Politically (in)correct – Populismi: a ciascuno il suo

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In Italia non ci facciamo mancare nulla, anche per quanto riguarda la malattia del secolo: il populismo. Ne abbiamo uno di lotta ed uno di governo.

 

Il primo è quello della Lega e del suo leader Matteo Salvini, il quale non esita a gettare la spada di Brenno (pardon, di Alberto da Giussano) sui piatti della bilancia che Silvio Berlusconi cerca di mantenere in un equilibrio presentabile a Bruxelles. Salvini non dissimula nulla, non cerca di attutire i toni, ma fa di tutto per esasperarli, per ingigantire i problemi e semplificare il più possibile le soluzioni. Il programma elettorale del suo partito è intessuto di discorsi da bar (si pensi alla proposta di abolire, insieme con la riforma Fornero, la legge Merlin), di ragionamenti elementari, di notizie sballate e di conti fatti col pallottoliere. Il suo ideale di giustizia è quello delle ruspe, elevate a plotoni d’esecuzione che non sparano pallottole: almeno per ora, sempre che il caso di Macerata non produca effetti imitativi in un brodo di coltura di un odio diffuso ed implacabile, come è quello preso a pretesto per giustificare le menzogne. A Salvini non interessa accreditarsi nel contesto di una società civile; ci tiene a compiacere un elettorato forcaiolo, vestendo al suo stesso modo, solleticandolo nei suoi istinti plebei, senza porsi mai il problema di quanto Hanna Arendt (nel saggio “Le origini del totalitarismo”) giudicava “un errore fondamentale”: “identificare la plebe con il popolo invece di considerarla una sua caricatura’’.

 

Luigi Di Maio va in giro per il mondo vestito come un gagà, allo scopo di presentare il M5S come una “forza tranquilla”, una sorta di Partito rivoluzionario divenuto istituzionale al pari di quello messicano: smorza i toni, affabula coloro che lo ascoltano, entra in punta di piedi nei santuari del potere, che lo accolgono facendo finta di credere alle sue narrazioni ed evitando con cura di sottoporgli delle domande imbarazzanti. Perché non si sa mai: potrebbe diventare presidente del Consiglio. Ma nel programma del Movimento ci sono molti aspetti discutibili e contraddittori. Sul piano macroeconomico, ad esempio, non si comprende come sia possibile diminuire di 40 punti il debito pubblico in un decennio, mentre si gettano alle ortiche il tetto del 3% (quando sarebbe necessario determinare degli avanzi primari di notevoli dimensioni, proprio per ridurre il debito), l’abominevole fiscal compact e si aumenta la spesa attraverso l’istituzione di un reddito di cittadinanza e l’abolizione della riforma delle pensioni del 2011 allo scopo di valorizzare quel pensionamento anticipato di cui, ora e nei prossimi anni, potranno usufruire  – poco più che sessantenni – le generazioni dei baby boomers che sono in grado, per la loro storia e condizione lavorativa, di varcare la soglia della quiescenza grazie ai soli contributi versati a prescindere dall’età anagrafica.

 

Quanto alle politiche del lavoro, il M5S è il solo partito (non ci siamo occupati del pittoresco sinistrume di Potere al popolo e di altre irriducibili formazioni estremiste) che vuole abolire il jobs act e rimettere in sella il fatidico articolo 18. Neppure “Liberi & uguali” chiede una revisione tanto incisiva della disciplina del licenziamento individuale.   «Noi il Jobs Act lo vogliamo abolire – ha dichiarato Di Maio – Crediamo che sotto i 15 dipendenti, non serva l’articolo 18 alle imprese, perché in quel caso sono a conduzione familiare. Per il resto, vogliamo ripristinarlo». Secondo Di Maio, «il disegno del governo Renzi è chiaro, ha fatto il Jobs act per precarizzare ancora di più la vita dei giovani e dei meno giovani, in modo tale da potere dire che aveva dato più posti, ma ha solo fatto in modo che nascessero contratti a 2-3 mesi e poi ti licenziano. Per me la precarietà è un problema – ha aggiunto – perché non ci saranno certezze per mettere su famiglia e quindi otterremo un’economia sempre più depressa e ferma. La stabilità lavorativa serve anche a far crescere l’economia e farla sviluppare».

 

Secondo Di Maio, «bisogna iniziare a parlare di flexsecurity: se una persona viene licenziata, deve essere inserita in un programma di riqualificazione per essere reinserita nel mondo del lavoro. Per noi questo si chiama reddito di cittadinanza: io Stato prendo quel lavoratore e lo formo per le imprese, sgravandole dell’onere di pensare alla formazione». Ecco un chiaro esempio di un intervento contraddittorio: le politiche attive e la flexsecurity sono un’alternativa al concetto di job property (messo parzialmente in discussione dal jobs act) connesso all’articolo 18 e alla reintegra giudiziaria. Quanto ai 2 miliardi che il M5S vuole destinare ai centri per l’impiego, forse sarebbe più opportuno allocarli sulle politiche di occupabilità piuttosto che sulle strutture. Comunque, la sfida “grillina” è insidiosa, da non sottovalutare. Pur senza esprimersi con la grossolanità della Lega, alla fine, parla lo stesso linguaggio. Non è un caso che sulle pensioni le proposte contenute nei due programmi sembrano scritte usando la carta carbone.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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