Politically(in)correct – Sergio Marchionne: la quercia caduta

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“Dov’era l’ombra, or sé la quercia spande
morta, né più coi turbini tenzona.
La gente dice: Or vedo: era pur grande!”

 

L’improvvisa uscita di scena di Sergio Marchionne, costretto ad affrontare, a soli 61 anni, una sfida decisiva (tra le tante con cui si è misurato) con una grave malattia, mi ha ricordato i versi che Giovanni Pascoli dedicò ad una quercia caduta e allo stupore della gente nel osservarne quelle caratteristiche a cui non aveva mai fatto caso né dato importanza in precedenza, quando l’albero “tenzonava” con il vento e le tempeste.

 

In queste ore, le istituzioni e i media gli riconoscono “in articulo mortis” (ci auguriamo ovviamente che tale evento non abbia a verificarsi se non tra molti anni, anche se il tono delle cronache dei tg sembra darlo già per avvenuto) quei meriti che a lungo hanno prima negato, poi ignorato quando il manager “cittadino del mondo” era ancora “folgorante in soglio”. I commenti “politicamente corretti” di queste ore si limitano a ricordare che Marchionne ebbe dei problemi, sia con i sindacati che con la Confindustria. Ci è voluto un bravo sindacalista come Marco Bentivogli a denunciare questa narrazione omertosa delle “difficoltà” incontrate da Marchionne e a rivendicare su Il Sole 24ore, di aver concorso con lui a sfidare “l’Italietta delle rendite e dei ricatti”. Quanti sono coloro che – se avessero un briciolo di onestà intellettuale – dovrebbero scusarsi con Sergio Marchionne?

 

Nel 2010 (solo 8 anni or sono), ai tempi del “tormentone” di Pomigliano, quando alla Fiat veniva imputato di ferire a morte i diritti sacrosanti dei lavoratori, la grande maggioranza dei giuslavoristi (in sintonia con il “culturame” di ogni vocazione) non esitò a schierarsi con la Fiom la quale accusava il Lingotto di voler imporre un metodo di relazioni industriali ottocentesco. Quelle stesse forze politiche e sindacali convinte che, tutto sommato, l’accordo dovesse essere firmato (soprattutto dopo l’esito favorevole del referendum tra i lavoratori), lo facevano in nome di una sorta di stato di necessità. Come ricordò Pietro Ichino, persino Pier Luigi Bersani ed Enrico Letta, allora, rispettivamente, segretario e vice segretario del Pd, sostennero che quell’intesa andava sottoscritta in una logica di “male minore”; ma doveva essere il primo e l’ultimo dei contratti di quel tipo (il leader della Cisl Raffaele Bonanni, invece, si è vantato giustamente in un suo saggio di gridare nei comizi “uno, cento, mille Pomigliano”.

 

Proprio così: quell’accordo che difendeva l’occupazione e creava sviluppo in un’area critica del Paese era sommerso da accuse feroci soltanto perché la Fiat si permetteva di spostare la pausa-caffè, di contrastare l’assenteismo anomalo e di riorganizzare i turni per una migliore saturazione degli impianti. Nel referendum che seguì (ed approvò) l’accordo sulla produttività, tutti i talk show televisivi e i loro conduttori tifavano per Maurizio Landini e soci, mentre i lavoratori favorevoli erano presentati con un compassionevole disprezzo, come se la loro scelta fosse condizionata dal solito vizio italiano del “tengo famiglia”.

 

Sergio Marchionne confermò la posizione, ribadendo che non voleva essere costretto ad abbandonare il Paese e che il Piano Fabbrica Italia, con gli investimenti previsti e i nuovi modelli prodotti (si veda, a conferma, il boom delle vendite della Jeep fabbricata nello stabilimento di Cassino), avrebbe messo il gruppo nelle condizioni di competere sul mercato globale dove i produttori di auto, nei prossimi anni, si sarebbero potuti contare sulle dita di una mano.

