Osservatorio ADAPT sulla ricerca in impresa e nel settore privato / 7 – Intervista a M. Zambelli e C. Garettini, Elettra – Sincrotrone Trieste S.C.p.A. (TS)

Il Presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sostiene che le attività di ricerca e innovazione siano la leva per recuperare la produttività che in Italia è in crescita debole e negativa da vent’anni. Può commentare questa affermazione?

 

Dott.ssa Garettini: L’importanza della ricerca è quella di venire incontro alle nuove realtà industriali e tradurre le loro esigenze in prodotti commerciabili, fattore che sì, è legato a doppio filo al tema del rilancio della produttività.

 

Dott. Zambelli: Sì, sono d’accordo, occorre innovare per stare al passo con la concorrenza internazionale e con paesi come la Cina, che domineranno il mercato mondiale nei prossimi decenni. Il vero problema risiede in che cosa intendiamo per “ricerca”, tanto in campo accademico quanto in campo industriale. L’essenza del problema si coglie se si capisce che non serve solo accrescere la ricerca in campo industriale, piuttosto che in ambito scientifico, ma tradurla poi in produttività e valore. Gli anelli della catena della produzione del valore sono tanti, cominciano con la ricerca e portano al prodotto finito, ma, per quanto mi riguarda, io divido la produzione del valore in due momenti che si articolano in invenzione e innovazione. Invenzione si fa dove c’è la conoscenza, innovazione dove c’è la capacità produttiva. L’interfaccia tra il mondo dell’invenzione e quello dell’innovazione è sempre un momento critico, faccio un esempio: presso Elettra possiamo inventarci delle cose straordinarie, come spesso succede, realizziamo i prototipi che ci consentono di raggiungere gli standard e gli obiettivi prefissati, ma poi far sì che questo oggetto, questo servizio diventi traducibile o erogabile in serie e si trasformi in un prodotto finito è una impresa differente. Oggi esiste un gap tra l’invenzione, la realizzazione del prototipo, e la produzione, ed è lì che bisogna andare a lavorare.

 

L’Italia continua a registrare un notevole ritardo rispetto agli altri paesi europei in termini di investimenti nei settori della ricerca e dell’innovazione. Questo ritardo è attribuibile alla poca attività di ricerca realizzata nel settore privato?

 

Dott. Zambelli: Qui si apre un discorso che se mi permette vorrei sviluppare. Io ho lavorato per molti anni in una grande impresa, ed erano tempi assolutamente d’oro perché a metà degli anni Settanta io ero ancora studente e sono entrato in quella che era la direzione ricerca e sviluppo. Sono un privilegiato perché ho vissuto tutta la mia vita professionale a cavallo tra ricerca e mondo dell’industria. Per tanti anni mi ha pagato l’industria ma collaboravo con l’università, il CNR e centri di ricerca italiani ed europei, quindi conosco abbastanza bene entrambi i mondi e le logiche di funzionamento.

A metà degli anni Ottanta c’è stato un periodo in cui si è deciso di sopprimere le partecipate statali, ma si è commesso l’errore di buttare via il bambino con l’acqua sporca, perché si è avviata una fase di trasferimento della tecnologia matura dalla grande alla piccola impresa. Il problema è che finché quella tecnologia vale, la piccola impresa è capace di sfruttarla meglio della grande perché più veloce, meno burocratizzata, più snella insomma. Ma quando quella tecnologia muore o è data per sorpassata, la piccola impresa non ha la forza di investire in nuova tecnologia e di innovarsi per restare competitiva sui mercati.

Quello che sto cercando di dire è che il fatto che si faccia poca o tanta ricerca nel settore privato è direttamente proporzionale al numero di imprese di elevate dimensioni presenti in un paese, ma noi in Italia, a poco a poco, abbiamo ridimensionato il numero di queste ultime. Quindi di cosa stiamo parlando? Del fatto che manca la ricerca perché le piccole imprese non la fanno? Certo che manca, la piccola impresa non riesce a fare ricerca, soprattutto avanzata.

