Politically (in)correct – Dal controllo operaio alla partecipazione: un secolo di speranze deluse

Bollettino ADAPT 12 ottobre 2020, n. 37

 

A volta capita – credo non solo a chi scrive – di avvertire, in ciò che in quel momento si legge, delle assonanze con considerazioni e riflessioni espresse in altre letture (più o meno recenti) riguardanti personalità ed eventi, magari lontani nel tempo, ma affrontati – mutatis mutandis – con il medesimo approccio e con la stessa impostazione di cultura politica. Recentemente, ricordando l’anniversario della scomparsa di Gino Giugni, sono andato a rileggere la rielaborazione di una serie di interviste a Giugni effettuate da Pietro Ichino. La lettura di un brano di quello scritto mi ha portato indietro di un secolo, ai tempi del dibattito – aperto nella sinistra di allora, ormai destinata ad essere sconfitta dal fascismo – sull’occupazione delle fabbriche (un evento che si consumò nei primi 20 giorni del settembre 1920). Giugni non risale a quel periodo, si limita a commentare ciò che accade, a suo parere, nel tempo in cui conversa con Ichino, ma allunga lo sguardo sia sul passato che sul futuro. “Il sindacato ha, in sostanza, risentito della concezione (che era del vecchio PCI) del riformismo come obiettivo intermedio, che ne prepara un altro: la palingenesi finale, unica fase veramente risolutiva.

 

Con queste premesse, gestire i risultati delle rivendicazioni diventa del tutto secondario; e del tutto secondario è anche acquisire quella cultura amministrativa, quella capacità gestionale, che è invece una caratteristica saliente del sindacalismo in altri Paesi’’. Ho ritrovato un giudizio analogo in taluni articoli pubblicati su Critica sociale (la rivista quindicinale – fondata da Filippo Turati –  dei socialisti riformisti) a commento dell’esito di quella storica vertenza, che venne interpretata dai sognatori di allora come l’inizio della rivoluzione e che, invece, si concluse, il 19 settembre, con un accordo sindacale imposto agli industriali da Giovanni Giolitti. Ed era appunto l’importanza di quell’accordo (peraltro approvato a larga maggioranza dai lavoratori in un referendum) ad essere valorizzata dai riformisti, non solo per il suo profilo sindacale (lo scontro era partito da una normale vertenza con rivendicazioni economiche e normative respinte dal padronato), ma anche per le prospettive politiche che apriva, ben lungi dall’accusa della “rivoluzione tradita”.

 

Sul piano sindacale il “concordato” segnò una indiscutibile vittoria della Fiom. Ma, in quella stagione di chimere, non erano sufficienti i risultati economici e normativi. Occorreva misurarsi anche con l’obiettivo della socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio; essere, quindi, competitivi con quelli che promettevano di “fare come la Russia”, attraverso la scorciatoia della rivoluzione. Così nel “concordato” la Cgl e la Fiom dovettero trovare una soluzione anche per la questione del “controllo operaio” (che era la “bestia nera” degli industriali) quale alternativa ai Soviet. Giolitti aveva sbloccato lo stallo mediante un decreto legge – scrive Paolo Spriano – che istituiva una “Commissione paritetica di 12 membri, incaricandola di formulare quelle proposte che possono servire al governo per la presentazione di un progetto di legge. La motivazione – prosegue lo storico – riprende, con una nota al testo scritta e aggiunta da Giolitti durante il negoziato, l’affermazione della Confederazione di conseguire un miglioramento dei rapporti disciplinari tra datori e prenditori (sic! Luigi Di Maio si è rivelato uno storico, ndr) d’opera e aumento della produzione”. Gli avvenimenti successivi travolsero ben più del lavoro della Commissione. Il tono con cui venne allora affrontato questa problematica, è un po’ ruvido, di impronta classista. Oggi nessuno parlerebbe più di “controllo operaio” quando si è scoperta una definizione più soft.

 

Nell’accordo interconfederale del 28 febbraio 2018 (il testo a cui sia le associazioni imprenditoriali sia i sindacati fanno riferimento, accusando l’altra parte di violazione, nell’attuale difficile tornata di rinnovi contrattuali) era scritto, proprio alla fine: “La maggiore autonomia e la responsabilità che questa intesa interconfederale assegna alle parti stipulanti il contratto collettivo nazionale di categoria, potrà altresì consentire di valorizzare, nei diversi ambiti settoriali, i percorsi più adatti per la partecipazione organizzativa, contribuendo, anche per questa via, alla competitività delle imprese e alla valorizzazione del lavoro. Confindustria e Cgil, Cisl, Uil considerano, altresì, un’opportunità la valorizzazione di forme di partecipazione nei processi di definizione degli indirizzi strategici dell’impresa”. Di “partecipazione” si parla anche nella legislazione vigente. A partire dal 2016 è limitata la tassazione sui premi di produttività al 10%, ovvero ridotta a zero se il dipendente sceglie di convertire in welfare il premio.