 

Marchionne (insieme con i sindacati riformisti) riuscì a “passare” in tutti gli stabilimenti; poi a realizzare, sulla base di quegli accordi, una sorta di contratto dell’auto, tarato sulle esigenze del suo gruppo. Ma fu costretto ad uscire dalla Confindustria (un altro soggetto che oggi dovrebbe chiedere scusa), quando si accorse che l’associazione di viale dell’Astronomia gli voltava le spalle e sceglieva, invece, il dialogo tormentato e inconcludente con la Cgil. Il ministro Maurizio Sacconi aveva fatto approvare dal Parlamento una norma – l’articolo 8 del decreto 138/2011 – che poteva risolvere il problema degli accordi Fiat, superando i limiti del protocollo del 28 giugno 2011 (sottoscritto anche dalla Cgil), il quale ammetteva, a certe condizioni, il ricorso alle deroghe contrattuali, ma escludeva dalla sua applicazione, perché sottoscritti in precedenza, proprio gli accordi di Pomigliano e Mirafiori (lasciandoli quindi in balia dei ricorsi giudiziari promossi dalla Fiom in diversi tribunali sparsi nella Penisola). La Confindustria di Emma Marcegaglia, nel settembre di quello stesso anno, si rassegnò ad un accordo con le confederazioni sindacali in cui si impegnava a non applicare, attraverso intese a livello decentrato, quella norma di carattere derogatorio rispetto ai contratti nazionali e alle disposizioni di legge.

 

Eppure la dissociazione della Fiat dalla Federmeccanica e dalla Confindustria produsse una mutazione genetica della natura stessa dell’organizzazione di Viale dell’Astronomia dove adesso le grandi imprese leader sono in prevalenza quelle partecipate dallo Stato. Prima che la Fiat andasse per la sua strada, un giornalista americano mi chiese quale significato avrebbe avuto quell’evento. Io gli risposi che sarebbe stato come se la California fosse uscita dall’Unione. Eppure, l’impostazione innovativa di quell’articolo (che riconosceva alle parti sociali la possibilità di rompere uno delle più solide ingessature dell’ordinamento giuridico italiano: l’inderogabilità in pejus delle norme di legge e dei contratti nazionali) avrebbe potuto aprire una stagione diversa nel campo delle relazioni industriali promuovendo quella contrattazione di prossimità che tutti gli osservatori indicano come la nuova frontiera della flessibilità produttiva e del lavoro. Allo stesso modo, la linea di politica industriale portata avanti da Marchionne non sarebbe stata possibile senza quella radicale trasformazione degli schemi contrattuali che hanno portato Fca ad avere una contrattazione collettiva autonoma, fuori dal contratto nazionale dei metalmeccanici, realizzando così il duplice obiettivo di un assetto – insieme – di prossimità, nel territorio, ed uniforme sul piano nazionale.

 

Avrebbe potuto fare di più il manager della Fiat-Fca? Certamente. Ma a lui interessava sistemare l’assetto delle relazioni industriali negli stabilimenti italiani di un gruppo sempre più multinazionale. Tutto sommato, conservava un occhio di riguardo e di affetto per il proprio Paese, purchè l’azienda fosse messa in condizione di produrre in modo competitivo. Il limite della svolta di Sergio Marchionne nell’ambito delle relazioni industriali sta proprio qui: aver pensato al gruppo in una visione mondiale, inclusiva degli stabilimenti siti da noi, e non la Sistema Italia. Sappiamo tutti che altri importanti complessi produttivi hanno seguito, sul piano della contrattazione, l’esempio di Fca. Su quelle esperienze è in vigore una sorta di embargo mediatico: lo stesso che si applicò agli stabilimenti Fca dopo la ristrutturazione. Una personalità come Marchionne sarebbe stata in grado di promuovere una diversa struttura della contrattazione, estendendo il modello con cui aveva riportato sugli scudi gli stabilimenti italiani. Ma forse aveva altri pensieri, doveva portare a compimento altri obiettivi, in un contesto globale in grande, accelerata ed imprevedibile trasformazione. Che in Italia, allora, le parti sociali continuassero pure a “rammendare le solite vecchie calze”. Lui ci aveva provato, a cambiare; ma il gioco non valeva la candela. Non c’è peggior sodo di chi si rifiuta di sentire O forse presagiva che gli sarebbe mancato il tempo.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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