Strategie per una nuova semantica sindacale

È di estrema attualità in queste settimane il dibattito pubblico sullo stato dell’economia del nostro Paese e sulle varie ricette e soluzioni che dovrebbero applicarsi, per il superamento di questo stato di crisi, con diversi gradi di intensità (anche) al mondo del lavoro.
Da parte sindacale, il sostegno a questa o quella soluzione avviene in molti casi in una logica di mero scambio politico, magari per trovare in questo campo una nuova visibilità, per poter giocare nuove partite, anche, forse, come luogo sostitutivo di quello più canonico dei luoghi di lavoro, essendo diventato sempre più complesso per il sindacato un diffuso e stabile rapporto con i lavoratori (e gli iscritti) nei luoghi di lavoro.
 
Questa crisi, nell’accezione più vera del significato terminologico di momento di riflessione, discernimento, sta accelerando molti cambiamenti e la sua gestione sta mettendo in luce ciò che per molto tempo è rimasto sopito e che si evidenzia, appunto, nelle posizioni e nelle scelte che i vari attori sociali stanno compiendo; specialmente per il sindacato questo è un autentico banco di prova per la sua propensione al dinamismo, per la capacità di rappresentanza, per la sua capacità e rapidità di analisi e di adattamento rispetto alle nuove istanze sociali e del lavoro, per la sua capacità di pensare fuori dagli schemi.
 
Come non vedere i profondi mutamenti delle imprese e del lavoro? Come non vedere le crescenti diversità nelle modalità con cui si realizza il lavoro e con cui si esplicano i rapporti di lavoro?
La tentazione, specialmente in momenti di forti cambiamenti, è certamente quella di ricercare soluzioni alle incertezze che questi inducono in rigide certezze legislative (solo nella sola seconda metà degli anni 90 sono state varate 2600 leggi in Italia. Non si producono beni e servizi ma carta e regole). Sembra, cioè, che si possa porre un argine al vento che soffia con impeto innalzando solidi muri: come non si può trattenere l’acqua nel palmo di una mano così il proliferare di leggi e rigide regole non può arginare i mutamenti.
 
Così accade per il sindacato che sperimenta crescenti difficoltà a rappresentare le persone nel mutato contesto lavorativo (si pensi solo alla diverse tipologie contrattuali che una persona oggi conosce nella sua vita lavorativa, ma anche alla quantità di diverse forme contrattuali con cui le persone lavorano presso una stessa impresa; in questo senso si dovrebbe anche riflettere sul significato stesso e sulla attualità di rappresentanza per categoria): per mitigare ciò, facile diventa rivolgersi a soluzioni normative che, seppure con diversi gradi di intensità, avrebbero lo scopo di consolidare e rafforzare per altra via ciò che si fatica ad interpretare e rappresentare solo attraverso il rapporto con le persone del lavoro.
 
Cambia il mondo del lavoro: come cambia (se cambia) il sindacato? In che modo dovrebbe o potrebbe cambiare? Con quali strumenti?
Pensare che la soluzione risieda solo nella definizione di buone regole non solo è riduttivo, ma anche fuorviante, sebbene sia ciò intorno cui sta ruotando buona parte del nostro confronto politico-sindacale. E’ il caso del dibattito sull’opportunità o meno della introduzione di una legge sulla rappresentanza sindacale: per imprese in crisi, a maggior ragione, serve stabilità nelle relazioni industriali ed esigibilità e certezza degli accordi stipulati tra le parti.
 
Per realizzare ciò c’è chi sostiene, come sta facendo la FIOM, che serva una legge che regolamenti la rappresentanza, che dia tutela legale alla rappresentanza. In questa visione centralista e dirigista è lo Stato che stabilisce chi può rappresentare la generalità dei lavoratori e come, magari in cambio di una non opposizione ad un intervento legislativo ancor più invasivo su come si regola il rapporto di lavoro (vedi ad esempio la questione del contratto unico o l’ennesimo dibattito sulla “modernità” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori), sempre però cercando legittimità e legittimazione da parte di un soggetto terzo che uniforma tutto in sé.
D’altro canto, un sindacato come la CISL, che conserva nel suo DNA una spiccata attitudine all’autonomia, ricerca un migliore adattamento della rappresentanza sindacale in norme pattuite piuttosto che in soluzioni legislative per realizzare anche quei criteri di stabilità ed esigibilità.
 
Da qui la forte spinta, per quanto attiene al tema della rappresentanza, alla firma del Testo Unico siglato con Confindustria, CGIL e UIL lo scorso 10 gennaio. Questo Testo Unico si vuole porre come autentico momento di autonoma autodeterminazione delle parti, dimostrando volontà e capacità di saper regolare le materie che propriamente attengono alle specificità della loro azione nel mondo del lavoro.
Certo, nel voler (e saper) trovare accordi ed equilibri che rendano vano il rigido intervento legislativo in materia si rischia di realizzare incongruenze; con il Testo Unico si evita probabilmente un nefasto intervento legislativo, ma si accetta (ed è certamente un compromesso che la CISL ha accettato in nome di una forma, anche blanda, di unità d’azione sindacale con CGIL e UIL) di realizzare una forma di rappresentanza generale dei lavoratori che, di fatto, nega quel tratto più distintamente associativo caro all’identità CISL.  Nel cercare di evitare un intervento legislativo si realizza, quindi, un analogo strumento di rappresentanza a carattere generale.
 
