Una lezione dal Tennessee?

Venerdì 14 febbraio 2014 i lavoratori dell’insediamento VolksWagen di Chattanooga, in Tennessee, hanno stabilito di rifiutare la protezione del sindacato. Il 53% dei lavoratori, infatti, si è espresso negativamente nel referendum che avrebbe potuto stabilire l’ingresso del “United Auto Workers Union”, nello stabilimento. Il successo al voto avrebbe rappresentato un’ importante breccia per il sindacato americano, che da anni tenta di penetrare nel settore degli stabilimenti di produzione di autoveicoli di origine straniera: l’attenzione da parte di media e forze politiche era alta e le aspettative dell’associazione, negli scorsi mesi, piuttosto rosee.
 
All’indomani del referendum, invece, Chattanooga rimane l’unico stabilimento VolksWagen del mondo in cui mancano le condizioni per la costituzione di un comitato aziendale, sul modello delle relazioni industriali tedesche (secondo quanto riportato sul Finantial Times; Robert Wright, VW workers at US car plant snub union, 15 febbraio 2014) ed i lavoratori non sono rappresentati.
 
È impossibile offrire, in questa sede, una completa ricostruzione dei fattori che sono intervenuti nella vicenda, del background socio-economico in cui si è sviluppata e dei risvolti che avrà nel futuro (si rimanda pertanto al sito http://www.timesfreepress.com/news/2013/feb/05/uaw-test/, che raccoglie un’esauriente rassegna stampa, locale e nazionale, in proposito).
 
È utile però focalizzare l’attenzione su alcuni rilevanti aspetti di quanto si è verificato oltre oceano che ci aiutano a riflettere sulle sfide che istituzioni e sindacato oggi, anche in Italia, sono chiamate a fronteggiare.
 
Il primo elemento da sottolineare – già ampiamente trattato dalla stampa italiana che si è occupata della questione – è il peso che le interferenze esterne sembrano avere avuto sull’esito del voto. Interferenze costituite, in primo luogo, dagli interventi di alcuni esponenti politici di estrazione repubblicana – Bill Haslam, governatore del Tennessee e Bob Corker, uno dei senatori dello stato – secondo i quali la sindacalizzazione dello stabilimento avrebbe avuto effetti di grave destabilizzazione sulla competitività dello Stato, al punto tale da influenzare anche le future scelte dell’azienda (Corker ha sostenuto, ad esempio, che VolksWagen avrebbe optato per l’avvio della produzione di un nuovo veicolo in uno stabilimento diverso da quello di Chattanooga, qualora il referendum avesse dato esito positivo, notizia poi smentita dalla stessa casa automobilistica).
Oltre ad un’azione politica di simile portata, sono da citare altri fattori quali l’azione di opposizione del management di medio livello, la proliferazione di campagne e comitati anti-unionism guidati dagli stessi operai dello stabilimento, il declino del settore che ha caratterizzato altre zone degli USA (in particolare Detroit, Michigan, in cui la manodopera è sindacalizzata) ed il malcontento dei lavoratori legato ad alcune azioni del sindacato, quali ad esempio l’introduzione della clausola di “moderazione salariale” nella contrattazione collettiva del settore tra la fine degli anni ’90 ed i primi anni del 2000, la cui applicazione nei confronti degli operai di Chattanooga avrebbe comportato significative perdite di reddito.
 
Uno scenario particolare, quindi – complicato da altre peculiarità del contesto, non solo socio economico, ma anche legislativo dello Stato – che comunque ci dà l’opportunità di riflettere sul concetto di esportabilità del modello di relazioni sindacali tedesco, di cui spesso si parla. Un sistema che, come è noto, si caratterizza per la separazione fra rappresentanza sindacale, associativa e volontaria, e rappresentanza dei lavoratori all’interno delle organizzazioni produttive, affidata interamente ad organismi elettivi che operano secondo un modello partecipativo di relazione che implica l’attribuzione di grande valore a meccanismi basati sulla cogestione e la codecisione.
La vicenda impone di concentrare l’attenzione sul fatto che non è possibile esportare un modello se non esistono le condizioni culturali necessarie al suo sviluppo. Il concetto pare scontato, ma è tutt’altro che tale. Se è vero che in Italia esternazioni come quelle degli esponenti repubblicani intervenuti nella vicenda non le udiremo mai da parte di deputati o senatori della Repubblica, è necessario sottolineare che a livello politico ed istituzionale manca ancora una mentalità diffusa capace di pensare alle relazioni fra sindacati ed imprese in termini differenti da quelli del conflitto.
 
Se la mentalità manca, perché dovremmo lavorare per costruirla?
 
La risposta arriva, indirettamente, dalla vicenda americana e dall’atteggiamento della VolksWagen che in un comunicato pubblicato all’indomani del referendum dichiara che la decisione presa lo scorso 14 febbraio dagli operai dello stabilimento non implica la loro contrarietà all’introduzione del sindacato nell’azienda e promette che proseguirà, in futuro, nel tentativo di instaurare relazioni simili a quelle tedesche anche nello stabilimento americano. L’azienda riconosce la validità del modello partecipativo che ha contribuito fortemente alla resistenza delle aziende tedesche alla crisi economica degli ultimi anni e pare volerne l’attuazione.
Che un modello conflittuale di relazioni sindacali non sia quello di cui la società ed i lavoratori oggi hanno bisogno è suggerito poi dalle vicende domestiche all’attenzione di media e policy makers nei tempi recenti: prima fra tutte, la vicenda Electrolux.
 
Chi scrive ha poi un ultimo dubbio sorto a causa delle scelte dei lavoratori del Tennessee. È possibile che il sindacato, ad oggi, non sia più in grado di persuadere i lavoratori circa l’utilità ed il significato della rappresentanza in azienda?
Negli Stati Uniti, solo il 6,6 % dei lavoratori del settore privato è sindacalizzato; il sindacato UAW negli ultimi trent’anni è sceso da un numero di iscritti pari a circa 1,2 milioni ad un totale di circa 400 mila.
Secondo un operaio membro del comitato “No 2 UAW” dello stabilimento di Chattanooga, le relazioni sindacali dovrebbero essere osservate dal punto di vista del lavoratore, che non viene pagato, se l’azienda non produce macchine. Il lavoro di un operaio è quello di aiutare l’azienda a fare il suo lavoro ed il sindacato rende tutto più difficile.
 
I lavoratori non hanno più bisogno, né in America, né altrove, di un sindacato contrapposto all’azienda, gli interessi delle imprese e della forza lavoro non sono sempre, né per forza, incompatibili, se non altro perché se non c’è l’azienda, non c’è lavoro.
Questa è la chiave di volta della rivoluzione che all’interno delle stesse organizzazioni sindacali potrebbe portare ad un rinnovamento delle logiche dei rapporti tra le parti sociali e costituire, altresì, una soluzione alla crisi attuale delle dinamiche della rappresentanza.
 
L’evoluzione del lavoro impone un’evoluzione delle relazioni sindacali che deve passare attraverso il dialogo e la partecipazione, i cui protagonisti devono essere le istituzioni, le aziende e soprattutto il sindacato stesso che deve farsi promotore di una rivoluzione culturale, abbandonando schemi di pensiero e di azione legati a logiche passate. La modernità esige il cambiamento e l’ultimo insegnamento del caso VolksWagen è che se il sindacato non dovesse rispondere, il prezzo potrebbe essere molto alto.
 
Giulia Tolve
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@GiuliaTolve
 
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