impatto negativo anche nei rapporti tra la Ces e il movimento sindacale internazionale più in generale.

 

La conclusione della sua risposta ci porta a riflettere su come dovrebbero evolversi rapporti e le sinergie tra la Ces e la Csi.

 

Storicamente la Confederazione Sindacale Mondiale dei Sindacati Liberi (si veda il Quaderno della Fondazione Ezio Tarantelli: Radici e sfide del sindacalismo mondiale”, pubblicato nel 2018 in occasione del congresso della Csi a Copenaghen) ha  visto con alcuni timori e perplessità il rafforzamento della Ces, ormai giunta a quasi cinquant’anni dalla sua fondazione, temendo il disimpegno almeno parziale, del sindacalismo europeo nell’ambito del sindacalismo mondiale. Si tratta di un problema solo del passato?

 

L. Visentini: Io credo che sia un problema del passato, ma che, però, potrebbe essere anche un problema del futuro. Non penso sia un tema del presente. In effetti prima della nascita dell’Ituc, quando ancora c’erano l’organizzazione cristiana da una parte e la Confederazione dei sindacati liberi dall’altra, il fatto che in Europa ci fosse un’organizzazione così forte e unitaria come la Ces, creava un po’ di fastidi a livello del sindacalismo globale, anche perché non c’era un unico attore a livello internazionale.

 

Con il processo di creazione dell’Ituc-Csi le cose sono migliorate: sia l’ultimo scampolo della segreteria generale Ces di Emilio Gabaglio che la segreteria generale di John Monks, leader che avevano entrambi salde radici a livello internazionale, hanno aiutato a ricomporre un quadro generale di collaborazione. Questa condizione si è poi sostanziata in maniera importante nella creazione del Perc (Pan European Regional Council). Esso è una struttura ibrida, non esattamente la stessa realtà regionale che si ha in altri continenti, perché è una organizzazione regionale della Csi che viene co-gestita con la Ces.

 

L’intuizione di creare questo ibrido a due teste dove appunto il Presidente e il segretariato del Perc vengono espressi dalla Csi mentre il segretario della Ces è automaticamente il segretario generale del Perc, ha aiutato molto secondo me a ricomporre possibili fratture, invidie, contrapposizioni e a costruire un’azione comune e coordinata a livello europeo tra la Ces e il Perc. Tutto ha funzionato abbastanza bene durante il periodo di John Monks, ha funzionato oggettivamente meno durante la segreteria generale della Ces di Bernadette Segole (anche per una confilittualità originatasi con la segreteria generale Ituc-Csi Sharan Barrow).  In quel tempo un altro fatto non aiutava: la confederazione tedesca Dgb che aveva la presidenza della Csi con Michael Sommer sosteneva la confederazione mondiale mentre tentava di boicottare in ogni modo la Ces.

 

Negli anni successivi le cose si sono messe sul giusto binario con una buona collaborazione nell’ambito del Perc e tra la Ces e la Csi con un conseguente rafforzamento del ruolo del sindacato europeo nel consesso internazionale. Penso alla partecipazione al G20 al G7 dove possiamo rendicontare un’azione significativa o al coordinamento della nostra delegazione nella conferenza annuale dell’Ilo e così via.

 

Tutto questo ha pagato anche perché tra me e Sharan Barrow si è costruito un rapporto di collaborazione molto positivo. Abbiamo intensificato la cooperazione tra la Ces e alcuni importanti blocchi a livello internazionale come ad esempio l’America Latina e il Nord Africa, tutti paesi con cui l’Unione Europa ha concluso accordi commerciali o ha tenuto negoziati. Abbiamo cercato di rafforzare quanto più possibile il profilo internazionale della Ces, non in maniera conflittuale con la Csi, ma fortemente collaborativa. Ciò ha aiutato molto anche per esercitare un’influenza concreta e cambiare le politiche a livello globale, utilizzando l’Unione Europea come una leva importante sugli equilibri sia a livello geopolitico internazionale, sia economico e sociale.