 

Il massimale del beneficio viene incrementato a fronte di forme di partecipazione dei lavoratori. Il governo giallo-verde non si è mostrato tanto favorevole a questo regime, ma si tratta di un ragionamento che non intendo approfondire ulteriormente, in questa sede. Il fatto è che la “partecipazione” da noi è ancora come la Primula rossa: “chi egli sia nessun lo sa, dov’egli sia nessun lo dice”.  I postumi di una visione classista avvolgono ancora, in settori del sindacato, tale materia, benché vi siano in proposito delle esperienze consolidate sul piano internazionale e delle direttive dell’Unione. E a tal proposito è interessante compiere un volo pindarico di un secolo e tornare alla promessa  di una legge sul “controllo operaio” che Giolitti – anche se avesse voluto – non fu in grado di   mantenere. Scriveva Claudio Treves su Critica sociale del 16-30 settembre 1920 “la fabbrica vive e prospera per l’accordo dell’intelligenza e del lavoro”. Ma fu il patriarca del socialismo riformista, Filippo Turati, a scendere in difesa del “concordato” del 19 settembre: “La rivendicazione del controllo operaio, mantenuta nei limiti in cui oggi è possibile e fruttuoso esercitarlo, è esso stesso una rivoluzione, la più grande, dal punto di vista socialista, dopo il conquistato diritto di coalizione e il suffragio universale, in quanto incide direttamente il diritto di proprietà, nella sua preminente matrice capitalistica”.

 

“Scopi immediati della riforma voglion essere – giusta le ripetute dichiarazioni della Confederazione Generale del Lavoro (allora saldamente diretta dai socialisti riformisti, ndr) – rendere il lavoratore partecipe della gestione dell’azienda, elevare la sua dignità, imparargli a conoscere i congegni amministrativi dell’industria, evitare di questa le degenerazioni speculazionistiche, ridestare nel lavoratore la spinta al lavoro, intensamente e gioiosamente produttivo”. E da qui partiva la parte politica del ragionamento di Turati: “La futura graduale socializzazione delle industrie è condizionata a questi risultati più prossimi”. Parole di un’attualità straordinaria che possiamo ritrovare in scritti di Bruno Trentin (“Da sfruttati a produttori”) e, anni dopo, di Marco Bentivogli (“Contrordine, compagni’’).  A Filippo Turati rispose sull’Avanti! del 21 settembre (due giorni dopo l’intesa) Giacinto Menotti Serrati, segretario del Psi a maggioranza massimalista. “Il controllo è di per se stesso collaborazione. Se fatto veramente sul serio conduce inevitabilmente a trasformare gli operai in aiuti interessanti della gestione borghese”. E aggiungeva: “Non passerà lungo tempo – saranno forse poche settimane – che una nuova lotta si ingaggerà indubbiamente”, perché “la borghesia italiana non si salva con la firma apposta dai signori industriali al concordato imposto da Giovanni Giolitti”. E di nuovo: “l’ora critica della vita nazionale non si chiude con un concordato di puro carattere sindacale”.  Gli rispose, al Congresso di Livorno, Filippo Turati: “Intimidendo ed intimorendo, proclamando (con suprema ingenuità anche dal punto di vista cospiratorio) l’organizzazione dell’azione illegale, vuotando di ogni contenuto l’azione parlamentare che non è già l’azione di pochi uomini, ma dovrebbe essere, col suffragio universale, la più alta efflorescenza di tutta l’azione, prima di un partito, poi di una classe; noi avvaloriamo e scateniamo le forze avversarie che le delusioni della guerra avevano abbattute, che noi avremmo potuto facilmente debellare per sempre”.

 

Questo scorcio di dibattito, in un percorso parallelo tra sindacato e partito, è un’ulteriore dimostrazione di quanto sia stata grave la responsabilità del gruppo dirigente massimalista nel determinare la tragedia che di lì a poco travolse il “proletariato” e la democrazia in Italia. Del resto, quando il 28 ottobre 1922, i fascisti effettuavano la Marcia su Roma, Giacinto Menotti Serrati si trovava a Mosca, per comunicare a Lenin che, il 3 ottobre di quello stesso anno, il Congresso aveva decretato (sia pure con una maggioranza di poche migliaia di voti) l’espulsione della corrente riformista dal Partito. Per raggiungere la capitale sovietica (e per farne ritorno) erano necessarie lunghe giornate di treno. Evidentemente, per Giacinto Menotti Serrati non c’era alcuna fretta di reagire.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

Politically (in)correct – Dal controllo operaio alla partecipazione: un secolo di speranze deluse