 

Le piccole imprese che vogliono fare attività di ricerca e sviluppo dovranno quindi continuare ad affidarsi all’Università, malgrado le barriere culturali, ai parchi scientifici e tecnologici oppure esternalizzeranno la ricerca, come ipotizza qualcuno, attraverso le start-up?

 

Dott. Zambelli: Ci sono diversi tipi di ricerca, voglio fare due esempi: se occorre inventare una nuova tecnologia di trasmissione mobile, questa la fanno gli Stati in collaborazione con le grandi imprese senza coinvolgere le piccole. Quel livello di ricerca è un livello che trascende la piccola impresa, che non può farlo perché non ha i capitali e le forze necessarie. Se si tratta di fare una nuova app, quale che sia, che poi viene usata da milioni di persone in giro per il mondo e genera un ritorno economico, ecco, quella la può fare la piccola impresa, la può fare anche la one man company, perché ha avuto quell’idea, come nel caso di Facebook, Twitter e così via. Occorre quindi distinguere le due cose. C’è una ricerca che trascende la piccola impresa, perché è talmente costosa che la piccola impresa non piò porsi nemmeno il problema e c’è una ricerca che invece la PMI può fare. Il problema è che, e torno al discorso precedente, in Italia abbiamo perso la tecnologia matura delle grandi imprese e l’abbiamo passata alle piccole imprese e questo si è tradotto in una progressiva morienza di quell’attività per le ragioni che ho argomentato prima. In Italia dovremmo investire maggiormente su quegli aspetti di ricerca che la piccola impresa può condurre.

 

Dott.ssa Garettini: Concordo con il mio collega e ci tengo a sottolineare l’importanza del ruolo dei centri di ricerca in questo processo, perché appunto certe ricerche richiedono risorse finanziarie e anche umane di un certo livello, che magari i centri di ricerca e il comparto pubblico riescono a offrire.

Un centro di ricerca ha il compito di supportare l’innovazione che nasce dalle aziende piccole. Solitamente l’azienda piccola contatta il centro di ricerca, spiega quelle che sono le sue esigenze e il centro di ricerca, se ha le potenzialità, interviene a suo favore dietro compenso. Pubblico e privato sono però ancora due settori che difficilmente riescono a parlarsi, a comunicare, e quindi un sistema di sinergie molto più spinto nelle relazioni tra settore pubblico della ricerca e aziende private sarebbe necessario.

 

Secondo lei qual è la ragione per cui le Pmi non si rivolgono ai grandi centri di ricerca come Elettra?

 

Dott.ssa Garettini: Secondo me non è che non riescono a comprenderne le potenzialità, ma non sanno nemmeno certe volte dell’esistenza delle potenzialità di certi enti di ricerca che a loro sembrano delle strutture non raggiungibili, non permeabili. Potrebbero invece esserci veramente tante possibilità di sinergie, ma a volte è proprio l’azienda privata piccola che ha difficoltà a interfacciarsi.

 

Dott. Zambelli: Questo rapporto ricerca-industria, pubblico-privato io lo vivo sulla mia pelle da decenni e mi ha sempre angosciato, in particolare soffro il fatto di come si continui ancora oggi ad usare le stesse parole, fare le stesse considerazioni, le stesse critiche, le stesse ipotesi di sviluppo di cui si è parlato quarant’anni fa, senza che la situazione sia cambiata di una virgola. Non c’è un metodo, una struttura, qualcosa di organizzato, già realizzato per mettere in comunicazione soprattutto la piccola impresa con il mondo dell’università e della ricerca. La grande non ne ha bisogno o ne ha molto meno bisogno. Il fatto è che c’è differenza di mentalità, se non diffidenza, tra chi sta dalla parte della ricerca industriale, e chi sta dall’altra parte della esce ricerca accademica. Aggiungo che un’altra criticità riguarda i centri di trasferimento tecnologico che in Italia sono insediati nelle Università e hanno personale prevalentemente universitario, mentre negli Stati Uniti ci sono uffici per il trasferimento tecnologico pieni di avvocati che di mestiere si occupano solo di quello. Anche la mobilità geografica e intersettoriale dei ricercatori altrove è vista come un valore aggiunto, mentre da noi ci sono resistenze ancora una volta culturali sul punto. Noi parliamo di cervelli in fuga per una persona che da Genova va a lavorare a Nizza, a 200 km scarsi di distanza. Io ho la famiglia che vive a Genova e lavoro a Trieste; percorro 550 km tutte le settimane, ma dato che resto in Italia non sono un cervello in fuga. Lo sa percorrendo 550 km da Genova verso ovest dove arrivo? All’università di Montpellier, con la quale ho peraltro lavorato. La retorica dei cervelli in fuga riflette un grave problema culturale legato a una mentalità provinciale e chiusa. Il problema non è legato a chi parte, ma a chi (non) arriva: il sistema Italia dovrebbe essere capace anche di attirare cervelli, in modo che vi sia un flusso netto entrante di essi.