 

Cosa succederà nel futuro è difficile da prevedere.  Spero che questa collaborazione possa continuare, molto dipenderà molto dal tipo di equilibri che la Ces saprà trovare nel proprio congresso. Le divisioni che esistono in questo momento all’interno della Ces si riverbereranno molto probabilmente nel congresso della Csi di Melbourne e in particolare l’atteggiamento del sindacato tedesco di forte contrapposizione a tutto e a tutti, renderà complicato mantenere questo livello di collaborazione tra la Ces e la Csi. Speriamo che non vada così e che si possa continuare a portare avanti il rapporto costruttivo che siamo riusciti a mantenere in questi anni.

 

Nel suo Manifesto approfondisce il tema di un “nuovo contratto sociale”. È evidente però come il potere di contrappeso degli Stati, ma anche del movimento sindacale e della società civile, rispetto all’influenza delle grandi imprese globali sia fortemente in crisi e come questa asimmetria di potere si sia aggravata con la pandemia, la guerra, la crisi energetica, con l’affermazione dell’economia delle piattaforme.

 

Come afferma Alec Ross, nel suo prezioso testo “I furiosi anni Venti” è sempre più nell’interesse delle aziende comportarsi come nazioni – e quindi investire in difesa, contratti esteri, “data mining” e intelligence. Quando i Governi si affannano in infinite trattative diplomatiche, rallentati dalla burocrazia e incapaci di prendere decisioni rapide sull’assistenza sanitaria e sul cambiamento climatico o sull’emergenza energetica, le persone cominciano paradossalmente a guardare proprio alle mega-aziende, che ostentano l’agilità e la potenza necessarie ad affrontare i grandi problemi del nostro tempo.

 

Quale ruolo può giocare a livello globale il sindacato rispetto alla metamorfosi esistenziale, politica ed economica che stiamo attraversando?  Come si rapporta il tema promozione della democrazia economica con quello della crisi della democrazia politica?

 

L. Visentini: Non si riesce a realizzare un contratto sociale se non si coinvolgono le grandi imprese multinazionali, semplicemente perché il mondo delle imprese a livello internazionale non è organizzato in associazioni e in sindacati d’impresa come avviene a livello nazionale e a livello europeo. L’organizzazione internazionale degli imprenditori praticamente non esiste, non conta quasi nulla, è una sorta di Ong che coordina a mala pena le delegazioni degli imprenditori all’interno dell’Ilo, ma non svolge nessun vero ruolo attivo a livello internazionale. Nostri unici interlocutori sono le multinazionali e qualche associazione nazionale di imprenditori che magari può svolgere un ruolo più attivo perché organizza importanti imprese transnazionali come può succedere in Germania, Francia e altri paesi.

 

È fondamentale non arretrare di un millimetro nel denunciare lo strapotere delle multinazionali quando non rispettano i contratti, i diritti, le protezioni e cercano di utilizzare lavoro a buon mercato per ottenere più profitti. Allo stesso tempo dobbiamo essere molto fermi e duri nel denunciare comportamenti di alterazione della concorrenza e di penalizzazione di economie meno sviluppate da parte di imprese multinazionali quando queste portano avanti un’economia di rapina e quando inquinano e non rispettano l’ambiente.

 

Questo lavoro di denuncia va continuato quando è necessario, ma al tempo è necessario anche essere capaci di valorizzare quelle imprese multinazionali che, al contrario, sono disponibili ad avviare un reale dialogo sociale e iniziative di contrattazione vera e propria a livello internazionale, in particolare quando tali imprese provano a dimostrare concretamente che adottano comportamenti etici, rispettano le regole, anche per quel che riguarda le loro catene del valore, le convenzioni fondamentali dell’Ilo, così come le linee guida dell’Ocse.

