La subordinazione come “doppia alienità” del lavoratore

La sentenza 30 settembre 2013 della Corte di Appello di Genova si segnala per aver richiamato un concetto di subordinazione, quello di “doppia alienità” del lavoratore, usualmente trascurato nelle sedi ermeneutiche, nonostante la sua autorevole origine risalga alla giurisprudenza costituzionale.
 
Il concetto di “doppia alienità” del lavoratore
 
Nel contesto dell’ampio dibattito sulla nozione di subordinazione e sulla sua distinzione con il lavoro autonomo, la sentenza in commento offre l’occasione per richiamare una concezione che sembrava sopita, per non dire dimenticata. Il riferimento è alla fattispecie della subordinazione intesa come c.d. doppia alienità del lavoratore rispetto all’organizzazione produttiva del datore di lavoro. In proposito, è necessario menzionare una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 30 del 5 febbraio 1996 (in D&L, 1996, 616 ss.), dalla quale trae origine l’orientamento. Secondo tale pronuncia, la “subordinazione in senso stretto” è un concetto più pregnante e insieme qualitativamente diverso dalla subordinazione riscontrabile in altri contratti, come quelli associativi, pur coinvolgenti la capacità di lavoro di una delle parti. La differenza è determinata, a detta dei giudici costituzionali, dal concorso di due condizioni che negli altri casi non si trovano mai congiunte: la prima è costituita dall’alienità – nel senso di destinazione esclusiva ad altri – del risultato per il cui conseguimento la prestazione di lavoro è utilizzata; mentre la seconda è rappresentata dall’alienità dell’organizzazione produttiva in cui la prestazione si inserisce (c.d. etero-organizzazione). La conclusione testuale della Consulta è la seguente: «Quando è integrata da queste due condizioni, la subordinazione non è semplicemente un modo di essere della prestazione dedotta in contratto, ma è una qualificazione della prestazione derivante dal tipo di regolamento di interessi prescelto dalle parti con la stipulazione di un contratto di lavoro, comportante l’incorporazione della prestazione di lavoro in una organizzazione produttiva sulla quale il lavoratore non ha alcun potere di controllo, essendo costituita per uno scopo in ordine al quale egli non ha alcun interesse (individuale) giuridicamente tutelato». Quindi, nell’ordine delle idee della Corte, assume rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di un’attività di lavoro connotata da elementi di subordinazione, quanto il tipo di interessi cui l’attività è funzionalizzata e il corrispondente assetto di situazioni giuridiche in cui è inserita. Ovviamente, non sembra superfluo aggiungere che l’individuazione del regolamento di interessi delle parti costituisce operazione ermeneutica rigorosamente oggettiva, e prescinde dalle eventuali dichiarazioni contrattuali con detto regolamento eventualmente contrastanti.
La tesi del giudice delle leggi, fino alla recente decisione in commento, risulta espressamente ripresa da un unico precedente di legittimità, sentenza n. 820/2007 della Cassazione, e pare – salvo sporadiche eccezioni – praticamente ignorata dalla dottrina.
 
La sentenza della Corte di Appello
 
Nella sentenza della Corte di Appello ligure, viene riconosciuto il carattere subordinato del rapporto tra una segretaria addetta a mansioni di front office, formalmente qualificata “collaboratrice autonoma”, ed un’agenzia, in ragione dell’esistenza dei seguenti indici combinati tra di loro: continuatività della prestazione, inserimento stabile nell’organizzazione altrui – tra l’altro, dagli atti risultava che la lavoratrice avesse sostituito una segretaria dipendente – e assolvimento di compiti essenziali senza i quali essa non poteva funzionare, assenza di rischio, compenso fisso e, aggiunge il giudice richiamando i due precedenti costituzionali e di legittimità di cui sopra, alienità dell’organizzazione e ad un tempo alienità dei risultati della prestazione.
Al di là della laconicità del suo contenuto di diritto, la pronuncia opera un richiamo decisamente inusuale in giurisprudenza, ed appare come un ulteriore segnale di una svolta – iniziata approssimativamente negli anni 2006/2007 soprattutto con Cass. 9 ottobre 2006, n. 21646 (in RGL 2/2007) e Cass. 6 settembre 2007, n. 18692 (in RIDL, 2/2008) – tendente a depotenziare, nell’identificazione della fattispecie del lavoro subordinato, il ruolo dell’eterodeterminazione in favore del criterio dell’etero-organizzazione ed addirittura di quello, ripudiato da tempo dalla dottrina, della dipendenza socio-economica del prestatore. In definitiva, sebbene formalmente nessun giudice abbia sinora negato il rilievo decisivo dell’individuazione del potere direttivo datoriale – fondamento della c.d. subordinazione giuridica –, nella sostanza tale corrente giurisprudenziale sembra averlo surrettiziamente sconfessato per privilegiare, ormai sempre più esplicitamente, il criterio della dipendenza socio-economica.
Il declino sostanziale, nell’impostazione giurisprudenziale, del criterio dell’eterodeterminazione è ovviamente oggetto di vivaci discussioni in sede dottrinale e sembra avvicinare le posizioni dei giudici alla concezione della c.d. subordinazione socio-economica, pur sempre fondamento dello statuto protettivo del prestatore di lavoro. A prescindere da valutazioni di merito sull’assunto, che andrebbero certamente formulate in maniera approfondita, non può dubitarsi della sua utilità soprattutto nel contesto della repressione del lavoro sommerso – laddove esso semplifica notevolmente la prova della subordinazione del lavoratore, richiesta dall’art. 3, comma 3 del d.l. n. 73/2002 – e della qualificazione dei rapporti controversi.
In attesa di annunciate riforme normative, la tormentata vicenda ermeneutica dell’art. 2094 c.c. è certamente destinata ad ulteriori drammatizzazioni.
 
Carmine Santoro
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
 
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