Politically (in)correct – Assistenza e previdenza: separate in casa

Bollettino ADAPT  10 gennaio 2022, n. 1

 

Tra i tanti luoghi comuni che circolano indisturbati come i virus, nel dibattito sulle politiche sociali, uno di quelli più insidiosi è la variante “separazione” tra assistenza e previdenza. È sufficiente affermare – con l’aria di chi espone una tesi scontata anche per il proprio interlocutore – che “è necessario separare la previdenza dall’assistenza’’ (o viceversa a seconda delle scuole di appartenenza) per suscitare subito consenso. Agitare l’idea della “separazione” è sempre conveniente perché è diffusa la convinzione che la previdenza sia il frutto di un onesto lavoro (“ho sempre pagato i contributi”), mentre l’assistenza si porta appresso il marchio del clientelismo. Inoltre i “separatisti” sostengono che, effettuando questo stralcio, l’Italia sarebbe in grado di evitare le critiche di una spesa pensionistica eccessiva e quindi ci sentiremmo autorizzati a introdurre regole ancor più generose.

 

A parte il fatto che la nostra spesa pensionistica sarebbe ancora superiore alla media europea anche senza includere quei due punti di Pil attribuiti all’assistenza, occorrerebbe fare lo sforzo di capire che l’Eurostat non accetta indici autocertificati, ma stabilisce criteri e metodi comuni per classificare la spesa sociale. Certo, la perfezione non è di questo mondo, ma quando si appartiene ad una comunità è corretto seguire le definizioni convenute tra gli Istituti centrali di statistica. Altri grandi sostenitori (sia pure con atti di fede di differente intensità per le ciascuna sigla) della teoria salvifica della “separazione” sono le confederazioni sindacali l’insieme al loro contorno. E nei rapporti con i governi hanno sempre rivendicato la predisposizione di un “tavolo’’, certi che alla fine le loro teorie sarebbero prevalse. Nei giorni scorsi, il gruppo di studio ristretto costituito dal governo per approfondire – esprimiamo il concetto in maniera corretta – la “separabilità” tra i due grandi aggregati di spesa sociale, si è concluso con la redazione di un report che asfalta tutte le virtuose aspettative attribuite alla separazione, smontando pezzo per pezzo i relativi argomenti. Per motivi di sintesi ci soffermiamo di seguito su alcune considerazioni del documento (di 69 pagine), raccomandando la lettura del testo completo.

“La Commissione concorda sul fatto che il canale di finanziamento delle prestazioni (contributi sociali o fiscalità generale) non può essere utilizzato come criterio per la quantificazione della spesa previdenziale per una duplice ragione: i) nulla osta che una spesa di carattere previdenziale sia finanziata attraverso imposte invece che con contributi, come dimostra anche la comparazione europea (e lo stesso caso italiano, ad esempio in presenza di forme di sgravi contributivi); ii) in Italia la fiscalità generale finanzia anche voci chiaramente di natura previdenziale, come si osserva dal bilancio della GIAS, la “Gestione degli Interventi Assistenziali e di Sostegno alle Gestioni Previdenziali”, istituita dall’art. 37 della legge n. 88 del 1989 nell’ambito del bilancio dell’INPS. Più in generale, l’intervento della fiscalità generale tramite il fondo GIAS e il sistema di anticipazioni di tesoreria a cui periodicamente attinge l’INPS ha come finalità quella di finanziare/ripianare gli squilibri finanziari dell’ente preposto all’erogazione delle prestazioni piuttosto che dare copertura finanziaria alle singole prestazioni. A conferma di ciò, la Commissione evidenzia un dato che il dibattito italiano non sembra tenere nel debito conto: nel 2019 i contributi sociali hanno coperto una quota della spesa previdenziale pari solamente al 76,3%, proseguendo una tendenziale riduzione della sua copertura nel corso degli ultimi anni”.

