La disciplina del contratto a termine tra istanze di semplificazione e logiche di sistema

1.    Le novità contenute nell’articolo 1 del decreto-legge n. 34/2014
 
L’articolo 1 del decreto-legge n. 34 del 2014 riscrive, in termini di ampia liberalizzazione, il comma 1 del decreto legislativo n. 368 del 2001 relativo alle condizioni di legittima apposizione di un termine alla durata del contratto nell’ambito dei rapporti di lavoro privati (per i rapporti di lavoro a termine presso le pubbliche amministrazioni vedi il contributo di Oliveri che segue). Conseguentemente viene abrogato il successivo comma 1-bis che contemplava, in vigenza di una disciplina limitativa del termine, una possibilità di deroga nella ipotesi di primo rapporto di lavoro a tempo determinato, di durata non superiore ai dodici mesi, concluso tra un datore di lavoro e un lavoratore. Non così per la previsione di cui all’articolo 1, comma 0, del decreto legislativo n. 368 de 2001, introdotta con la novella del 2007, che viene confermata sancendo, in termini formali e con possibili ricadute interpretative in caso di contenzioso, il principio della natura “comune” del rapporto a tempo indeterminato.
 
Detto principio, contemplato nel preambolo (ma non nella parte precettiva) della direttiva europea che regola la materia, non risulta tuttavia più presidiato da stringenti limitazioni sostanziali alla apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato. Con l’entrata in vigore del decreto-legge in commento risulta ora sempre possibile, anche in assenza di motivazioni di ordine tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo, il ricorso al contratto a tempo determinato, per qualunque tipo di mansione, entro il solo limite di trentasei mesi di durata del contratto, comprensivo di eventuali proroghe fissate in un massimo di otto. Si generalizza così, indistintamente, la acausalità del contratto a termine, introdotta dalla legge n. 92 del 2012, c.d. legge Fornero, e rafforzata dal decreto legge n. 76 del 2013 che, da mera eccezione, diventa regola generale. Unica parziale compensazione alla rimozione dei vincoli giustificativi della apposizione del termine al contratto è la previsione di una clausola legale di contingentamento in forza della quale il numero complessivo di contratti a termine attivati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20 per cento dell’organico complessivo.
 
Va anche rilevato che viene ora meno la possibilità, contemplata dalla disciplina previgente, di stipulare il primo contratto a termine per una durata anche superiore ai tre anni. Salvo diverse previsioni della contrattazione collettiva (vedi infra), i trentasei mesi diventano ora il termine massimo di durata dei rapporti a termine proroghe e rinnovi compresi.
 
Resta salva la previsione di cui all’articolo 10, comma 7, del decreto legislativo n. 368 del 2001 che rimette alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare diversi limiti quantitativi di utilizzazione dei contratti di lavoro temporaneo. Per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti, infine, si ammette sempre la possibilità di stipulare un contratto di lavoro a termine.
 
 
2.    Incertezze e dubbi interpretativi
 
2.1.    Contratti in essere e transizione dal vecchio al nuovo regime
 
Il primo nodo critico del lavoro a termine riformato riguarda l’assenza nel decreto-legge in esame di una disposizione che regoli il regime transitorio e, segnatamente, la sorte dei contratti a termine sottoscritti prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina. Ci si chiede, infatti, se i rapporti acausali in essere, stipulati ai sensi dell’articolo 1, comma 1-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001 possano essere prorogati entro il limite massimo di trentasei mesi, in virtù della nuova regolamentazione, oppure se continuino a sottostare al precedente massimale annuo. La risposta pare essere positiva, in ragione del principio tempus regit actum, di modo che le proroghe di contratti acausali in essere, inizialmente attivati ai sensi della previgente disciplina, verranno disciplinati dal nuovo regime delle proroghe. Va del resto considerato che il regime della proroga è sempre sottoposto al consenso del lavoratore che dunque ben potrebbe tutelarsi in casi di indisponibilità ad estendere la durata del contratto. Lo stesso ragionamento dovrebbe valere, a ben vedere, anche per la proroga dei contratti a termine in essere sottoscritti prima della entrata in vigore della nuova disciplina in funzione di una ragione tecnica, organizzativa, produttiva o sostitutiva. Una interpretazione difforme, oltre a non porsi in sintonia con l’intento di semplificazione dei contratti a termine, finirebbe per penalizzare lo stesso lavoratore che vedrebbe ridursi la possibilità di prosecuzione del rapporto o che, comunque, sarebbe costretto a una interruzione, secondo le regole dello stop and go, per poter poi continuare l’attività lavorativa con un nuovo rapporto a termine attraverso il regime dei rinnovi.
 
