Bamboccioni e schizzinosi? Una fotografia del rapporto tra giovani e lavoro tratta dai CV di una classe di studenti universitari

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Al centro del confronto pubblico e del dibattito politico nazionale ed internazionale c’è, ormai da anni, il rapporto tra giovani e lavoro. Per avere una misura del divario tra i giovani italiani e le imprese basta guardare ai percorsi di carriera e all’inserimento nel mercato del lavoro dei ragazzi e, a tal proposito, i loro CV sono degli ottimi indicatori.

 

Quest’anno al corso di Diritto del Lavoro di base alla Facoltà di Economia, Dipartimento “Marco Biagi” a Modena, è stato condotto un esercizio di analisi di 150 CV di studenti universitari al fine di classificare e inquadrare giuridicamente, partendo dalle loro esperienze concrete, quelli che sono i mestieri svolti e ricondurli entro gli schemi tipici contrattuali previsti dall’ordinamento italiano. L’esercizio di mappatura che è stato affrontato, seppur privo di valenza scientifica, è molto interessante per vedere se e come i giovani, nel loro percorso di studio, si sono già interfacciati con il mondo del lavoro.

 

Il primo dato riscontrabile da questa analisi è che la maggior parte degli studenti partecipanti al corso di riferimento ha già svolto, o sta svolgendo, attività lavorative: soltanto 18 i ragazzi che non hanno mai avuto esperienze di lavoro, o almeno questo è ciò che risulta dalle loro dichiarazioni.

I lavori più gettonati sono quelli di cameriere/a (33 studenti), segretario/a (17), impiegato/a d’ufficio (15), barista (14), collaboratore/collaboratrice di studio (13), baby sitter (12), magazziniere o commesso/a (8), cassiere/a (7), aiuto cuoco (5) e tante altre esperienze professionali spesso frammentarie e poco coerenti col proprio percorso di studi (per completezza ).

 

Altro elemento che emerge chiaramente dall’analisi dei CV è che a fronte di questi molteplici rapporti di lavoro, nessuno ha avuto un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, soltanto 1 studente ha firmato un contratto di lavoro a tempo determinato, qualcuno è stato assunto con contratto a chiamata, voucher, prestazioni occasionali o lavoretti estivi e ben 78 studenti hanno avuto un tirocinio. Da quanto descritto risulta indubbiamente che i giovani italiani troppo spesso lavorano senza contratto, e non solo perché è molto gettonato il tirocinio formativo, ma perché la maggior parte di essi svolgono attività lavorativa irregolare (il c.d. lavoro a nero).

 

La natura e le caratteristiche delle singole esperienza lavorative riportate nei CV degli studenti di Economia dell’Università di Modena, raccontano infatti chiaramente quanto lavoro non venga correttamente inquadrato e regolato e quanto sia distante da queste realtà il dibattito delle politiche attive invocato proprio in nome dei giovani. Risulta difficile credere che mestieri quali cameriere/a, barista o magazziniere possano essere stati svolti tramite un semplice tirocinio formativo; molto più probabile che si tratti di lavoro sommerso.

 

Questo è un dato su cui è bene riflettere: un Paese come il nostro fortemente industrializzato, con una manifattura invidiata da tutto il mondo, ospitante nei giorni scorsi il G7 sui temi del lavoro in cui si è parlato di giovani, disoccupazione e politiche attive, si dimostra ancora una volta afflitto dal fenomeno, ancora molto diffuso, del lavoro non dichiarato.

Siamo alle prese con situazioni ancora diffuse di illegalità, proprie di una economia che non investe sulle competenze e che prospera solo grazie allo sfruttamento del lavoro: un danno alle tante imprese che rispettano le regole, un danno anche ai tanti giovani che si devono accontentare di entrare nel mondo del lavoro senza tutele e senza le coperture del contratto. Altroché “bamboccioni”: i giovani italiani si danno da fare e accettano il lavoro che c’è, anche a costo di lavorare senza alcun contratto e con retribuzioni sempre più basse. L’economia sommersa si determina, infatti, in un problema sociale ma anche economico di sana e corretta concorrenza.

 

È il nostro Paese ad essere, troppo spesso, privato di sani e moderni rapporti economici dove la ricerca del profitto passa per investimenti in tecnologia e capitale umano e non certo dal mancato riconoscimento dei diritti e delle tutele del contratto come strumento di un equo equilibrio nella redistribuzione del valore creato. Il lavoro sommerso è una piaga sociale che va combattuta preventivamente: a fronte di 5 milioni e mezzo di imprese non è possibile affrontare il problema soltanto in termini patologici e sanzionatori. Serve ripristinare una cultura del lavoro, e del valore da questo generato, a partire dalle Università per evitare che coloro che dovrebbero essere protagonisti del mercato del lavoro restino soltanto delle semplici “comparse”.

 

D’altro canto, in un Paese che si proietta verso il futuro, forte di avanzate tecnologie e processi innovativi, ma che fatica ancora oggi a modernizzarsi e a garantire un futuro dignitoso per i giovani, è emblematico come una classe di 150 studenti di economia possa riflettere l’economia del lavoro in Italia.

 

Giada Benincasa

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo – ADAPT

@BenincasaGiada

 

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Bamboccioni e schizzinosi? Una fotografia del rapporto tra giovani e lavoro tratta dai CV di una classe di studenti universitari
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