Contrattazione collettiva e dialogo sociale per la Just Transition: sintesi dei risultati del progetto Agreenment

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Bollettino ADAPT 2 novembre 2020, n. 40

 

Di fronte all’imperativo globale di una transizione verso un sistema economico a basso impatto ambientale e alle implicazioni che tale processo implica per il mercato del lavoro, il progetto Agreenment: A Green Mentality for Collective Bargaining ha indagato il ruolo della rappresentanza e della contrattazione collettiva nella promozione dello sviluppo sostenibile e della Just Transition. Co-finanziato dalla Commissione Europea, il progetto è stato guidato da ADAPT in collaborazione con numerosi partner accademici (Università Aix-Marseille, Università di Almerìa, Università Pompeu Fabra, Università di Szeged, Università di Warwick, Vienna University of Economics and Business).

 

La ricerca registra all’interno del perimetro geografico coperto – che abbraccia, oltre all’Italia, Francia, Olanda, Ungheria, Spagna e Regno Unito – una crescente attenzione delle parti sociali alle tematiche della sostenibilità ambientale, sebbene la sintesi conclusiva del progetto, elaborata da Juan Escribano Gutiérrez dell’Università di Almería, segnali un persistente e ingiustificato scollamento tra la disciplina del lavoro e le tematiche ambientali in tutti i paesi analizzati. Pur riconoscendosi alla contrattazione collettiva un ruolo chiave nell’elaborazione di percorsi di Just Transition, sul piano fattuale l’indagine consegna il dato di un persistente trade-off tra lavoro e ambiente.

 

Il caso francese

 

Con l’obiettivo di studiare le motivazioni che hanno spinto l’autonomia collettiva ad integrare, seppur in dosi ancora modeste, il principio dello sviluppo sostenibile nella contrattazione collettiva, il gruppo di ricerca dell’Università Aix-Marseille, analizzando circa 300 contratti collettivi, ha portato alla luce rari ma significativi riferimenti normativi alla tutela dell’ambiente, con specifico riguardo alle tematiche del diritto alla salute e della sicurezza. E ciò anche in ragione di una legislazione che nell’ultimo decennio ha gradualmente portato alla costruzione di una nozione globale di rischio, con ricadute organizzative per le aziende sempre più incentivate ad integrare i profili di prevenzione tra tutela della salute e tutela ambientale. Si registrano non soltanto azioni di sensibilizzazione e promozione a favore di comportamenti eco-responsabili, ma altresì percorsi di partecipazione nella definizione e implementazione dei programmi transizionali, che investono questioni riguardanti la formazione, i sistemi di inquadramento del personale e i meccanismi di retribuzione. Eppure, la ricerca sottolinea che l’innovazione in senso sostenibile dei modelli di produzione non potrà essere solo tecnica, dovendo interessare aspetti anche sociali e culturali. Per tale ragione, l’analisi conferma la necessità di consolidare il ruolo di guida del dialogo sociale a tutti i livelli verso il cambiamento che le generazioni future dovranno affrontare.

 

In questa prospettiva, lo studio saluta positivamente la istituzione in Francia di un ministero per la transizione ecologica, come pure la normazione nel codice civile francese di uno statuto speciale per le cosiddette società-benefit, le quali hanno l’obbligo di bilanciare l’obiettivo del profitto con la valorizzazione dei lavoratori, dell’ambiente e delle comunità. Si tratta di uno sviluppo positivo nella misura in cui potrebbe favorire una evoluzione delle politiche di corporate social resposanbility, generalmente rimesse alla discrezionalità manageriale, verso percorsi maggiormente partecipativi.

 

Il caso ungherese

 

Pur in assenza di ostacoli normativi all’inclusione nei contratti collettivi di previsioni sulla tutela dell’ambiente, il rapporto ungherese registra, sul piano pratico, uno scarso interesse delle parti sociali alla sostenibilità ambientale.

 

La spiegazione potrebbe derivarsi dalla più generale svalutazione del ruolo e della funzione della contrattazione collettiva nel Paese, specie a livello nazionale: la preoccupazione prevalente delle organizzazioni sindacali ungheresi riguarda la propria legittimazione nei confronti della controparte, limitando quindi le rivendicazioni a questioni “classiche” del diritto del lavoro. Il rapporto denuncia, dunque, la carenza di un adeguato sistema di relazioni industriali capace di ripensare, in ottica collettiva, l’utilizzo delle risorse umane, materiali ed energetiche nei sistemi di produzione e di anteporre i bisogni dei lavoratori, intesi come collettività, a quelli dei singoli individui. Non è escluso, tuttavia, che la situazione possa evolvere rapidamente nel prossimo futuro, in ragione di un crescente interesse delle aziende al pilastro ambientale della sostenibilità, che comporterà la ristrutturazione di ampi settori produttivi e un più massiccio impiego di fonti energetiche rinnovabili nei sistemi di produzione. Si tratta di processi rispetto ai quali il ruolo del sindacato potrebbe essere decisivo per bilanciare i diversi interessi in gioco che la transizione energetica ed ecologica coinvolge, innanzitutto attraverso la leva della formazione, della riqualificazione professionale e degli strumenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione.

