Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Salvate il soldato Mastrapasqua

Ebbene sì, lo confesso. Credo di essere stato l’unico ad aver preso le difese di Antonio Mastrapasqua. Pur conoscendoci  da una dozzina di anni non eravamo particolarmente amici, anche nei momenti in cui lui era “folgorante in soglio”. Anzi, in passato tra di noi ci furono parecchie occasioni di scontro, quando io ero presidente del Collegio dei sindaci dell’Inps e lui un potente consigliere di amministrazione che, in pratica, aveva egemonizzato l’organo, spesso in contrasto con il presidente Gian Paolo Sassi. Poi i rapporti si erano normalizzati quando io ero stato eletto alla Camera e lui nominato al vertice dell’Istituto previdenziale.
 
Chi fosse Mastrapasqua era noto: manager di indubbia capacità, ben introdotto nel mondo dell’economia pubblica, soprattutto romana, capace di navigare al vento della politica. Ricordo che entrò nel CdA dell’Inps, all’inizio degli anni 2000 come punto di riferimento del gruppo di consiglieri di Forza Italia, ma che, con la vittoria di Romano Prodi nel 2006, non esitò ad avvicinarsi alla Margherita. Si sa, la politica non è un pranzo di nozze. Poi, nel 2008, passò dal CdA alla presidenza, con nomina da parte del governo Berlusconi. Eppure Mastrapasqua fu il solo ad ottenere nelle Commissioni lavoro di Camera e Senato il parere di competenza con voto favorevole anche da parte del Pd, allora all’opposizione. Ma non è finita, perché nel 2011, l’esecutivo dei tecnici, pensò bene di affidargli la gestione iniziale e fondativa del Super Inps con una norma del decreto Salva Italia.
 
Che avesse molti incarichi era cosa arcinota. A volte la questione emergeva come un fiume carsico poi tornava ad immergersi nel silenzio. Grande propagandista di sé stesso era riuscito a far credere, ai media ossequienti, che fossero merito suo gli avanzi importanti dell’Inps di quegli anni, quando è sufficiente conoscere un po’ le cose per capire che ogni euro che entra o che esce dall’Istituto lo fa sulla base di una norma di legge avendo sempre  sullo sfondo il quadro macroeconomico del Paese. È giusto però riconoscergli di aver reso più efficiente l’Istituto, tagliato alcuni rami secchi, innovato l’assetto informatico, disboscato alcune clientele storiche e soprattutto dimezzato le direzioni centrali (riducendole da 43 a 27).
 
Quando è iniziato il declino di questo signore tanto potente? Nel momento in cui, come novello Icaro,  si è messo a volare troppo vicino al sole si è scoperto che le sue erano  ali  fatte di cera. A Mastrapasqua, il kombinat sinistra-sindacati non gli ha perdonato di essere finito, per ben tre anni, al vertice del Super Inps (dopo aver già svolto un mandato pieno nell’Istituto di via Ciro il Grande), sulla carta il più grande ente previdenziale d’Europa, probabilmente tra i più grandi del mondo.
 
Ricordo di essere stato, da deputato nella XVI Legislatura, il primo a porre, con un ordine del giorno  nel contesto dell’approvazione del decreto Salva Italia, la questione di una più adeguata governance del Super Inps per il peso, politico ed organizzativo,  che il nuovo Istituto avrebbe assunto da molti punti di vista. Per la cronaca rammento pure che l’odg venne sottoscritto anche da alcuni colleghi del Pd, mentre quei deputati del mio partito di allora (il Pdl) che l’avevano presentato insieme a me, furono indotti (da chi?) a ritirare precipitosamente la firma. Ovviamente nessuno si azzardò a chiedere a me di ritirare l’odg che, per altro, venne accolto dal governo.
 
Della norma del decreto mi aveva colpito il carattere praticamente ad personam, in quanto il presidente in carica dell’Inps (mancava solo che vi fossero scritti nome e cognome) veniva “blindato” fino al 2014. Ricordo sempre che nell’odg facevo riferimento ad esigenze di collegialità e di riconoscimento del ruolo delle parti sociali.
 
Confesso, tuttavia, di aver trovato esagerati, nei mesi successivi, i toni del dibattito, in Aula alla Camera, sulla mozione sulla governance dell’Inps, tanto da aver sentito l’esigenza di far notare che in Via Ciro il Grande non c’era un “uomo solo al comando”, ma  continuava a coesistere un equilibrio tra organi: un Presidente, un Direttore generale, un Collegio dei Sindaci, un Consiglio di indirizzo e vigilanza in cui sedevano (e siedono)  le parti sociali, con la presenza a tempo pieno di un magistrato della Corte dei Conti.  Allo stesso modo non ho mai ben compreso perché si ponesse e con tanta insistenza (c’è stato un periodo in cui il problema della governance veniva sollevato continuamente, in Aula e in Commissione, al ministro in carica) con riferimento all’Inps, dimenticando che le medesime condizioni esistevano anche all’Inail, divenuto un grande polo della sicurezza.
 