 

Quanti ricercatori ci sono presso la vostra struttura? Collaborate anche con molti ricercatori stranieri, è corretto?

 

Dott.ssa Garettini: Abbiamo varie categorie di ricercatori: come personale di ricerca interno contiamo circa 150 unità su un totale organico di 370 persone, poi abbiamo ricercatori che conducono ricerca per loro conto sull’ordine di mille utenti all’anno, provenienti da diversi paesi stranieri. Poi c’è tutta la parte strutturale del personale tecnico a supporto della ricerca che presso Elettra è altrettanto importante.

 

Dott. Zambelli: Corretto, ma io vorrei aggiungere che considero straniero chi proviene davvero da lontano, come un nostro ricercatore che arriva dal Bangladesh. Un collega che viene da Vienna non lo considero tale, siamo entrambi Europei, e io arrivo a Trieste da più lontano di lui.

 

Come individuate e selezionate profili professionali coerenti con i vostri fabbisogni? Avete la percezione che nel vostro settore ci sia un “gap” di competenze tra quelle che richiedete per svolgere le attività/mansioni all’interno dell’azienda e quelle di cui i candidati che selezionate sono in possesso?

 

Dott.ssa Garettini: utilizziamo bandi/avvisi opportunamente pubblicizzati, che ci consentono di selezionare personale con le competenze tecniche necessarie allo sviluppo dell’attività di ricerca. Ci sono però settori al nostro interno in cui, in effetti, le competenze richieste sono abbastanza difficili da trovare, in particolare modo mi riferisco alla parte degli acceleratori della macchina. In questo caso noi abbiamo sopperito a questo gap cercando di lavorare in sinergia con le università locali, attivando dei corsi per poter formare, già dai primi anni, studenti o dottorandi sulle tematiche degli acceleratori; in questo modo, cerchiamo di reclutare personale con le competenze di cui abbiamo bisogno.

 

Quale contratto collettivo applicate? In quale classificazione e inquadramento del personale cade la figura professionale del ricercatore?

 

Dott.ssa Garettini: Applichiamo il Ccnl metalmeccanici e abbiamo sottoscritto un accordo integrativo aziendale per armonizzare le esigenze del centro di ricerca, in quanto il Ccnl applicato è, su alcuni aspetti, limitante per la nostra realtà. In genere il ricercatore (previsto a staff quindi non il postdoc) entra al 6° livello e ha uno sviluppo di carriera fino al quadro, attraverso un processo di valutazione interna nell’ambito del quale viene anche tenuto in considerazione il ruolo rivestito sia come coordinatore di gruppi di ricerca che come soggetto proponente di progetti a finanziamento esterno di una certa entità.

 

In Italia non è stata ancora compresa e valorizzata adeguatamente la dimensione iniziale dei percorsi di ricerca in azienda, come l’apprendistato di alta formazione e ricerca e i dottorati industriali. Conoscete e utilizzate questi strumenti?