 

Il caso italiano

 

Nonostante l’enfasi dottrinale sulla necessità di creare sinergie tra tutela del lavoro e dell’ambiente, riscontrabile nella letteratura giuslavoristica fin dagli anni Ottanta, il principio dello sviluppo sostenibile non risulta ancora parte integrante del diritto del lavoro italiano, né viceversa la legislazione ambientale contempla percorsi integrativi con le norme di tutela del lavoro. Per converso, il sistema italiano di relazioni industriali si presenta come un potenziale canale di integrazione e convergenza tra sostenibilità del lavoro e sostenibilità ambientale.

 

A differenza di quanto riscontrato in altri paesi, questa conclusione ha anche un fondamento storico. La storia delle relazioni industriali italiane dimostra, cioè, l’esistenza di una tensione tra due spinte che hanno accompagnato lo sviluppo del paese fin dal secondo dopoguerra: quella ad anteporre la tutela dei redditi e dell’occupazione lavoro alla tutela dell’ambiente, da un lato; e quella a promuovere percorsi di integrazione tra salvaguardia ambientale e tutela del lavoro, dall’altro. Nonostante la prevalenza degli interessi legati allo sviluppo economico e occupazionale, dagli anni Sessanta importanti vertenze sindacali e iniziative contrattuali hanno portato ad un miglioramento della qualità dell’ambiente ben oltre i confini fisici delle fabbriche. L’onda lunga della giusta transizione osservabile nell’era industriale del capitalismo italiano sembra oggi rafforzata da forme più esplicite di integrazione tra lavoro e ambiente attraverso la contrattazione collettiva e il dialogo sociale. Si riscontra un diffuso consenso delle parti sociali sulla necessità di dissociare, mediante la leva tecnologica, dell’Industria 4.0 e dell’economia circolare, lo sviluppo economico e occupazionale dal degrado ambientale. In questa direzione si collocano numerosi esempi di contrattazione collettiva nazionale e aziendale volti a promuovere percorsi integrativi tra lavoro e ambiente, sia attraverso l’attivazione delle leve contrattuali più tradizionali, relative all’organizzazione del lavoro e alla disciplina della salute e sicurezza, sia attraverso la promozione di percorsi transizionali che, tramite un mix di politiche attive e passive, anticipino e riducano gli effetti sociali dei processi di riconversione ecologica della produzione e degli ambienti di lavoro.

 

Il rapporto segnala, tuttavia, che, in linea con lo sviluppo diversificato delle relazioni industriali nei diversi settori e nelle diverse aree geografiche del territorio italiano, buone prassi di contrattazione e dialogo sociale su questi temi, coesistono con fenomeni involutivi nell’ambito dei quali, anche nell’era della Just Transition, gli interessi del lavoro e del capitale tendono a prevalere ancora su quelli ambientali o comunque finiscono per essere declinati in termini oppositivi alla tutela dell’ambiente.

 

Il caso olandese

 

Sebbene la lotta contro il cambiamento climatico abbia investito l’agenda politica dei Paesi Bassi, il rapporto olandese sottolinea come l’attenzione negoziale delle parti sociali si concentri prevalentemente sul pilastro socioeconomico della sostenibilità e solo raramente su quello ambientale.

 

Lo stesso Consiglio economico-sociale, l’organo tripartito costituito dalle parti sociali e da membri accademici indipendenti, espressione del processo decisionale collaborativo e consultivo in materia di definizione delle politiche del lavoro, si occupa esclusivamente di sostenibilità sociale ed economica, relegando le discussioni inerenti all’ambito ambientale dello sviluppo nel circuito di confronto politico con le associazioni ambientaliste. L’impegno delle parti sociali verso la promozione dello sviluppo sostenibile è declamato sia sul versante sindacale che datoriale, ma la contrattazione delle condizioni di lavoro resta la pietra miliare dell’attività delle organizzazioni sindacali. Se molte aziende olandesi hanno da tempo imboccato la via alta della produttività, nell’ambito della quale tutela del lavoro e dell’ambiente possono trovare maggiori spazi di convergenza anche in sede di contrattazione collettiva, gran parte della produzione industriale adotta ancora modelli di business non sostenibili. Più in generale, quindi, la questione aperta circa il collegamento tra la sostenibilità ambientale, economica e sociale dovrebbe riguardare (oggi più che mai) la necessità di ripensare e ridisegnare l’attuale modello di sviluppo.

