A tu per tu con Marco Gay

Presidente, una domanda di apertura che è più una curiosità: cosa intendono per “giovani” i Giovani di Confindustria? Lei ha quasi 40 anni, si può supporre che non sia una questione meramente anagrafica…
 
Parliamo di chi sono i giovani oggi in Italia. Sono quelli che hanno imparato a fare impresa proprio negli anni della crisi, quelli cresciuti sentendosi dire che la propria generazione avrebbe visto per la prima volta le condizioni peggiorare rispetto ai loro padri, quelli che – nati dopo la fine delle ideologie – hanno visto la politica cedere il passo al populismo. Ma proprio per questo sono quelli che con tanta voglia di riscatto, poche illusioni e molto coraggio hanno tutte le carte in regola per scrivere un nuovo capitolo dello sviluppo italiano.
 
Nella sua relazione al 45° Convegno di Santa Margherita Ligure ha introdotto il suo discorso dicendo “Siamo cittadini e quindi politici”. Ci spieghi meglio questo concetto: perché un imprenditore può fare “politica”? Che cosa può chiedere e che risposte può dare?
 
Fare politica è il risultato del nostro agire quotidiano: da una parte infatti una impresa ha un ruolo sociale verso il territorio dove opera; dall’altra se vogliamo migliorare le condizioni del nostro fare impresa dobbiamo occuparci della competitività, coesione e funzionalità del “Sistema Italia”. Questo significa “fare politica”, il nostro “campo” non è l’agone politico ma l’agorà, e in quell’agorà – da imprenditori – vogliamo partecipare, fare la nostra parte. La consapevolezza è che non ci basta più chiudere i nostri bilanci in positivo o assumere una persona in più rispetto allo scorso anno o di non licenziarne nemmeno una quando calano gli ordinativi. È chiaro che sono risultati ottimi per chi fa impresa, ma non ci basta svolgere al meglio solo il nostro lavoro di imprenditori. Perché significa lottare giorno per giorno, senza poter pianificare come vorremmo. Per questo, se anche ci possiamo sentire soddisfatti dai risultati aziendali, restiamo sempre, tutti, coinvolti in qualcosa di più grande. Che si chiama Italia. E che ha bisogno del nostro contributo sociale e quindi politico.
 
Più in generale che momento vivono attualmente le parti sociali? Qualche commentatore ha notato una certa convergenza tra le vostre tesi e quelle di Landini. Nel frattempo Squinzi ha dichiarato che in crisi non sono i valori dell’associazionismo ma le forme con cui si esprime. È in atto una sorta di reazione a un certo “renzismo” che in qualche modo sta comprimendo il ruolo delle parti sociali?
 
Ha ragione il Presidente Squinzi. Il nostro “ci interessa” è la necessità di trovare nuove forme con cui può esprimersi l’associazionismo. Perché chi, come noi, fa rappresentanza è un valore aggiunto per il Paese. Siamo una lobby? Sì, quella che promuove l’interesse dei giovani e degli imprenditori. E se lo facciamo bene, c’è un Paese che cresce. Perché, anche grazie a noi, possiamo fare politiche e non soltanto politica. Delle imprese non possiamo ricordarci solo quando c’è da scongiurare la chiusura di uno stabilimento, ma ogni giorno in cui è necessario trovare strumenti per farne nascere di nuovi. Non abbiamo solo capitali da investire per la crescita, ma capitale civico da investire per il cambiamento. Eppure senza sistemi di confronto non possiamo partecipare a elaborare le politiche pubbliche e metterle in pratica. Anche quando ne siamo i destinatari. Da qui nasce il nostro appello di Santa Margherita: “sfruttateci per le idee, non solo per le tasse”.
 
Qual è il principale “laccio e lacciuolo”, a dirla con Guido Carli, che blocca le imprese italiane oggi, in particolare le imprese più giovani? Se avesse la bacchetta magica qual è la prima cosa che aggiusterebbe del nostro Paese?
 