Il punto è comunque certamente problematico e suggerisce cautela – o anche il ricorso alla volontà assistita presso le sedi di certificazione ex legge Biagi – in attesa dei chiarimenti ministeriali e, soprattutto, dei primi orientamenti della magistratura. Si ricorda tuttavia che pure in situazioni oggettivamente peggiorative per il lavoratore, come nel caso della recente novella dell’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori ad opera della legge Fornero, nessuno ha dubitato della applicazione della nuova disciplina ai rapporti in essere prima della entrata in vigore della legge n. 92 del 2012, anche se i presupposti normativi e i reciproci affidamenti all’atto di stipulazione del contratto erano diversi.
 
 
2.2.    Proroghe, rinnovi, intervalli e sanzioni
 
L’articolo 7, comma 1, del decreto-legge n. 76 del 2013 aveva provveduto ad abrogare l’articolo 4, comma 2-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001 che escludeva la possibilità di proroga del contratto a termine acausale introdotto dalla legge n. 92 del 2012. Tuttavia, stando a una interpretazione letterale e restrittiva della disposizione, anche per questa specifica tipologia di contratti a tempo determinato la eventuale proroga nel limite, nell’ambito dei dodici mesi di durata massima, doveva essere motivata da ragioni oggettive (ex art. 4, comma 1, d.lgs. 368/2001). La disciplina introdotta dal decreto-legge n. 34 del 2014 rende invece inequivocabile la possibilità non solo di apporre un termine alla durata del contratto, ma anche di prorogarlo senza specificazione delle motivazioni per non più di otto volte, sempre con il consenso del prestatore di lavoro in quanto trattasi di un atto negoziale bilaterale. Come evidenziato dal Ministero del Lavoro con nota del 14 marzo 2014 rimane ora, quale unica condizione per le proroghe, «il fatto che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato inizialmente stipulato».
 
Nel complesso, quindi, si modifica la pregressa disciplina basata sulla dicotomia, ora abrogata, causalità/acausalità in virtù della quale la proroga del contratto causale era possibile una sola volta, col consenso del lavoratore, quando il contratto iniziale fosse inferiore a tre anni e solo in presenza di una ragione oggettiva. In questa prospettiva pare tuttavia poco comprensibile, e anzi spunto per un possibile di contenzioso, il mancato coordinamento della novella col comma 2 dell’articolo 4, del decreto legislativo n. 368 del 2001 che continua a porre in capo al datore di lavoro l’onere di provare le ragioni poste alla base della proroga del termine, pur essendo venuto meno l’obbligo di allegazione di tali ragioni. Sul punto dovranno necessariamente essere inseriti correttivi in corso di conversione per evitare che in sede di contenzioso, la disposizione possa essere interpretata, anche considerando la mancata abrogazione del comma 01 dell’art. 1, nel senso che la proroga debba in ogni caso essere giustificata da una causale.
 
Resta invece invariata la disposizione di cui all’art. 5, comma 2, del decreto legislativo n. 368 del 2001 in forza della quale se il rapporto di lavoro continua oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, nonché decorso il periodo complessivo di trentasei mesi, ovvero oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi, il contratto si considera a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini.
 
Il decreto-legge non interviene direttamente sulla disciplina della successione dei contratti a termine e neppure sul relativo regime sanzionatorio. La disciplina resta quella dell’articolo 5 del decreto legislativo n. 368 del 2001, così come rivisitato dalla Legge Fornero e dal Pacchetto Letta, per cui qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a 6 mesi, ovvero 20 giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai 6 mesi, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato.
 