 

Pertanto è scorretto affermare che è aumentata la spesa per l’assistenza; la verità è che – per varie ragioni – è aumentato l’apporto dei trasferimenti per finanziare la spesa pensionistica. Basterebbe poi un altro argomento per chiudere definitivamente il dibattito: la separazione è già stata realizzata e cioè il principio della separazione tra assistenza e previdenza ha trovato attuazione nella legge n. 88/1989 che ha riformato in tal senso la struttura del bilancio dell’Inps. Poi ha trovato successivamente ulteriori definizioni in ben due leggi di bilancio: la legge n. 449/1997 (la Finanziaria per il 1998) e la legge n. 448/1998 (la Finanziaria per il 1999). Ancora più diretta è la parte curata da Michele Raitano, l’economista designato nel Comitato dalla Cgil:

“Laddove si seguisse il criterio del finanziamento come discriminante si avrebbero effetti paradossali. Ad esempio, ne discenderebbe che i paesi (come la Danimarca) che finanziano oltre l’80% della loro spesa per protezione sociale con imposte non stiano assicurando i cittadini. O, ancora, che la Cassa integrazione andrebbe considerata come uno strumento assistenziale anziché previdenziale quando si rivolge in deroga a categorie non coperte (o coperte in modo insufficiente) dagli oneri contributivi. Similmente – aggiunge Raitano – si dovrebbe ritenere come assistenziale la quota di pensione futura erogata a chi ha beneficiato degli sgravi contributivi del Jobs Act, o che una ridefinizione della formula contributiva (con una quota garantita) divenga previdenziale se finanziata con contributi all’interno del sistema pensionistico o assistenziale se al suo finanziamento contribuisca la fiscalità generale”.

 

In sostanza il dibattito è scivolato in un “errore ideologico”: sono considerate assistenziali le prestazioni finanziate dalla fiscalità generale, a prescindere dalla loro funzione. Il report, poi, è interessante anche perché fornisce elementi riferiti alla quota sulla spesa pubblica della spesa sociale nella Ue e alla sua ripartizione tra le voci principali.

“Nel 2018, ultimo anno al momento disponibile (luglio 2021), le prestazioni sociali dei Paesi della UE 27 sono state erogate, nell’ordine, per coprire i seguenti bisogni: Vecchiaia (40,3% del totale della spesa; IT: 49,0%), Malattia/Salute (29,3%; IT: 23,0%), Famiglia/Figli (8,3%; IT: 4,1%), Invalidità (7,6%; IT: 5,7%), Superstiti (6,2%; IT: 9,5%), Disoccupazione (4,7%; IT: 5,5%), Esclusione sociale (2,3%; IT: 3,1%) e Abitazione (1,4%; IT: 0,1%). Rispetto alla media UE, quindi, l’Italia destina una maggior quota di risorse a Vecchiaia e Superstiti e una minor quota a Malattia/Salute, Famiglia/Figli e Invalidità’’. Tra le funzioni, è la Vecchiaia a occupare il primo posto nella media UE e ciò accade anche in tutti i paesi europei, con due sole eccezioni: Irlanda e Germania, dove invece il primo posto spetta alle spese sanitarie. La quota sul totale della spesa di prestazioni sociali (in denaro e in natura) erogate per la funzione Vecchiaia in tutti i Paesi della UE 27, evidenzia plasticamente quanto la media europea sia influenzata dalla quota relativamente bassa (32,3%) di questa funzione rispetto al totale delle prestazioni nel maggior Paese europeo, la Germania’’.

 

Sul versante nazionale, la spesa per protezione sociale elaborata dall’Istat, considerata nel suo complesso, comprende – ricorda il Report – tanto le prestazioni in denaro quanto quelle in natura, e include tre distinte aree di intervento: Sanità, Previdenza e Assistenza. Per quanto riguarda la tipologia delle prestazioni, nel 2018 nella UE 27 il 65,3% delle prestazioni è erogato in denaro e il 34,7% in natura (servizi e rimborsi). Rispetto alla media europea, in Italia il rapporto tra le due tipologie è più sbilanciato verso le prestazioni in denaro (76,1% contro il 23,9% in natura), anche a causa del minor peso relativo della spesa per Malattia/Salute nel nostro paese dove le prestazioni sanitarie sono tutte in natura, quelle previdenziali sono tutte in denaro e quelle assistenziali sono prevalentemente in denaro, ma anche in natura.

 

Sono classificate in Sanità le prestazioni erogate direttamente alle famiglie dalle Amministrazioni pubbliche sotto forma di servizi sanitari e quelle acquistate dalle Amministrazioni pubbliche sul mercato e offerte, senza alcuna trasformazione, ai beneficiari. Le prestazioni sanitarie erogate direttamente sotto forma di servizi includono l’assistenza negli ospedali pubblici e altre tipologie di servizi sanitari, mentre le prestazioni acquistate sul mercato includono i farmaci, l’assistenza medica generica e specialistica, assistenza ospedaliera in case di cura private, l’assistenza riabilitativa, integrativa e protesica e altra assistenza sanitaria. Sono classificate in Previdenza – prosegue il Report – le prestazioni erogate nell’ambito dei sistemi di sicurezza sociale e degli altri sistemi di assicurazione sociale connessa con l’occupazione (datori di lavoro). In entrambi i casi è previsto il versamento di contributi sociali e l’esistenza di una relazione tra datore di lavoro e lavoratore.