Lo “scale up”, ovvero la crescita dimensionale delle imprese e la creazione di multinazionali tascabili, più strutturate, price maker, capaci di creare un mercato e non di dipenderne solamente. Perché questo è il vero gap che ci separa dalla Germania. Per riuscirci, però, dobbiamo avere un ecosistema che ce lo permetta con semplicità e ci rispetti per quello che facciamo. Se in Inghilterra la deduzione per chi investe in nuove imprese è pari all’85 per cento del capitale, in Italia possiamo pensare di avere gli stessi risultati con solo il 19-20 per cento? Quindi fisco, politica industriale e innovazione.
 
Seppure il tema della scuola non è affrontato all’interno della sua relazione, i Giovani Imprenditori portano avanti diverse iniziative sul territorio che aiutano i ragazzi ad orientarsi meglio verso il mercato del lavoro. Che idea vi siete fatti della riforma della scuola? E quali sono le figure professionali più richieste dalle imprese?
 
La scuola è lo strumento per cancellare la disuguaglianza che da troppo tempo strozza il Paese perché permette di passare da una logica in cui conta di chi si è figli a una logica più meritocratica in cui conta che persone si vuole diventare. Ma come può riuscirci una scuola che non premia il merito non riuscendo così a trattenere gli insegnanti migliori, a premiarli finanziariamente per il loro impegno e aggiornarli costantemente? Come può riuscirci una scuola che non insegna economia e inglese, che non si è digitalizzata mentre fuori il mondo gira sulla banda larga, che ha istituti con fatiscenti laboratori da epoca fordista, quando ormai si produce con le stampanti 3D? Come può riuscirci se si rifiuta di fare orientamento e alternanza scuola-lavoro e si accontenta di dire ai ragazzi “il lavoro cercatevelo da soli”? Il DDL su “La Buona Scuola” è per questo un immenso passo in avanti per aprire la scuola al mondo del lavoro, dell’innovazione, del confronto e dell’aggiornamento. Si potrà anche modificare nei passaggi parlamentari ma non deve perdere di vista questi punti che sono strategici per il nostro sistema industriale. Tanto strategici che i 95 gruppi territoriali dei Giovani Imprenditori da mesi sono impegnati in una moltitudine di iniziative in questo campo che – d’accordo con il MIUR – vanno sotto il cappello di “Invasione pacifica delle scuole”.
 
Parallela alla riforma della scuola è in corso la riforma del lavoro: secondo lei e secondo le imprese italiane il Jobs Act semplifica o meno il quadro del diritto del lavoro italiano?
 
Il Jobs Act è nato con uno scopo preciso: che non è quello di creare dissidi con i sindacati, non è quello di fare un favore a Confindustria, e nemmeno quello di dimostrare a Bruxelles che l’Italia sa fare i compiti a casa. Il Jobs Act è nato con un altro scopo: combattere la disoccupazione. Soprattutto quella giovanile. Ora, la disoccupazione si combatte da una parte allocando in modo più efficiente i lavoratori sui posti disponibili – il famoso matching fra domanda e offerta di lavoro – ma, soprattutto, si combatte creando nuovi posti di lavoro, attraverso politiche di sviluppo che favoriscano gli investimenti delle imprese e così generando nuova occupazione.
Il merito del Jobs Act è proprio quello di semplificare e darci un assetto normativo che permette a chi assume di sapere con certezza quanto gli costerà il lavoratore e quali conseguenze potrebbe avere un licenziamento. Senza finire nella babele dei tribunali per ogni – difficile e spesso doloroso, anche umanamente – processo di chiusura di un contratto in essere. L’effetto di norme più semplici e di una tipizzazione dei casi, dovrebbe ridurre il contenzioso giudiziario e far risparmiare tempo, soldi e pratiche, non solo all’azienda ma anche al lavoratore. La maggiore flessibilità in entrata e in uscita è inoltre un incentivo ad assumere – non più commercialisti ma collaboratori!! – per le imprese italiane e a investire in Italia per quelle straniere. Certo, si poteva fare di più, ad esempio applicando le regole non solo sui nuovi contratti ma sull’intera platea dei lavoratori con contratto di lavoro a tempo indeterminato per evitare nuove segmentazioni del mercato del lavoro. Ma è un buon inizio!
 