Lo stop and go opera ovviamente con riferimento alla successione di contratti a termine relativi alle medesime mansioni, che pure continuano ad essere assoggettati all’art. 5, comma 4-bis, del decreto legislativo n. 368 del 2001 in forza del quale qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto di lavoro fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbia complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, indipendentemente dai periodi di interruzione che intercorrono tra un contratto e l’altro, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato.
 
 
2.3.    Limite percentuale
 
Si prevede poi che il numero complessivo di rapporti di lavoro a termine costituiti da ciascun datore di lavoro non possa eccedere il limite del 20 per cento dell’organico complessivo. Sebbene sia ragionevole immaginare che la percentuale di contingentamento individuata dal decreto-legge in commento si riferisca alla sommatoria dei contratti a termine privi di causale (lavoratori diretti e somministrati), posto che il limite del 20 per cento è riferito ai «rapporti di lavoro costituiti da ciascun datore di lavoro ai sensi del presente articolo»[1], sarebbe quanto mai opportuno un chiarimento in sede di conversione del decreto che renda tale interpretazione inequivocabile. Non fosse altro perché, solitamente, le percentuali apposte dalla contrattazione collettiva variano invece in ragione dell’una o dell’altra tipologia contrattuale, nonché in relazione alla sommatoria di entrambe le fattispecie. Ad esempio, il Ccnl Terziario fissa il massimale al 20% per i normali contratti a tempo determinato, al 15% per i contratti di somministrazione a termine e al 28% nel caso di utilizzo contemporaneo dei due istituti[2].
 
In sede di conversione in legge dovranno poi essere apportati opportuni chiarimenti anche in ordine all’arco temporale su cui computare il limite del 20%[3], nonché alla nozione di “organico complessivo”, tanto in relazione all’individuazione delle tipologie contrattuali (es. gli stessi contratti a termine?) e delle funzioni (es. i dirigenti?) da includere nel computo[4], quanto in relazione alla specifica articolazione aziendale da considerare (es. sede, stabilimento, filiale, ufficio, reparto dell’impresa, punto vendita oppure l’intera vastità aziendale?).
 
Senza un intervento correttivo, infatti, la dichiarata finalità di riduzione del contenzioso risulterebbe fortemente compromessa in termini operativi. Nel CCNL Terziario, ad esempio, la percentuale di contingentamento si calcola rispetto all’organico a tempo indeterminato in forza nell’unità produttiva. Gli accordi aziendali dell’industria metalmeccanica, invece, che esercitano il rinvio legale alla contrattazione di rilevanza nazionale in assenza di un intervento da parte del CCNL, specificano sia la base di calcolo temporale per il computo della percentuale (es. triennale alla Lucchini, annuale alla Peg Perego, trimestrale alla Lanfranchi), che le tipologie contrattuali da considerare ai fini della definizione dell’organico complessivo di riferimento. Alcuni contratti collettivi, ad esempio, considerano nella forza lavoro complessiva anche gli stessi lavoratori assunti con contratto di somministrazione o a tempo determinato; altri contratti, prendono in considerazione il totale dei dipendenti, escluse le sostituzioni per maternità, i congedi straordinari legge n. 104 del 1992 e tutte le tipologie di aspettativa. In altre aziende, infine, il calcolo viene effettuato solo rispetto al numero dei lavoratori occupati a tempo indeterminato.
 
Oltre a riconoscere alla contrattazione collettiva di rilevanza nazionale la possibilità di confermare o modificare, in aumento o in diminuzione, il limite del 20%, l’articolo 10, comma 7, del decreto legislativo n. 368 del 2001, cui il decreto-legge in commento rinvia, dispone che restano in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi:
 
a)  nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
 
b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;
 
c)  per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
 
d) con lavoratori di età superiore a 55 anni.
 
 
2.4.    Il regime speciale per le imprese fino a 5 dipendenti
 
Non pochi dubbi interpretativi desta la nuova disposizione introdotta in coda al comma 1, art. 1, del decreto legislativo n. 368 del 2001 in forza della quale per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.
 