Anche il Governo Monti si impegnò a presentare delle proposte, tanto che il ministro Elsa Fornero istituì una Commissione con l’obiettivo di formulare un nuovo disegno di governance, che trovò spazio in una corposa relazione. Il nodo politico era e rimane il ripristino o meno del consiglio di amministrazione, un organo previsto dalla riforma del 1994, poi soppresso dal governo Berlusconi, con l’attribuzione dei relativi poteri in capo al presidente.
 
Sembra assodato, oggi, che la nuova governance non deluderà quanti rivendicano il superamento della gestione monocratica. Credo, però, che occorrerebbe partire da una valutazione delle esperienze compiute dal 1994 ad oggi (sono circa 20 anni) e da un bilancio del modello duale, che tutti sembrano intenzionati a riconfermare. Avendo trascorso, come ricordato, molti anni all’interno degli organi istituzionali dei maggiori enti previdenziali mi sono fatto l’idea che il vero limite del dualismo non sia quello dei poteri effettivi da conferire al Civ  soprattutto per quanto riguarda l’applicazione delle sue direttive. Il più delle volte sorge un problema di applicabilità ovvero della concreta possibilità dell’amministrazione di dare corso alle indicazioni dell’organo di vigilanza: il che determina che divenga normale il fatto che esse rimangano mere petizioni di principio, in un contesto complessivo (si vedano i rapporti tra Governo e Parlamento) in cui prevalgono nettamente le istanze esecutive.
 
Arrivo, quindi, alla conclusione che, se si devono dare maggiori poteri alle parti sociali, si deve investire le loro rappresentanze di una diretta responsabilità amministrativa, all’interno di quella gestione collegiale, che sembra prefigurarsi alla fine del regime transitorio del commissariamento, dopo le dimissioni di Antonio Mastrapasqua.
 
Per quanto riguarda le gestione monocratica essa ha evidenziato spesso un limite: quello di coinvolgere, nei fatti, il collegio sindacale nelle decisioni, quasi alla stregua di un consiglio di amministrazione. È prassi, infatti, dei presidenti deliberare in riunione con il collegi dei sindaci e il magistrato della Corte dei Conti.
 
Sulla questione della governance degli enti previdenziali c’è un altro aspetto, a mio avviso, colpevolmente ignorato: quello relativo alle Casse “privatizzate”. Sin da adesso sarebbero necessari processi di accorpamento fra le Casse per traguardare una maggiore efficienza gestionale attraverso economie di scala e di scopo con accordi di tipo cooperativo che prevedano l’utilizzo congiunto di strutture e di attività di servizio. È noto, poi, che il decreto Salva Italia ha chiesto alle Casse di elaborare piani di sostenibilità nella prospettiva dei prossimi 50 anni, senza includere, fatto salvo l’aspetto del rendimento reale, il valore del patrimonio. Non è stata una imposizione vessatoria ma una richiesta (a fronte di un debito latente stimato in 100 miliardi) posta a salvaguardia delle future generazioni di liberi professionisti.
 
Le stime precedenti riguardavano un arco temporale troppo breve, non tenevano adeguatamente conto delle trasformazioni intervenute nei singoli mercati del lavoro, ma immaginavano un futuro sempre uguale al passato (nonostante i pesanti effetti della crisi finanziaria sulla consistenza  patrimoniale);  non prevedevano forme di solidarietà oltre i confini di ciascun ordine o albo professionale. L’istituzione di una “Super Cassa” delle professioni consentirebbe, invece, di compiere quell’operazione che è a base e a garanzia del sistema Inps e dei modelli di previdenza obbligatoria: il bilancio unitario ovvero uno strumento finanziario che consente, a seconda delle condizioni determinatesi nei diversi mercati del lavoro, di trasferire risorse eccedenti in una particolare gestione ad altre in difficoltà, in un contesto tendenzialmente di regole comuni. Non si vede, infatti, perché un’impostazione solidaristica che, nell’Inps, tiene insieme, pur nella diversità, artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti, dirigenti e collaboratori, non possa valere anche per gli avvocati, gli ingegneri e i medici.
 
Si potrebbe almeno cominciare, accorpando, nella Cassa già ora “intercategoriale”, quelle istituite ai sensi del d.lgs. n. 103/1996 per le quali sono disposte le medesime regole di calcolo contributivo. Ma queste problematiche ci saranno nella riforma della governance degli enti previdenziali oppure si sarà soltanto colta l’occasione per portare a compimento un’operazione di potere?
 
Comunque, con le sue dimissioni Antonio Mastrapasqua ha dimostrato di essere più serio di quanti hanno scoperto con decenni di ritardo l’esistenza di un vuoto legislativo improvvisamente divenuto “incolmabile”. Oggi sappiamo che non solo il diritto di fare politica, ma anche di amministrare la cosa pubblica è nelle mani dei nostri ayatollah: le procure e i circuiti mediatici ad esse collegati.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT
 
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