Politically (in)correct una rubrica ADAPT sul lavoro – Jobs act Poletti 2.0: la svolta c’è

Tra pochi giorni il Jobs Act Poletti n. 2 sarà legge dello Stato. Il Senato – curato qualche residuo mal di pancia – approverà il disegno di legge nella medesima versione della Camera, nonostante che uno dei personaggi più sopravvalutati d’Italia, Francesco Giavazzi, si sia accorto solo adesso, in un articolo sul Corriere della Sera di ieri, che il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti varrà soltanto per i nuovi assunti e che, quindi, si produrranno sia una nuova demarcazione nel mercato del lavoro sia un ulteriore irrigidimento sulla mobilità, dal momento che il passaggio, anche volontario, da un posto di lavoro ad un altro comporterà un cambiamento del regime del recesso. Questo è sicuramente il limite più serio (e di dubbia legittimità costituzionale) del provvedimento che nessuno, però, ha messo in discussione fino ad ora.
 
Poi, la svolta vera sul piano giuridico – se ci sarà – la vedremo nei decreti delegati, a cominciare – in un ampio quadro di riordino del diritto del lavoro – da quello che regolerà il contratto di nuova istituzione con annesse le tutele in materia di licenziamento. Può essere, allora, che la montagna partorisca di nuovo il topolino, per quanto riguarda l’innovazione normativa e – ancor più – l’interpretazione giurisprudenziale. Ma la vita di una comunità, i suoi valori, l’assetto delle sue relazioni socio-economiche non si misurano soltanto riferendosi a quanto prevede l’ordinamento giuridico. Ecco perché, il dibattito che, in questi mesi, ha accompagnato l’iter legislativo del Jobs Act Poletti 2.0 ha già realizzato un cambiamento profondo (ancorché tardivo).
 
Al di là delle formulazioni troppo generiche ed ambigue, al di là dei risultati che esse produrranno nella decretazione delegata, il Paese si è misurato con uno dei “mostri sacri” del diritto del lavoro: il concetto di job property, in nome del quale la difesa del lavoro coincide con la salvaguardia del posto, costi quel che costi. Più volte abbiamo lamentato che il furore espresso nel dibattito non trovasse alcun riscontro nei testi; che si parlasse di art. 18, di reintegra, di indennità risarcitoria benché a quelle parole non fosse riservato alcun cenno nelle formulazioni che, di volta in volta, venivano redatte dai protagonisti della battaglia parlamentare. In altre circostanze ci siamo chiesti perché le forze contrarie al cambiamento avallassero con le loro critiche, il loro comportamento e le loro proteste, interpretazioni radicali – sostenute dagli avversari favorevoli ad una profonda revisione della materia – le quali, tuttavia, rimanevano nel campo delle intenzioni visto che le norme di delega erano aperte a tutte le soluzioni. Oggi, ad un passo dalla meta, pur consapevoli del cammino che resta ancora da compiere e delle insidie che il Governo incontrerà all’interno della sua maggioranza prima ancora che nei confronti delle opposizioni, siamo pronti a riconoscere che quel dibattito sopra le righe, quelle levate di scudi all’interno del Pd, gli stessi scioperi, generali o parziali che fossero o saranno, hanno rappresentato il vero valore aggiunto del Jobs Act.
 
All’opinione pubblica non interessa capire quando il licenziamento disciplinare ingiustificato potrà essere sanzionato con la reintegra o quando interverrà soltanto l’indennità risarcitoria. Il nodo da sciogliere sta più a monte nella domanda “si deve poter licenziare per assumere”? O in altri termini: “le difficoltà che si incontrano a licenziare scoraggiano i datori ad assumere in maniera stabile”? O, in conclusione: “il posto fisso è finito”, come ha ribadito Matteo Renzi alla Leopolda nelle stesse ore in cui risuonava ancora l’eco della manifestazione della Cgil in Piazza S. Giovanni? È questa la svolta che il Jobs Act è chiamato a compiere, a prescindere da come essa troverà soluzione nelle norme. Il Governo avrà vinto se sarà stato capace di con-vincere. Ed è un bene, pertanto, che i nemici del cambiamento siano scesi in campo al massimo del loro potenziale di iniziativa e di lotta, perché, nelle battaglie che segnano una trasformazione culturale profonda (o che ne ratificano una già intervenuta nei fatti) chi vince, vince, chi perde, perde.
 
A pensarci bene, fu così anche in occasione di un’altra sfida che ebbe lo stesso valore di quella sull’articolo 18: il decreto del 1984 sulla scala mobile. Il Governo Craxi si limitò, per l’anno in corso, a tagliare quattro punti (poi ridotti a tre) di indennità di contingenza. Ma ciò consentì di ragionare, per mesi, sugli effetti perversi dell’inflazione, sul miraggio della rivalutazione salariale derivante dalle indicizzazioni, sulla perdita di potere contrattuale che gli automatismi retributivi avevano determinato e, infine, sugli effetti di stabilizzazione dell’inflazione che venivano prodotti. Furono i semi impiegati in questo dibattito a far germogliare la sconfitta della sinistra conservatrice nel referendum abrogativo dell’anno successivo. Poi per superare completamente il sistema di indicizzazione automatica ci vollero ancora otto anni; ma la battaglia decisiva fu vinta e combattuta, nel 1984, su di un aspetto tutto sommato marginale. Intanto, gli effetti positivi del Jobs Act già si vedono; ed hanno anche un importante rilievo economico. L’esame finale della legge di stabilità è stato rinviato a marzo dalla UE, grazie all’apertura di una linea di credito sulle riforme promesse dal Governo. La revisione della disciplina del licenziamento sta producendo, più o meno, il medesimo effetto che, a suo tempo, venne attribuito alla riforma delle pensioni del ministro Fornero. Al di là dei contenuti – che magari risulteranno, alla fine, più modesti di quanto promesso e di ciò che sarebbe necessario – contano i segnali, sul piano politico e culturale, che un Paese manda di sé.
 
Giuliano Cazzola
Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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