La geografia delle relazioni industriali che cambia

La Electrolux mette in scena un copione noto. Brillantemente interpretato da altri giganti dell’economia mondiale che negli ultimi anni hanno ridisegnato la geografia delle relazioni industriali. Il modello contrattuale è quello deciso dai consigli di amministrazione, budget alla mano e piani di investimento a la carte. Da dirottare all’occorrenza verso il migliore offerente secondo la tecnica del whipsawing manageriale. Tradotto in italiano: fare la spola tra uno stabilimento e l’altro.
Non bisogna andare lontano nel tempo e nello spazio per ricercare i precedenti di questo modello contrattuale. Il declino dell’industria tessile nelle provincie del nord est fu preceduto negli anni Ottanta da una ondata di accordi sindacali per il taglio dei salari. Lo stesso modello contrattuale, il concession bargaining, accompagnò i processi di deregolamentazione e terziarizzazione dell’economia negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito.
 
Poco conosciute sono le vicende che hanno interessato negli ultimi 3 anni il comparto della grande distribuzione organizzata, dove la prassi della disdetta della contrattazione aziendale si è diffusa su larga scala in mezza Europa. Poco note sono pure le esperienze degli accordi di produttività nell’industria metalmeccanica lombarda. Qui nell’ultimo quinquennio il 13 percento dei contratti aziendali ha previsto misure di retrenchement contrattuale, forme di solidarietà tra aziende e lavoratori, e deroghe verso il contratto nazionale di lavoro per scongiurare delocalizzazioni e disinvestimenti.
 
Il conflitto tra norme e luoghi si sta consumando anche in una forma di globalizzazione e dumping a rovescio. La tragica vicenda di Prato dimostra che la guerra tra poveri si combatte anche all’interno dei nostri confini. Enclave di lavoro nero, sfruttamento e sottoccupazione complicano non poco il difficile ruolo di mediazione del sindacato a cui spetta risolvere il dilemma tra la difesa ad oltranza dei diritti e lo scardinamento dello status quo in nome della salvaguardia dell’occupazione.
 
Certo è che quella che dovrebbe essere la funzione fisiologica della contrattazione, diventa una disfunzione laddove il fattore occupazione viene strumentalizzato per strappare concessioni sotto pressione coercitiva. Si altera così il metodo del leale confronto fra le parti, che dovrebbe realizzarsi sempre ad armi pari, secondo i principi di correttezza e buona fede sanciti non solo nella nostra Costituzione materiale, ma anche nelle norme dell’ordinamento internazionale che vengono però disattese con disinvoltura in quanto confinate nella dimensione del diritto morbido.
 
Ha ragione chi indica la partecipazione quale metodo per orientare l’azione delle organizzazioni sindacali in questo passaggio delicato. Il sindacato – compatto – deve quantomeno puntare a subordinare gli interventi sui salari, alla concessione da parte del gruppo svedese di garanzie sui piani di investimento che siano esigibili e verificabili anche attraverso l’accesso diretto ai registri della contabilità aziendale. Si tratta di una prassi sperimentata con successo in Germania che può essere replicata.
Non tutto però rientra nella disponibilità della contrattazione collettiva. La capacità di attrarre investimenti diretti esteri, infatti, è determinata solo in minima parte dal livello dei salari e dalla organizzazione della produzione: chi investe in Italia deve fare i conti con il costo dell’energia e con la tassazione sui redditi da lavoro e d’impresa più alti d’Europa. Su questo fronte il Governo è chiamato a fare la sua parte subito e senza indugi.
 
Paolo Tomassetti
ADAPT Research Fellow
@PaoloTomassetti
 
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