 

C’è quindi la necessità di essere “duri” con i “cattivi”, ma di costruire dialogo e collaborazione con coloro che hanno una maggiore attitudine al confronto, al dialogo e anche al rispetto delle regole.

 

Per realizzare ciò dobbiamo mantenere negoziati diretti con le imprese multinazionali, ma dobbiamo anche muoverci con intelligenza all’interno delle istituzioni multilaterali, in particolare Fondo Monetario, Banca Mondiale, Wto, ma anche ovviamente l’Ilo e l’Ocse dove abbiamo degli spazi tripartiti che permettono di tenere anche un confronto diretto con imprese e governi al medesimo tempo.

 

È chiaro anche che per lavorare in questa direzione dobbiamo rafforzare la collaborazione con le Global Unions, le organizzazioni sindacali di settore a livello mondiale.

 

Scontiamo, su questo un’anomalia storica a livello globale, ma anche uno spazio di opportunità: fino ai primi anni Duemila, come ho già ricordato più volte, non esisteva un’organizzazione confederale unitaria a livello mondiale, mentre adesso l’abbiamo (ovviamente non consideriamo la residuale Federazione Sindacale Mondiale di matrice comunista).
 

Le Federazioni sindacali internazionali avevano, invece, già saputo sviluppare un modello unitario. Anche per questo non siamo ancora arrivati ad una adesione delle Global Unions alla Csi o a un modello di organizzazione sindacale simile a quello che abbiamo a livello europeo, dove le Federazioni di settore fanno parte della struttura della Ces e ne sono membri, per quanto con voti ridotti e senza pagare le quote.

 

Ciò non è e non sarà a breve termine il caso delle Global Unions: è per questa ragione che si è costruito il consiglio di coordinamento tra di esse e la Csi, un organismo che funziona piuttosto bene e che ha messo in campo una collaborazione efficiente e produttiva, con buoni risultati. C’è però da fare di più, soprattutto se vogliamo esercitare un’influenza effettiva sulle imprese multinazionali e sull’economia globale. È assolutamente necessario che si condivida un’agenda condivisa di mobilitazione e di negoziati insieme alle Federazioni Globali. Su questo punto siamo impegnati a portare avanti un’azione concreta e crescente.

 

Nella sua azione come leader della Ces ha promosso con forza il contrasto sindacale ai populismi e alle derive di estrema destra presenti in numerosi paesi europei. Allargando lo sguardo a livello mondiale in moltissimi paesi il tema del rapporto tra libera associazione sindacale e democrazia politica appare sempre più delicato.

 

Anche in paesi democratici che tutti noi sosteniamo di fronte all’invasione violenta subita dalla Russia, come l’Ucraina, è stata recentemente approvata una riforma del lavoro e del diritto di associazione e contrattazione con contenuti che lei ha definito ben più che inaccettabili.

 

Come si argina, non solo dal punto di vista politico, ma sociale la deriva di estrema destra, populista e neoliberista, in Europa e nel mondo? Come potrebbero interagire concretamente su questo tema i sindacati nazionali, quello europeo e quello mondiale? Su quali alleanze e coalizioni intende impegnarsi prioritariamente?

 

L. Visentini: La pace e la democrazia e la lotta contro l’estrema destra e i fascismi sono al centro della discussione congressuale, del mio manifesto e della strategia per il futuro della Csi.

 

È chiaro che la crescita dei neofascismi e delle destre estreme in Europa come nel resto del mondo derivi soprattutto da un modello economico e di sviluppo sbagliato che crea diseguaglianze e marginalità e che distrugge i diritti. Nel momento in cui la politica progressista non è in grado di dare risposte cresce un’estrema destra che promette soluzioni che poi però non è in grado di dare. Al contrario quando l’estrema destra va al governo diventa immediatamente neoliberista. Ciò non toglie che le sirene della destra radicale funzionino in questo momento nel conquistare il voto dei lavoratori e delle lavoratrici in vari continenti e in vari paesi. C’è quindi un’emergenza democratica che il sindacato mondiale deve assolutamente affrontare.