 

Anche su questo fronte le organizzazioni sindacali avrebbero un ruolo importante da giocare, ma il punto è che la partita non è ancora iniziata.

 

Il caso spagnolo

 

Nonostante la tutela ambientale e il diritto del lavoro non abbiano interagito in maniera importante nel contesto della contrattazione collettiva spagnola, nell’ultimo decennio entrambi i settori si stanno gradualmente sovrapponendo e influenzando reciprocamente, portando il ruolo delle parti sociali al centro del dibattito pubblico sulla lotta ai cambiamenti climatici. Nella cornice del sistema spagnolo di relazioni industriali, le basi per un “diritto del lavoro verde” sono forse poco evidenti, ma attenta dottrina lavoristica ha sottolineato la correlazione delle finalità delle politiche in materia di clima ed energia con il miglioramento delle condizioni di lavoro.

 

In quest’ottica, il team di ricerca della Università Pompeu Fabra evidenza come, anche nel contesto spagnolo, la contrattazione collettiva rappresenti una valida opzione per la trasformazione dei modelli produttivi in senso ampiamente sostenibile. Si pensi non soltanto al ruolo chiave nella transizione verso un’economia verde di forme di riduzione dell’orario di lavoro, ma anche al rafforzamento su tali tematiche della promozione dell’apprendimento permanente, in particolare attraverso la formazione, la ricerca, l’innovazione e l’uso di nuove tecnologie, nonché alla necessità di dotare, alla luce della loro funzione trainante verso modelli sostenibili di lavoro, di nuove competenze gli organi di rappresentanza datoriali e le organizzazioni sindacali.

 

Dall’analisi empirica condotta su un numero considerevole di contratti di categoria, aziendali e locali, gli organismi e comitati di partecipazione emergono come contesto istituzionale che, ad ogni livello, può favorire un processo di convergenza tra tutela del lavoro e tutela ambientale. L’ambito nel quale si registrano i principali percorsi integrativi, ovviamente, è quello della salute e sicurezza, che vede le competenze dei rappresentanti dei lavoratori espandersi anche a questioni legate alle politiche ambientali, fino a qualche anno fa rimesse alla discrezionalità manageriale.

 

Il caso del Regno Unito

 

L’analisi condotto dalle ricercatrici dell’Università di Warwick consegna il dato di una lunga esperienza dei sindacati britannici sulle questioni ambientali, maturata in vertenze comuni portate avanti con i movimenti ambientalisti.

 

Le studiose muovono dall’obiettivo di valutare la potenziale capacità della struttura delle relazioni industriali britanniche, altamente decentralizzata, di sostenere l’integrazione delle preoccupazioni ambientali attraverso i meccanismi della partecipazione e contrattazione collettiva. Sulla base di un’ampia indagine condotta su numerosi documenti e interviste, la ricerca conferma che i sindacati britannici hanno tentato di cogliere le possibilità insite in un sistema volontaristico di relazioni industriali, ampliando gli interessi classici della rappresentanza del lavoro. La sostenibilità ambientale è riconosciuta come questione rilevante dalle organizzazioni sindacali ma anche dalle associazioni datoriali, che concordando circa la necessità di coinvolgere i lavoratori nell’elaborazione di programmi per lo sviluppo sostenibile al fine di ottenere un reciproco vantaggio.

 

Tuttavia, pur in presenza di numerose dichiarazioni di intenti e iniziative partecipative per favorire una conversione ecologica degli ambienti di lavoro, sono stati conclusi relativamente pochi accordi incentrati sulla sostenibilità ambientale. Sebbene la ricerca colleghi tale difficoltà alla carenza di consapevolezza e di comunicazione sociale, il problema più significativo viene individuato nelle barriere istituzionali e giuridiche che ostacolano un pieno sviluppo delle relazioni industriali nel Paese. In conclusione, se il sindacato è culturalmente pronto a negoziare la Just Transition, l’attuale contesto politico e istituzionale non è abilitante.

 

Maria Cialdino

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@MCialdino

 

Contrattazione collettiva e dialogo sociale per la Just Transition: sintesi dei risultati del progetto Agreenment
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