 

Le prestazioni previdenziali includono, oltre alle pensioni di invalidità, vecchiaia e superstiti (IVS), ivi incluse le integrazioni al minimo e le quattordicesime, anche le rendite indennitarie, le indennità di malattia o maternità, le liquidazioni di fine rapporto, gli assegni di integrazione salariale, i sussidi alla disoccupazione e altro. Sono classificate in Assistenza le prestazioni erogate al di fuori dei sistemi di assicurazione sociale, a individui che ne hanno diritto indipendentemente dal versamento dei contributi; esse sono spesso erogate a soggetti che, per la ridotta capacità lavorativa, sono esclusi dalle forme di assicurazione previste per i lavoratori. Solitamente, l’erogazione della prestazione è soggetta a una preventiva valutazione del reddito disponibile (means-testing o prova dei mezzi). Le prestazioni assistenziali erogate in denaro includono le pensioni e gli assegni sociali, le pensioni di guerra, le prestazioni agli invalidi civili, non vedenti e non udenti, inclusa la componente pensionistica, e altri assegni e sussidi (categoria, quest’ultima, molto cresciuta negli ultimi anni).

 

Esistono anche prestazioni assistenziali erogate in natura, come ad esempio i servizi di asilo nido o di assistenza agli anziani. L’analisi e la valutazione sulle tendenze di lungo periodo degli aggregati – si concentra nel documento – sugli anni 2005-2019, data l’assoluta particolarità dell’anno 2020, dovuta agli effetti diretti e indiretti della crisi pandemica su spese, entrate e PIL. A prezzi correnti, gli importi erogati sono crescenti nel tempo: dai 338,3 miliardi del 2005, ai 478,5 del 2019 (+140,2 miliardi), fino a raggiungere i 523,9 miliardi nel 2020. In concomitanza, aumenta anche l’impatto sui conti delle Amministrazioni pubbliche, con una incidenza sul totale della spesa pubblica corrente che passa dal 53,2% del 2005 al 59,1% del 2019 (61,2% nel 2020).
 
Negli anni considerati, le prestazioni sociali (sanità, previdenza e assistenza) costituiscono sempre oltre la metà della spesa pubblica italiana. La spesa per la sanità (2005: 89,9 miliardi; 2019: 108,6, +18,7 miliardi) è la componente che è cresciuta meno nel periodo considerato. Si verifica un aumento sensibile solo nel 2020 (+6,8%, registrato in precedenza solo nel 2008), anno in cui l’emergenza sanitaria ha imposto la necessità di investire maggiori risorse anche in quest’area (l’incremento del 2019 era stato dell’1,3%). La spesa per la previdenza (2005: 223,0 miliardi; 2019: 317,6, +94,6 miliardi) è storicamente quella di maggiore peso. Nell’intera serie, ha registrato un solo anno di sostanziale stasi nel 2014 (-0,1%), soprattutto in conseguenza della c.d. Riforma Fornero, che ha determinato anche negli anni successivi una crescita molto contenuta. L’inversione di tendenza si osserva solo nel 2019, anno in cui la spesa previdenziale ha ricominciato a crescere più marcatamente (+2,9%), anche a seguito dell’introduzione della c.d. Quota 100. Nel 2020 si osserva la crescita più elevata dell’intero periodo (+7,3%), dovuta in prevalenza all’ingente aumento delle integrazioni salariali (CIG), che rientrano all’interno del comparto previdenza. La spesa per assistenza (2005: 25,4 miliardi; 2019: 52,4, + 27,0 miliardi) è storicamente quella più contenuta. A partire dal 2014, tuttavia, mostra la dinamica annuale più elevata tra le tre aree, inizialmente in seguito all’introduzione del c.d. Bonus 80 euro, dal 2019 anche per effetto dell’entrata in vigore del Reddito di cittadinanza, con una dotazione di risorse più ampia rispetto al ‘Reddito di inclusione’ introdotto l’anno precedente. Nel 2020, in seguito alle misure di sostegno al reddito delle famiglie introdotte per contrastare gli effetti della crisi economica conseguita alla pandemia da Covid19, si verifica una vera e propria esplosione della spesa per assistenza, che cresce del 28,4% raggiungendo i 67,3 miliardi (+14,9 miliardi rispetto all’anno precedente).

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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