Personalizzare l’apprendimento, utopia o risorsa?

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Bollettino ADAPT 24 giugno 2019, n. 24

 

È possibile, e cosa significa, personalizzare l’apprendimento in un mondo spesso uniformante e standardizzante come quello della scuola? Il tema della personalizzazione dell’apprendimento è oggi sempre più popolare, non solo tra gli addetti ai lavori. Parole e frasi ricorrenti come “apprendimento centrato sullo studente“, “coinvolgimento nell’attività educativa delle comunità locali” e “apprendimento distribuito per tutta la vita” e “ diversi stili di apprendimento” rimandano a concetti ormai entrati nella mentalità, anche se occorre affrontarne alcune ambiguità e possibili contraddizioni.

 

Il breve saggio di Monica Mincu La personalizzazione, una scommessa per il futuro evidenzia come l’esigenza di una personalizzazione che non si ponga innanzitutto “contro” il sistema (fatto di materiali standard, procedure ripetitive e produzione massificata e che va sicuramente superato), ma piuttosto in una logica “pro” apprendimento: che rimanda all’ideale della bottega artigianale, in una struttura scolastica che sia flessibile, capace di superare le rigidezze delle classi distinte, degli orari definiti una volta all’anno, dei compiti degli insegnanti incentrati sulla lezione frontale.

 

 

La teoria di riferimento più evocata è quella delle multiple intelligences di Howard Gardner. Come è noto Gardner ha identificato nove tipologie di intelligenze diverse (vedi infografica di Mark Vital) tutte presenti nella persona ma sviluppate in modo differente grazie a un complesso di fattori storico-evolutivi-educativi e di percorsi apprendimento. L’intelligenza non è quindi solo misurabile in termini di standard attraverso una serie di prove che danno luogo a punteggi che identificano un generale livello di Quoziente Intellettivo. Spesso inoltre il numero associato al proprio Q.I. determina un giudizio sulla persona che si cristallizza per sempre nella valutazione degli insegnanti, dei genitori e nella stessa auto-percezione del discente. Se tale numero non è privo di valore nell’ipotizzare una previsione dei risultati che il si conseguiranno nelle materie scolastiche non dice però nulla – avverte Gardner – sui «risultati che il soggetto otterrà invece nella vita». Se esistono infatti diversi tipi di intelligenze esistono diversi modi per svilupparle e valutarle, alcuni dei quali potrebbero essere ancora da codificare se non da scoprire, pur essendo già praticati in modo implicito o irriflesso. In proposito Gardner porta alcuni esempi reali, come il ragazzo dodicenne dell’isola Puluwat – Micronesia – che impara a diventare maestro navigatore combinando la conoscenza della navigazione, delle stelle e della geografia in modo da sapersi orientare tra centinaia di isole: quale metro usare per valutare tale intelligenza?

 

 

L’autrice porta poi ad esempio il caso della politica scolastica della Gran Bretagna, dove si è scelto di procedere verso una concezione più sostanziale o forte di personalizzazione (deep personalization) intesa come «innovazione in cui i soggetti/utenti diventano “ideatori e padroni” dei servizi e della loro stessa formazione». I problemi della società e la loro soluzione dipendono in larga misura dalla capacità di autorganizzazione per soddisfare le domande dei gruppi sociali stessi, altrimenti «le code si allungheranno» e l’offerta standardizzata dei servizi non solo non sarà mai sufficiente ma sarà sempre inadeguata essendo i bisogni diversificati. In ambito britannico si è quindi adottata la prospettiva gardneriana: «partire dagli interessi, dai bisogni e dalle potenzialità dei discenti rappresenterebbe il modo migliore per trovare lo stile di apprendimento più adatto a ciascun soggetto e quindi per realizzare un tipo di apprendimento personalizzato».

