Start up e PhD: l’impresa della ricerca

La ricerca si fa impresa: segnali positivi sul fronte della valorizzazione del capitale umano qualificato. Alcune disposizioni recenti stanno incentivando l’assunzione di risorse umane ad alta competenze nelle imprese che fanno innovazione, in particolare start up. Gli incentivi fanno parte di un pacchetto previsto dal decreto legge 83/2013 e reso applicativo dal decreto del Ministero dell’economia (DM 13 ottobre 2013) pubblicato il 21 gennaio in Gazzetta Ufficiale.
 
La norma premia i datori di lavoro che assumono dottori di ricerca o laureati magistrali in discipline tecnico-scientifiche che sono impegnati in attività di ricerca e sviluppo. L’assunzione dovrà essere a tempo indeterminato e vale anche nei casi di trasformazione di contratti a tempo determinato per un periodo non superiore a dodici mesi dalla data dell’assunzione. In concreto si tratta del riconoscimento di un incentivo all’assunzione che ha la forma di un credito di imposta che consiste, per un massimo di 12 mesi, nell’abbattimento del 35% del costo aziendale dei neo-assunti.
 
Il problema è che per adesso l’incentivazione resta soltanto sulla carta perché non è ancora operativa la procedura telematica prevista dal decreto. Secondo la norma la procedura sarà gestita mediante piattaforma informatica che sarà il luogo virtuale in cui le imprese potranno procedere alla presentazione delle domande. Si attende dunque un decreto direttoriale che in tempi brevi possa regolare in concreto gli iter burocratici per le imprese. Va rilevato in proposito un particolare favore per le imprese delle zone colpite dal terremoto del 20 e 29 maggio 2012 (Emilia Romagna) che possono accedere provvisoriamente agli incentivi in regime de minimis, dunque semplificato, a meno che non vogliano far valere le proprie prerogative per concorrere alla misura generale dell’incentivo.
 
Ma l’aspetto più rilevante della norma è la promozione delle start up innovative. A loro è data una vera e propria priorità rispetto alle imprese più “longeve”. Il concetto di “start up innovativa” è stato introdotto in Italia con il Decreto “Sviluppo 2.0” (n. 179 del 2012) che aveva l’obiettivo di favorire l’occupabilità del capitale umano qualificato in parallelo alla diffusione di nuova imprenditorialità e di sviluppo tecnologico. Nella pratica le start up innovative sono imprese costituite da non oltre 48 mesi che hanno come oggetto sociale esclusivo o prevalente lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto valore tecnologico.
 
La vocazione tecnologica delle start up innovative, lungi dall’essere dichiarata soltanto formalmente, va misurata sulle spese in ricerca. Esse devono ammontare almeno al 20% del maggiore valore fra costo e valore totale della produzione. Dovranno inoltre impiegare come dipendenti o collaboratori a qualsiasi titolo, anche in apprendistato, almeno un terzo della forza lavoro composta da dottori di ricerca e, importante, anche dottorandi di ricerca ancora in corso.
Rispetto alle imprese comuni le start up innovative, oltre a procedure di assunzione semplificate, hanno la possibilità di assumere con un particolare contratto a termine. Come già previsto dal d. l. n. 179/2012 nel periodo massimo di 4 anni dalla nascita dell’impresa sarà infatti possibile stipulare contratti a termine acausali (di durata minima di 6 mesi, massima 36 mesi). Si potrà usufruire di questo beneficio a condizione che il contratto sia stipulato per lo svolgimento di attività legate all’oggetto sociale della start up innovativa. È previsto per di più un riconoscimento della parte variabile del trattamento retributivo degli assunti che sia collegato all’efficienza o alla redditività dell’impresa e valorizzi la produttività del lavoratore.
 
Le deroghe alla normativa giuslavoristica, gli incentivi con credito di imposta e la previsione di una quota obbligatoria di PhD avviano in Italia una fase nuova per la cultura industriale. Una fase di “cultura dell’innovazione” che promuove la ricerca anche nelle imprese neo-nate e che guarda alle best practice internazionali, in particolare quelle di Francia, Israele e Stati Uniti. Ciascuno di questi paesi è un modello per qualcosa: la Francia per la modernizzazione del diritto societario grazie alle SAS (société par actions simplifiée); Israele per la capacità di attrarre investimenti stranieri con leggi come la Law for the Encouragement of Industrial R&D; gli Stati Uniti per il forte approccio all’imprenditorialità attiva insegnato all’università: si è calcolato ad esempio che solo gli ex alunni di Stanford hanno creato con le loro imprese circa 5,4 milioni di posti di lavoro.
 
L’Italia è ancora indietro, ma le norme in commento danno comunque una prima risposta, per quanto limitata, al fermento che proviene da giovani e università orientate all’impresa. Ad oggi le start up innovative registrate nell’apposito registro della Camera di Commercio sono 1.394, Esse sono uno sbocco lavorativo significativo per i PhD e i dottorandi che si avviano alla carriera da ricercatore industriale e non a quella accademica. Ma per adesso si tratta ancora di un fenomeno limitato sia per l’elevato tasso di mortalità delle start up (quasi il 90%), sia perché i settori produttivi sono ancora troppo legati al digitale e sono rarissime (meno del 2%) le start up manifatturiere.
 
L’impressione diffusa è che nel nostro Paese manchi un ambiente che permetta il passaggio della start up alla fase adulta. Come per i bambini, che non possono restare tutta la vita nella culla, così le start up hanno bisogno di essere accompagnate in un progressivo cammino verso l’autofunzionamento e l’indipendenza. Manca in particolare un’adeguata formazione all’imprenditorialità e una legislazione più semplice. Siamo ancora distanti da realtà come Tel Aviv e come la celebre Silicon Valley, caratterizzate dalla presenza di tanti finanziamenti e di poche leggi (ma precise). Realtà pro-attive in cui ci sono università che invogliano finanche i PhD a far impresa.
 
Eppure anche in Italia qualcosa si muove, sia da parte delle università, sia da parte delle imprese “senior”. Atenei come il Politecnico di Torino, Bari, Padova e tanti altri hanno già costituito i loro incubatori d’impresa: iniziative apprezzabili, ma bisognerà valutare nel medio-lungo periodo se riusciranno a creare condizioni stabili per imprese efficienti e produttive. L’onda delle start up permetterebbe inoltre di sviluppare il grande potenziale dei dottorati industriali, finora al palo a causa di una normativa troppo rigida, affinché diventino il canale formativo terziario più orientato alla ricerca industriale e all’imprenditorialità. Aumenta poi la responsabilità delle imprese “senior” nell’accompagnamento delle start up: un esempio è il progetto Adottup, dove alcune PMI adulte si candidano ad “adottare”, diventando loro stesse incubatori, giovani idee d’impresa. Una relazione tra “generazioni” che si è mostrata finora efficace per ridurre la fisiologica mortalità delle start up.
 
Alfonso Balsamo
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Alfonso_Balsamo
 
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Start up e PhD: l’impresa della ricerca
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