 

Dott.ssa Garettini: Si, conosciamo lo strumento dell’apprendistato di alta formazione e ricerca e i suoi benefici. Stiamo valutando internamente la possibilità di attivare tale strumento contrattuale per le posizioni di dottorato e post-dottorato, anche se come partecipata pubblica siamo soggetti ai vincoli di spending review. Riteniamo comunque che tale strumento sia molto valido per le imprese private. In questo momento, per quanto riguarda i dottorandi il nostro statuto prevede esplicitamente l’importanza della formazione scientifica e quindi operiamo (nei limiti di un budget prefissato annualmente) mediante il finanziamento di alcune posizioni di dottorati di ricerca nei campi specifici di interesse di Elettra. Questo consente di creare un canale diretto di collegamento tra l’università ed il centro di ricerca permettendo agli studenti di poter avviare il proprio progetto di ricerca acquisendo e sviluppando la professionalità direttamente sul campo; dall’altro lato Elettra cerca in tal modo di avvalersi del contesto accademico (locale e nazionale) per sviluppare le competenze specifiche di proprio interesse. Tuttavia, allo stato non abbiamo dottorati industriali.

 

Il piano Industria 4.0 parla di competence center e digital innovation hub senza tuttavia fare riferimento a poli tecnologici, parchi scientifici e centri di ricerca. Quale ruolo avranno questi nella quarta rivoluzione industriale? Saranno coinvolti? Superati? Messi a margine? Rilanciati? 

 

Dott.ssa Garettini: Mi ricollego a quanto già detto all’inizio dell’intervista, rimarcando l’esigenza di lavorare su una maggiore flessibilità dei rapporti tra ricerca industriale e accademica, perché si vedono come due mondi lontani. Sarà necessario coinvolgere e mettere in rete le Pmi con i centri di ricerca, se si vuole potenziare l’innovazione.

 

Dott. Zambelli: Poli tecnologici, parchi scientifici e centri di ricerca continueranno a giocare un ruolo fondamentale per sviluppare l’innovazione. A condizione che operino in modo efficace: queste strutture possono fare cose che vanno dal bianco al nero. Il bianco consiste nel mettere l’azienda insediata in condizioni di crescere e svilupparsi, il nero invece consiste nel fare da puri affittacamere. Quello che deve fare un parco tecnologico, innovation park, chiamiamolo come si vuole, è esattamente quello che dicevo prima: incaricarsi di favorire lo sviluppo della tecnologia, appunto mettendo in contatto il mondo dell’invenzione con il mondo dell’innovazione e aiutando il suo trasferimento, che poi non è unidirezionale, ma bidirezionale. Spesso si parla di trasferimento tecnologico come se ci fosse una teleferica che porta la tecnologia da un punto a un altro, ma non funziona così. Quando parliamo di technology transfer dobbiamo riferirci a un ecosistema in cui la conoscenza cresce e si trasferisce in modo bidirezionale.

E per creare un tale ecosistema occorre che il trasferimento della tecnologia, che poi altro non è che un aspetto particolare della generazione, gestione e trasferimento della conoscenza, venga considerato e promosso a livello sistemico, e quantomeno a livello europeo e non locale. E in questo risulta fondamentale il ruolo dei parchi scientifici e dei poli tecnologici.

Ad esempio, Elettra è inserita nel campus di Area Science Park, a cui peraltro è legata a doppio filo: Area è il maggior azionista di Elettra, che a sua volta è di gran lunga la realtà di maggiori dimensioni insediata nel campus. Risulta strategico che Area ed Elettra lavorino in totale sinergia nella diffusione e nello sfruttamento di conoscenza e tecnologia, a livello europeo e globale, non ha alcun senso che Elettra, e meno che mai le piccole imprese insediate nel campus, operino singolarmente in modo isolato e disancorato dal contesto in cui sono inserite, non sfruttando appieno tutte le opportunità che la loro localizzazione e le interazioni appunto con tale contesto possono offrire.

 

Chiara Dazzi

ADAPT Junior Fellow

@chiara_dazzi 

 

Elena Prodi

Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT – Università degli Studi di Bergamo

Elena_Prodi 

 

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