Politically (in)correct – Le chimere delle pensioni

Quando un Governo si rassegna a riconoscere delle pretese ingiustificate, ad elevarle al rango dei diritti e ad investire su di esse risorse importanti che sarebbero state destinate più opportunamente ad altre finalità, finisce sempre per incoraggiare i soggetti beneficiari dei provvedimenti a richiedere ancora tutele più ampie, nella convinzione di poterla spuntare. Soprattutto allorché si ha a che fare con un disegno di legge di bilancio (per il 2017) che affronta il suo iter tra le insidie della Camera dei deputati, dove si annida la Commissione Lavoro presieduta da Cesare Damiano che è l’inventore di ogni possibile cabala in materia di pensioni. Si sarà capito, infatti, che sto parlando delle misure di cui al Capo IV sedicenti previdenziali (in realtà prettamente assistenziali)  a cui sono destinati ben sette miliardi nel prossimo triennio (1,9 miliardi nel 2017).

 

Gli aspetti che hanno sollevato maggiori dubbi riguardano l’individuazione di una nuova tipologia meritevole di protezione (i c.d. precoci ovvero coloro che hanno iniziato a versare contributi almeno 12 mesi prima di aver compiuto 19 anni) e il varo dell’ottava salvaguardia pro esodati. La Rete che tiene insieme le diverse categorie di salvaguardati (coloro che possono andare in pensione con i requisiti previsti prima della riforma Fornero) effettuerà un presidio l’8 novembre a Roma davanti al MEF per chiedere che l’ottava salvaguardia provveda a tutti i 34mila esodati, che secondo i loro Comitati, sono rimasti ancora esclusi. Il Governo ne ha ‘’messi in sicurezza’’, nel ddl, circa 28mila, ma a quanto pare questi casi continuano ad aumentare di continuo. E’ poi veramente singolare che si debba procedere ad un’ulteriore salvaguardia quando contemporaneamente vengono introdotti altri elementi di flessibilità come l’Ape (di mercato e social).

 

I Comitati respingono sdegnosamente queste alternative, perché a loro avviso non se ne potrebbe avvalere il 70% dei 34mila soggetti in attesa di esodo. Da che cosa potrebbe derivare – mi sono chiesto –  questa impossibilità d’accesso all’Ape? Non certo dalla mancanza dei requisiti contributivi richiesti, perché queste persone hanno un’anzianità di servizio molto più lunga. L’unica spiegazione possibile è che il 70% di loro non abbia ancora maturato il requisito anagrafico di 63 anni, che è diventato il parametro per ritirarsi prima dal lavoro, non solo nel regime Ape, ma persino nelle proposte (per ora archiviate) riguardanti la c.d. flessibilità in uscita. Non è il caso di aggiungere altro. Quanto ai c.d. precoci, ai loro Comitati non è certo piaciuto che la possibilità di andarsene  in quiescenza dopo 41 anni di lavoro, senza sottostare neppure all’aggancio periodico e automatico all’attesa di vita  dipenda dalla sussistenza di taluni requisiti: a) stato di disoccupazione in seguito a cessazione del rapporto di lavoro per licenziamento, anche collettivo, dimissioni per giusta causa, o risoluzione consensuale nell’ambito di procedure di conciliazione prevista dall’articolo 7 della legge 604/1966 (che si attiva in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo).

 

Devono aver terminato l’indennità di disoccupazione da almeno tre mesi. b) Assistenza del coniuge o parente di primo grado convivente con handicap grave da almeno sei mesi. c) Riduzione della capacità lavorativa pari almeno al 74%. d) Essere impiegati in mansioni faticose (sic!) da almeno sei anni in via continuativa.  Per quanto mi riguarda, continuo a pensare che le pensioni non fossero una priorità su cui investire molto di più che in altri settori. Penso, in primo luogo, alla lotta alla povertà, quella vera, che riguarda in misura minore, rispetto ad altri soggetti,  gli anziani e soprattutto i pensionati. O alle magre  risorse, destinate nello stesso Capo IV, all’incremento della produttività; oppure allo stesso rinnovo dei contratti del pubblico impiego in un contesto di grande trasformazione (attraverso la digitalizzazione della PA) come quella in corso o quanto meno annunciata. Anche L’Ape social si rivelerà, dopo la sperimentazione, uno strumento inadeguato a tutelare i lavoratori coinvolti nel processi di ristrutturazione attesi (il Governo prosegue nella logica del caso per caso, come dimostrano le misure adottate per gli esuberi nel settore del credito).