È pur vero che il dato associativo risulta esaltato nella attribuzione di rappresentatività del sindacato, ma è altrettanto vero che si perpetua un formidabile doppio inganno sulla natura della rappresentanza dei lavoratori che da sempre convive con accordi e regolamenti. Il primo, che questa sia “per natura” unitaria; il secondo che il mandato alla rappresentanza discenda dal suffragio universale. Il secondo punto genera in realtà il primo: è l’appartenenza all’associazione sindacale che determina il mandato alla rappresentanza (senza appartenenza alla lista di un’organizzazione sindacale non ci possono neanche essere candidati RSU).
Come pretendere quindi una unitarietà di rappresentanza ancora oggi quando le stesse Organizzazioni Sindacali che possono consentire la rappresentanza sono così lontane dall’unità anche di intenti da regolare, spesso, le proprie controversie addirittura in tribunale? Non si tratta solo di incomprensioni, ma di profonde diversità di modello di azione sindacale, non sanabili previo accordo sindacale.
 
Questa è una delle tante testimonianze di come, però, nella spesso non consapevole e crescente distanza dal mondo del lavoro e dalle persone che vi prestano la propria opera, la soluzione venga ricercata nella definizione (a volte anche minuziosa) di norme che siano queste leggi o protocolli, come se questo potesse sostituire o curare la carenza di una visione, di un’identità o come se la norma, la legge, avesse un potere taumaturgico per cui il suo stesso esistere diventa soluzione dei problemi a dispetto delle persone, dei veri soggetti dell’azione sindacale in questo caso.
Ciò di cui abbiamo bisogno come sindacato oggi (e specialmente un sindacato partecipativo come la CISL) è di avere la capacità e la forza di radicare la nostra azione prima che in regole e ricette, nell’identificazione dei nostri valori di riferimento che non possono non partire dalla natura intrinsecamente associativa del fatto sindacale.
 
Discorso analogo a quello sulla rappresentanza, infatti, si può fare in campo economico dove, nell’ansia di fornire soluzioni, spingiamo contemporaneamente con piglio autenticamente keynesiano ai consumi (che magari contribuiranno allo sviluppo di economie diverse dalla nostra, visto il tracollo della nostra produzione industriale) e ad un comportamento ecologista e di “sviluppo sostenibile” e di attenzione al risparmio delle risorse: due comportamenti che, insieme, proprio non reggono.
A partire da questo sarebbe possibile, con lucidità, sviluppare una proposta di azione sindacale coerente, radicata anche in una profonda e articolata elaborazione culturale. Senza di questo, inesorabile è la deriva verso una rappresentanza istituzionalizzata e “statizzata” dove il sindacato rinunciando a farsi interprete della realtà e a farsi rappresentante dei lavoratori, si trasforma in un funzionario dello Stato che in nome di una tutela legale garantita si fa rappresentante indistinto.
 
È invece la “democrazia associativa” che determina il potere della rappresentanza e, cioè, la rappresentatività del sindacato che contratta, più della verifica elettorale presupposta dal modello di rappresentanza basato sulla teoria della “collettivizzazione” del fenomeno sindacale che naturalmente conduce ad una sua “entificazione” e “parastatalizzazione” (come accaduto nel settore pubblico).
È la prima regola di ogni esperienza almeno comunicativa individuare il proprio target di riferimento.
Oggi abbiamo un bisogno vitale non di regole, che quelle vengono poi dopo di conseguenza, ma di ritarare i nostri valori, tracciare i connotati della nostra identità, ascoltare e capire la voce di chi, con questo modello, possiamo rappresentare.
 
Alle persone del lavoro possiamo parlare con la loro lingua (e parlare con un linguaggio nuovo) solo se sappiamo, in primo luogo, chi siamo e se siamo stati capaci di sviluppare una vera e nuova linea di azione sindacale frutto di una attenta elaborazione culturale, economica, sociale, politica.
Non possiamo più permetterci di vivere di rendita, né gli slogan ci portano lontano. Come nei suoi primi passi, quando la CISL di Pastore promosse un Centro Studi arruolando giovani brillanti che lì svolgessero ricerca nei campi dell’economia, del diritto, della politica, della sociologia, anche oggi abbiamo bisogno di essere promotori di una nuova elaborazione di cultura sindacale su quelle basi.
Ricerca oltre che formazione e radici in valori condivisi devono essere le basi per noi per parlare la nuova lingua delle persone del lavoro di oggi, le nostre nuove lenti con cui saper guardare ed interpretare da protagonisti il mondo del lavoro dinamico e sempre nuovo.
 
Sabina Tagliavini
Segretario FIM CISL Roma e Lazio
 
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