Non c’è sviluppo dell’industria senza una vera innovazione. A che punto sono le imprese italiane nello sviluppo dell’Industry 4.0? Siamo pronti sia sul piano tecnologico che sul piano delle competenze?
 
È da un anno che giro l’Italia alla scoperta di incubatori, elevator pitch e fab lab. La nostra sfida oggi è quella di far sì che aprire una startup in Italia sia più vantaggioso che altrove. Noi non possiamo e non vogliamo essere la Silicon Valley ma l’innovation hub d’Europa. Siamo il secondo Paese manifatturiero europeo: per questo possiamo far crescere le nostre start-up grazie a un sistema di piccole, medie e grandi imprese alla ricerca di innovazione. L’Industry 4.0 può nascere prima di tutto su questa consapevolezza. A cui devono legarsi due elementi fondamentali: l’investimento in formazione tecnologica delle scuole, come dicevamo prima, e l’attuazione dell’agenda digitale su cui – nonostante gli annunci – siamo totalmente indietro se il Digital Economy and Society Index, che è stato aggiornato nei giorni scorsi, ci vede al 25esimo posto su 28 Paesi.
 
Altro tema ripreso più volte da Confindustria e dai Giovani di Confindustria: le relazioni industriali. Sono diversi i modelli innovativi di relazioni industriali più vicine ad aziende e lavoratori che nascono nel sistema Confindustria. Crede che potranno diventare prima o poi modelli più diffusi e capillari?
 
Il compito di dotarci di un mercato del lavoro che funziona, che aiuta la competitività, che è funzionale alla politica industriale, non è solo del legislatore: sta anche a noi, tocca direttamente alle parti sociali. Una delle prime cose che Confindustria intende fare, come annunciato da Squinzi, è infatti una verifica con il sindacato sui temi della rappresentanza e della contrattazione. Servono regole radicalmente nuove della contrattazione collettiva, bisogna rivedere il modello contrattuale per assicurare la certezza dei costi, la non sovrapponibilità dei livelli di contrattazione e legare strettamente retribuzioni e produttività. Credo che i nuovi modelli, più vicini alle aziende, potranno essere un valido strumento per integrare il modello di contrattazione nazionale. Perché dare più ampio spazio possibile a quella aziendale per incentivare il raggiungimento di obiettivi individuali o collettivi, ci permette di aggredire un tema importante per la competitività: negli ultimi 15 anni abbiamo perso oltre 30 punti di competitività, in Germania le retribuzioni sono cresciute meno della produttività – di fatto hanno effettuato una svalutazione competitiva – ma noi le abbiamo fatto crescere più della produttività, perdendo quote di produzione e di occupazione.
 
 
Lei si può definire in qualche modo uno “startupper”, si pensi al progetto “Let.life”. I dati dicono che c’è un ritorno all’imprenditorialità da parte dei giovani. Come si può consolidare questa tendenza e in che modo convincerebbe un giovane italiano a diventare imprenditore?
 
La normativa sulle start-up è stato un esperimento di successo di una policy innovativa, sia per i contenuti, sia per il metodo, ovvero il fatto di essere nata da una task force in cui chi conosce questo ecosistema in prima persona ha potuto portare il suo contributo. Insomma, un “ci interessa” riuscito. E i risultati si vedono, se il numero delle aziende iscritte al registro speciale del MISE è sempre in crescita. Il salto di qualità è quello di far passare le start up da piccole e piccolissime imprese con un potenziale a imprese vere e proprie che si possano strutturare e che possano svilupparlo quel potenziale. Per questo il vero nodo è quello dei finanziamenti. Il mondo del credito e del capitale ancora guarda con diffidenza a questo universo. Ma anche per questo serviamo noi Giovani Imprenditori, che possiamo non solo operare un passaggio culturale ma anche operativo: aiutare il mondo delle start up a fondersi con quello della manifattura tradizionale, creare canali e strumenti di contaminazione, per far crescere nel complesso tutto il sistema produttivo italiano.
 
* Marco Gay, Presidente Giovani Confindustria.
 
Francesco Seghezzi
Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT, Università degli Studi di Bergamo
@francescoseghez
 
 
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