 

È inoltre fondamentale che continuiamo ad impegnarci per la pace, per risolvere il conflitto russo-ucraino, ma anche qualsiasi altro conflitto, ce ne sono tanti purtroppo, a partire da quello israelo-palestinese. Si tratta spesso di situazioni incancrenite da decenni e che devono essere affrontate adeguatamente. Rispetto a questi conflitti c’è sempre il tema di favorire un negoziato per costruire la pace.

 

Sappiamo bene altresì che la pace deve essere una pace giusta. Per esempio non sosteniamo che ci debba essere una pace a tutti i costi in Ucraina se la Russia non si ritira dai territori occupati. Bisogna essere molto accorti e molto attenti rispetto a quello che si propone ed è molto importante che la Csi si impegni, anche in futuro, a fornire aiuti umanitari e sostegno anche da un punto di vista organizzativo ai nostri colleghi dell’Ucraina così come di tutti i paesi del mondo in cui ci sono conflitti e in cui i valori democratici, i diritti umani, sindacali e dei lavoratori non vengono adeguatamente rispettati.

 

Penso anche, ad esempio, alle vicende anche recenti del Myanmar, di Honk Kong, di Taiwan.

 

Queste sono le priorità centrali dell’azione del sindacato a livello mondiale: la pace e la democrazia, così come la lotta contro l’estrema destra e il razzismo, per difendere i diritti umani e diritti dei lavoratori e delle lavoratrici.

 

È chiaro che si tratta di una battaglia che va ben al di là dei temi del mondo del lavoro, è molto più ampia e complessa e ha bisogno di fermezza e di capacità di approfondimento.

 

Penso al caso dell’Ucraina: sosteniamo fortemente il popolo ucraino e anche il governo di quel paese nel momento in cui resiste all’invasione russa e continuiamo a dare supporto anche materiale ai rifugiati oltre che ai nostri colleghi sindacalisti, ma non possiamo, al tempo stesso, sottacere che il governo ucraino ha messo in campo riforme liberticide che hanno distrutto completamente la partnership sociale, la contrattazione collettiva e il dialogo sociale. Il governo ucraino si prepara anche a smantellare tutte le tutele nel mercato del lavoro utilizzando la guerra come giustificazione per raggiungere obiettivi pregressi che non era riuscito ad ottenere in tempo di pace.

 

Su questo aspetto chiaro che il Governo ucraino purtroppo si dimostra di essere un governo neo-liberista e di estrema destra. Massimo sostegno quindi per quel che riguarda la guerra e l’invasione russa, ma nessun sostegno e nessuno sconto quando si tratta di denunciare azioni di questo genere.

 

Congiuntamente, come Ces e Csi, ci stiamo impegnando con le istituzioni comunitarie per far sì che il processo di adesione dell’Ucraina all’Unione Europea avvenga sulla base delle regole europee, sulla base dei nostri valori, del nostro modello sociale e dei nostri diritti sociali.

 

Tutte queste battaglie continueranno andando oltre i limiti del mondo del lavoro; c’è molto di più in gioco, c’è bisogno di costruire alleanze con le forze progressiste che esistono nei vari paesi del mondo, con le organizzazioni non governative che difendono i diritti umani, che costruiscono la pace, che lottano contro le derive di estrema destra, e contro la corruzione, la criminalità e così via. È molto importante che tale rete di collaborazione venga rafforzata il più possibile consentendoci di mobilitarci e di mettere insieme risorse anche finanziarie per dare aiuto a coloro che si trovano in condizioni difficili. Su questi temi ritengo che sicuramente anche nel futuro ci sarà un impegno significativo da parte della Csi.

 

Un’ultima domanda: di fronte all’esplosione di temi globali come l’accelerarsi del cambiamento climatico e all’aggravarsi di conflitti economici e militari, stiamo, un po’ paradossalmente e non da oggi, assistendo alla crisi del multilateralismo.