 

Sarebbe stato sicuramente meglio impegnare le parti sociali, in maniera più risoluta e conclusiva, nella istituzione dei fondi di solidarietà, introdotti dalla legge Fornero e ampiamente rivisitati dal jobs act.   Va riconosciuto, tuttavia, che il Governo sta cercando di contenere – con l’Ape –  i danni provocati da una lunga campagna politica  – e soprattutto mediatica – contro la riforma previdenziale del 2011, allo scopo di anticipare i requisiti anagrafici del pensionamento, ripristinando, nei fatti, il funesto trattamento di anzianità, in un Paese che destina  circa il 4% del Pil per finanziare le pensioni  delle coorti comprese tra 55 e 64 anni, contro il 2,2% medio della Ue. Ci sono stati dei momenti in cui la c.d. flessibilità del pensionamento (a fronte di penalizzazioni economiche inadeguate sul piano attuariale) sembrava una scelta indiscutibile e urgente. Alla testa del partito della flessibilità  – oltre a qualche autorevole parlamentare della maggioranza che era riuscito a coinvolgere nell’operazione persino l’opposizione e a conduttori televisivi pronti a dare voce a qualsiasi istanza  – si era messo, addirittura, il presidente dell’Inps, prof. Tito Boeri, che aveva predisposto, nel merito, un ampio documento con allegato persino  un articolato di legge.

 

Al di là degli aspetti di metodo sollevati dalla recente intervista al Corriere della Sera, Boeri non chiarisce quali sarebbero le cause a determinare, con l’Ape, un debito pensionistico superiore a quello attribuibile alla sua proposta; tanto che è intervenuto, la sera stessa dell’intervista, un comunicato dell’Inps che, mediante una lunga e singolare spiegazione del significato di ‘’debito pensionistico’’, ha finito per ammetterne l’irrilevanza sul piano finanziario e l’estraneità rispetto al concetto di debito pubblico. Probabilmente Boeri insiste nell’idea per cui occorrerebbe convincere la Ue (e i mercati?) ad accettare nell’immediato una maggiore spesa pensionistica  (in conseguenza dell’aumento del numero delle pensioni grazie alla flessibilità), in cambio di una riduzione della stessa tra qualche decennio per effetto del minore importo degli assegni sottoposti alle penalizzazioni economiche dell’anticipo. Il fatto è che  i disincentivi prefigurati non hanno equivalenza attuariale rispetto alla erogazione anticipata di alcuni anni; poi,  alla Ue non gliene può fregar di meno dei risparmi futuri (il sistema è già in equilibrio grazie alla  riforma Fornero), mentre è preoccupata per i saldi dei prossimi anni (che potrebbero anche rimettere in discussione la prospettiva futura).

 

E l’Ape ha un costo sostenibile: non domani ma adesso. Boeri ha ragione solo in un punto: quando denuncia le possibili spinte ad estendere i benefici assistenziali previsti.  E’ presente il rischio, infatti, che il sistema pensionistico si trasformi in un campo minato dai concetti malsani di lavoro gravoso, precoce, di cura e quant’altro; che si torni, cioè,  all’idea di un  sistema previdenziale pubblico quale  riparatore dei torti che un lavoratore subisce prima di varcare la fatidica soglia della quiescenza.  Se gli andamenti demografici e le loro conseguenze sul mercato del lavoro  – prima ancora che l’equilibrio dei conti pubblici – pretendono un prolungamento della vita attiva, bisognerebbe adottare, tramite la stessa contrattazione collettiva, (come hanno iniziato a fare in Germania)  misure di organizzazione del lavoro, di regime degli orari, di riqualificazione professionale dei lavoratori  ‘’anziani’’ per consentire loro di fornire un contributo – sempre importante – adeguato alle loro condizioni. Un tempo i sindacati contrattavano l’organizzazione e l’ambiente di lavoro con l’obiettivo di salvaguardare la salute e l’integrità fisica del lavoratore. Oggi trovano più facile risolvere il problema rifugiandosi nell’ anticipo della pensione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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