 

La personalizzazione inoltre è un approccio che sottolinea la socialità dei soggetti e dei contesti educativi, cosa che implica la volontà di creare o mantenere effettive esperienze di comunità fatte di insegnanti-genitori-studenti e – aggiungiamo noi- attori del mondo del lavoro come le aziende territoriali: anche nel caso di una scuola “non-professionalizzante” la possibilità di trascorrere un periodo di internship aziendale resta un elemento chiave del rapporto con il territorio, la sua storia, la sua specificità, i suoi materiali, i suoi sistemi produttivi e la tipicità che nei servizi e nei prodotti si esprime. Il mondo del lavoro – tramite l’alternanza – è una enorme opportunità di personalizzazione, dove il soggetto, del rapporto con i tutor aziendali e scolastici, ha la possibilità di costruirsi una storia particolare di apprendimento, di rapporti, di conoscenza sul campo, che è invece più difficilmente realizzabile nel contesto “classe”.

 

Alcuni altri punti di lavoro vengono alla luce osservando l’esperienza britannica:

 

  • personalizzare la valutazione può voler dire non misurare in rapporto ad uno standard ma rilanciare il soggetto in funzione dell’ulteriore suo apprendimento,
  • elaborare strategie efficaci di insegnamento e di apprendimento a partire dalle disposizioni dell’allievo;
  • impostazione flessibile e personalizzata del curricolo: non più «classi» ma classes –su modello americano-: corsi che si può decidere di frequentare in base a necessità, interessi e inclinazioni.
  • organizzazione scolastica comunitaria: prevedere sistematicamente un tempo di lavoro in team dedicato alla riprogettazione
  • partecipazione di partnership significative per la vita scolastica.

 

Un altro esempio a cui guardare l’autrice lo trova nel modello australiano, dove l’apprendimento centrato sullo studente si presenta come uno dei capisaldi delle strategie educative delineate dal Department of Education. Il presupposto di base è che l’apprendimento risulta più efficace se «il curricolo tiene conto dell’ambiente di provenienza e degli interessi dello studente e se le prassi di insegnamento e di valutazione risultano flessibili e adatte ai bisogni degli studenti» (Department of Education & Training 2005, in R. Black, Crossing the Bridge: Overcoming Entrenched Disadvantage through Student-centred Learning, the R. E. Ross Trust Education Foundation , 2007, p.13).

 

Ritroviamo nel caso australiano molti principi pedagogici fondativi come «l’organizzazione del curricolo in modo da poter tenere conto adeguatamente delle esperienze degli studenti; l’attenzione alle differenze individuali in termini di interessi, rendimento scolastico e stili di apprendimento; lo sviluppo del pieno controllo e responsabilità del proprio apprendimento; l’assegnazione di compiti in grado di sviluppare il pensiero come la capacità di esplorazione di ambienti e la soluzione di problemi; l’importanza data ai processi di comprensione più che allo svolgimento di compiti prefissati; le esercitazioni nei campi della cooperazione, comunicazione e negoziazione; la connessione con la dimensione comunitaria (Centre for Applied Educational Research, 2002, OECD 2006).

 

Queste caratteristiche fanno leva su alcune concezioni radicali: innanzitutto lo studio del funzionamento del cervello e della mente (brain-based teaching) come sorgente della struttura e dell’ordine dell’apprendimento. Secondariamente, il formulare problemi e ipotesi centrando l’apprendimento sulla scoperta personale (concetto riconducibile all’idea del Thinking Curriculum), l’assegnazione di compiti complessi, di situazioni di problem solving e che richiedano assunzione di responsabilità, di decisioni in “situazioni autentiche” e di coinvolgimento nell’organizzazione del proprio apprendimento.

 

Ancora: un’idea forte della cultura cooperativa nell’aula scolastica, fatta anche di relazioni di sostegno e valutazione reciproche, come processo continuo e parte integrante dell’esperienza di apprendimento per gli insegnanti e per gli studenti. Si evidenzia quindi una matrice di stampo costruttivista: gli studenti percepiscono il curricolo tanto più rilevante nella misura in cui possono contribuire a co-progettarlo. E la tanto pretesa oggettività della valutazione? Se i criteri e i livelli delle competenze valutate saranno condivisi con gli studenti in un patto a monte del lavoro, la capacità di autovalutazione crescerà, e con essa lo spirito critico.

 

Francesco Fornasieri

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

Università degli Studi di Bergamo

@f_fornasieri

 

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