 

In questo contesto assistiamo anche all’allargamento del fossato politico, culturale, antropologico di quello che definiamo “Occidente” rispetto a gran parte del resto del mondo.

 

Come vive questa sfida oggi, anche umanamente, alla vigilia del Congresso di Melbourne?
 

Quale sarà il suo approccio e come si metterà anche personalmente in gioco da: “bianco, europeo, occidentale” di fronte ad un’organizzazione che rappresenta i sindacati e culture di tutto il mondo, compresi quelli di paese attualmente in conflitto tra loro?

 

L. Visentini: Io sono un Europeo del Sud. Su molti aspetti mi sento molto più vicino agli africani e ai latino americani di quanto non mi senta vicino, ad esempio, agli islandesi o ai finlandesi. Da questo punto di vista non credo di avere le difficoltà che altri nel mondo anglosassone o nel mondo nordico possono riscontrare nel comprendere le peculiarità che questi mondi vivono, in particolare del Sud del pianeta, quando si tratta di lottare per costruire un modello economico e sociale più giusto. Riequilibrare il livello di sviluppo tra Nord e Sud e rompere la cortina delle diseguaglianze, delle discriminazioni e consentire a questi paesi di svilupparsi in maniera adeguata senza essere afflitti dall’imperialismo economico e politico che viene dal Nord del pianeta, è una delle condizioni fondamentali per ribaltare il modello economico e costruire un modello di sviluppo più giusto e inclusivo.

 

Non solo tutela del lavoro o dell’ambiente, si tratta anche di riequilibrare i livelli di sviluppo tra i continenti e far sì che tutti quanti vengano inclusi a livello geopolitico mondiale.

 

Questa sfida richiede una grande azione del sindacato a livello politico nel rapporto con le istituzioni internazionali, ma anche in termini di mobilitazione a livello globale, costruendo alleanze che vadano oltre il mondo del lavoro e favorendo una spinta propulsiva che porti a risultati concreti.

 

Da questo punto di vista alcuni passi avanti sono stati fatti anche perché alcune istituzioni internazionali hanno iniziato a sviluppare una narrativa diversa rispetto al passato anche se spesso tale narrativa non si è trasformata in azioni concrete. Bisogna però riconoscere che in particolare l’Ocse e per certi versi persino il Fondo monetario internazionale qualche passo avanti lo hanno fatto.

 

Oggi la situazione è un po’ peggiorata perché l’Ocse è diretta da un ultra-conservatore australiano e il Fondo monetario si dibatte tra mille contraddizioni con una crisi generalizzata del multilateralismo a livello globale.

 

Tutto ciò non ci deve distogliere dal combattere per ottenere una maggiore equità e inclusione e un maggiore equilibrio nel modello economico mondiale in maniera tale che tutti i paesi possano avere effettivamente un’opportunità di sviluppo per le loro popolazioni, non per le loro elitès.

 

È una battaglia tremenda, molto difficile. Avendo dialogato con tante organizzazioni che vengono dal Sud del mondo nel costruire la mia campagna e il mio Manifesto e le proposte politiche ad esso collegate credo di avere le carte in regola per potermi impegnare in questa sfida, ma soprattutto di avere il sostegno convinto di tutti quei colleghi e colleghe nei vari paesi che hanno veramente a cuore di promuovere una Csi che si impegni in maniera molto energica ed efficace verso questi obiettivi.

Sarà questa del riequilibrio geopolitico mondiale una delle priorità sulle quali, auspico, dovremo lavorare alacremente con la nuova leadership dell’Ituc-Csi nell’immediato futuro.

 

Francesco Lauria

Centro Studi Cisl

@lauria_franc

Conversazione con Luca Visentini, segretario generale Ces, candidato alla guida della Ituc-Csi (Confederazione Sindacale Internazionale)