Sul lavoro Matteo è peggio di Letta

Che Garanzia Giovani faccia acqua da tutte le parti è un dato di fatto. Non lo dice un pericoloso organo di stampa anti-renziano ma lo attestano i numeri che settimana dopo settimana vengono «ammessi» dal Ministero del lavoro. A titolo di esempio: a fronte di 237 mila giovani che si sono registrati al portale dedicato (www.garanziagiovani.gov.it) ci sono appena 17 mila offerte (per quasi 25 mila posti complessivi).
 
Al primo colloquio, quello di orientamento, il passo propedeutico per qualsiasi percorso occupazionale, sono stati chiamate appena 50 mila persone. Mentre la distribuzione geografica delle opportunità (71,7% al Nord, 14,3% al Centro, 13,9% al Sud e 0,1% all’estero) rispecchia i rapporti delle forze economiche nel Paese ma non risponde a una domanda: come fanno ragazzi quasi sempre scarsamente retribuiti (spesso si parla di stage) a sobbarcarsi i costi del trasferimento da una parte all’altra della penisola? Insomma da un progetto partito da quasi sei mesi (enfaticamente il primo di maggio) con una dote di 1,5 miliardi (quasi tutta europea) e un bacino potenziale di 900 mila giovani (parola del ministro Poletti) tra i 15 e i 29 anni ci si aspettava ben altro.
 
Ma la beffa non finisce qui. Perché l’ADAPT, l’associazione di studi e ricerche sul lavoro, ha messo a confronto «Youth Guarantee» con il bonus Letta-Giovannini, nato con la legge n. 78 del 2013 e valido ancora fino al 30 giugno del 2015 con l’obiettivo di dare incentivi alle imprese che assumevano giovani. Mostrando un quadro impietoso. Mentre il primo, infatti, garantisce sgravi medi di 3 mila euro per ciascuna azienda che dà un posto a un ragazzo, la seconda arriva a superare gli 11 mila euro. E visto che i due bonus non sono cumulabili sorge una domanda spontanea: perché un’impresa dovrebbe scegliere la strada, per giunta tortuosa, di Garanzia Giovani? Mistero.
 
Senza considerare che i risultati della stessa Letta-Giovannini, nonostante i ricchi incentivi, hanno deluso le attese. Il Governo aveva previsto l’assunzione di 100 mila giovani ma a distanza di un anno i risultati parlano di circa 23 mila persone impiegate. Insomma non tutto si risolve con i soldi. «Il sistema di politiche attive italiano spiega il ricercatore di ADAPT Francesco Seghezzi in diverse regioni di Italia si appoggia ai soli Centri pubblici per l’impiego e non riesce a far incontrare domanda e offerta di lavoro. Per questa ragione alle imprese non basta un incentivo per decidere di assumere, devono sapere anche che non entreranno in un lungo processo burocratico che non le porterà a trovare la risorsa di cui hanno bisogno».
 
Come se ne esce? «Fondamentale può essere il ruolo delle Agenzie per il lavoro private che possono svolgere una funzione centrale anche nell’individuazione delle competenze dei giovani che prendono in carico e nell’obiettivo di farle combaciare con le esigenze delle aziende, magari sviluppandole e trovando i corsi di formazione adatti». A parte qualche raro esempio di Regione virtuosa, si veda la Lombardia e il Piemonte, però l’incontro domanda/offerta non sta andando nel verso auspicato. Tanto per dire: le prime 5 proposte pubblicate ieri sul sito erano le seguenti: operatore di catene di montaggio automatizzate, cameriere, portiere di notte, tecnico di programmazione macchine e personale di segreteria. Non a caso l’ADAPT ha certificato che i profili ricercati sono per il 90% medio-bassi anche se sono tantissimi i laureati che vorrebbero usare il portale per trovare il primo impiego. Mentre una verifica sulle tipologie contrattuali proposte evidenzia la differenza tra i tempi determinati (75%) e l’apprendistato (poco più dell’1%) che doveva rappresentare il cuore del programma UE.
 
Certo, il tempo non è scaduto e la possibilità di rimediare ci sarebbe pure, ma se il Ministro Poletti, spalleggiato dal Commissario per l’occupazione, Laszlo Andor, continua a dire che il sistema funziona e che se gli iscritti fossero stati 500 e non 250 mila sarebbe stato «difficile gestirli», allora si fa fatica pensare che possa cambiare qualcosa.
 
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Sul lavoro Matteo è peggio di Letta
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