La suggestione del contratto unico e l’esigenza di una flessibilità razionale

Dal dibattito politico animatosi nelle settimane scorse sembra emergere un consenso pressoché unanime sulla necessità di rendere più semplici le norme sul lavoro. Molteplici le ricette offerte. Tra queste, ha molto seguito l’idea secondo cui semplificare il lavoro significhi (anche) ridurre le tipologie contrattuali. La coesistenza di “diversi” contratti di lavoro, legittimando la possibilità di lavorare con modalità e tempistiche differenti, avrebbe alimentato precarietà e dualismo tra lavoratori protetti e non, rendendo l’obiettivo del lavoro unico e per l’intera vita un miraggio. Alla precarietà dei “lavori” si dovrebbe, quindi, rispondere con la (asserita) stabilità del contratto “unico”. Un lavoro a tempo indeterminato, a tutele crescenti certo, ma pur sempre a tempo indeterminato.
 
Di fronte all’ennesima (al momento solo preannunciata) riforma del lavoro, è quanto meno legittimo domandarsi se l’idea del contratto unico sia davvero funzionale alle esigenze di un moderno mercato del lavoro. La suggestione che attraverso una legge sia possibile imporre alle imprese di assumere a tempo indeterminato, per quanto attraente, è il vero limite di una soluzione che corre il rischio di essere semplicistica (e non di vera semplificazione). Invero, sembra tutt’altro che razionale offrire un unico schema contrattuale alla variegata e multiforme realtà dei diversi moderni modi di lavorare e di produrre. Il mercato del lavoro ha bisogno certamente di lavoratori a tempo indeterminato, ma anche di apprendisti, di lavoratori a termine, di collaboratori autonomi, di lavoratori in somministrazione. Così come di contratti incentivati per lavoratori svantaggiati, agili voucher per regolare i lavori occasionali. Ipotesi contrattuali che verrebbero travolte da un’unica e sola forma contrattuale, formalmente a tempo indeterminato, ma da cui, nei primi (tre?) anni, il datore di lavoro potrà recedere, corrispondendo al lavoratore un indennizzo economico.
 
L’insopprimibile esigenza di flessibilità – organizzativa e contrattuale – dell’impresa moderna non si cancella con un tratto di penna. Anche se compiuto dal Legislatore. Per poter far fronte con dinamismo ed efficienza a picchi di lavoro stagionale, a commesse straordinarie, per poter gestire innovazioni del processo produttivo oppure fasi di start up, le aziende non possono non ricorrere al lavoro temporaneo. Piuttosto, il vero problema è stabilire quando è lecito utilizzare il lavoro flessibile ed impedirne gli abusi.
La riforma Fornero, ancorché avesse inteso affermare la centralità del lavoro a tempo indeterminato, quale «forma comune di rapporto di lavoro», ha, di fatto, finito per contraddire l’enfatica affermazione di principio, stabilendo una forte liberalizzazione del lavoro temporaneo: il primo contratto a termine tra lavoratore e azienda, per una durata massima di un anno, può essere stipulato anche in assenza di ragioni oggettive (il c.d. contratto acausale). Una scelta quest’ultima che, indubbiamente, si propone di porre un freno alle incertezze del controllo giudiziale sulla legittimità del termine, che, negli anni, a fronte di un imponente contenzioso, hanno dato luogo a decisioni giurisprudenziali spesso contrastanti.
È al contempo indubbio, però, che liberalizzando il primo contratto a termine, il Legislatore ha accettato il rischio di un suo utilizzo incontrollato, che può alimentare il turn over, specialmente tra lavoratori non particolarmente qualificati, per i quali non occorra una specifica formazione.
 
Al bisogno di flessibilità delle imprese, si può rispondere con una flessibilità “controllata”, ammettendo il ricorso al lavoro temporaneo ogni qual volta esista una plausibile ed oggettiva ragione tecnica, organizzativa, produttiva, sostitutiva.
Del resto, uno dei principi cardine dell’ordinamento lavoristico italiano è quello per cui la fine del rapporto di lavoro deve essere motivata. Coerentemente, quindi, così come alla base della cessazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato deve esserci una motivazione, ugualmente ragioni certe e oggettive devono giustificare la temporaneità del rapporto a tempo determinato.
L’alternativa, quindi, non è necessariamente tra contratto unico a tempo indeterminato (ma da cui è ammissibile, nei primi anni, recedere dietro versamento di un importo economico crescente con il passare del tempo) e flessibilità incontrollata (contratto acausale).
 
La terza via è rappresentata dal lavoro temporaneo fondato su esigenze tecnico-produttive-organizzative certe, razionali e dimostrabili. Senza aggravi economici ulteriori rispetto a quelli del tempo indeterminato. Uno strumento agile, in grado di sostenere le aziende in tutte quelle fasi in cui non si può esigere che l’assunzione sia a tempo indeterminato. Come avviene nei casi di punte di maggiore attività aziendale (anche stagionale), sperimentazione di innovazioni tecniche, avvio di una nuova attività produttiva o di nuovi processi lavorativi, ma anche nei casi di realizzazione di attività temporanee, anche nell’ambito della ricerca scientifica e nell’insegnamento, sostituzione di personale temporaneamente assente.
 

Davide Costa

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo

@davidecosta1983

 

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