Non è del tutto chiaro, innanzitutto, se il regime di eccezionalità entro cui vengono ricondotte le micro imprese si riferisca ad alcuni ovvero a tutti i limiti posti dalla nuova disciplina del contratto a termine. La prossimità della disposizione a quella relativa al tetto del 20 per cento dell’organico complessivo induce senz’altro a leggere la previsione in stretta connessione a detto limite, anche considerato che questa interpretazione sarebbe peraltro l’unica conforme al diritto comunitario. Tuttavia, una lettura complessiva del comma 1, art. 1, d.lgs. n. 368/2001, a partire dall’incipit («È consentita l’apposizione di un termine al contratto di lavoro subordinato»), potrebbe anche suggerire una interpretazione della disposizione tale da riferire il regime eccezionale cui vengono ricondotte le imprese che occupano fino a cinque dipendenti («Per le imprese che occupano fino a cinque dipendenti è sempre possibile stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato») all’intero impianto del nuovo comma 1.
 
Nulla si dice poi in merito alla applicabilità del regime eccezionale alle realtà che, pur non potendosi qualificare “imprese”, impieghino meno di 5 dipendenti. Sarebbe pertanto opportuno un chiarimento in sede di conversione volto a precisare se la previsione sia applicabile o meno, ad esempio, agli studi professionali (che non sono imprese) e, di conseguenza, se uno studio professionale che abbia in forza quattro lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, non possa assumere nessun lavoratore a tempo determinato.
 
 
2.5.    La forma scritta
 
Il decreto-legge in commento incide, necessariamente, anche sui requisiti di forma del contratto, essendo venuto meno il principio per cui nel contratto a termine debbano essere specificate per iscritto, pena la nullità del termine, anche le ragioni che ne hanno determinato l’utilizzo. Ora si prevede che l’apposizione del termine sia priva di effetto se non risulti, direttamente o indirettamente, da atto scritto, con la conseguenza che si elimina così una previsione normativa che ha a lungo alimentato il contenzioso in materia e orientato in chiave fortemente restrittiva la lettura giurisprudenziale dell’istituto[5]. Ad ogni modo l’apposizione del termine, come già previsto nella precedente disciplina e riconosciuto dalla giurisprudenza, non necessariamente deve discendere da un fatto di natura negoziale espresso, ma può essere rilevata anche, in via induttiva, dall’esame delle clausole contrattuali[6].
 
 
3.    Una prima valutazione d’insieme del nuovo contratto a termine in attesa della legge di conversione
 
Col decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, l’interventismo del legislatore sul contratto a termine traguarda, per la quattordicesima volta dalla emanazione del decreto legislativo n. 368 del 2001, un punto di equilibro che non c’è. Destinata ancora e ancora a cambiare corso, la storia del contratto a tempo determinato è, del resto, la storia di un riformismo che si nutre di se stesso. Basta leggere assieme alle misure di liberalizzazione del lavoro a termine quelle sul contratto di apprendistato, per accorgersi di come la legislazione sul lavoro viva uno stato di rivoluzione permanente in cui ogni visione di lungo corso e strategia d’insieme si dirada a colpi di misure di urgenza che paiono informate più alla necessità di costruzione del consenso politico, che agli obiettivi esplicitati nel preambolo del decreto-legge di «semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile» e di «semplificare le modalità attraverso cui viene favorito l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro».
 
Di non poche responsabilità sono caricate le parti sociali che, nella inconcludenza della loro azione collettiva, si ritrovano, a turno, a fare i conti col peggiore dei mondi possibili: ieri è toccato alle imprese gestire l’aumento del costo del contratto a termine introdotto dalla riforma Fornero; oggi tocca alla Cgil spiegare (o celare) ai lavoratori che tra le righe del Jobs Act è sancita, di fatto, l’abrogazione dell’articolo 18. Con il venir meno della causale sul lavoro a termine si rompe invero la logica di sistema su cui ha fatto perno la legislazione sul lavoro in Italia, fondata sull’equilibrio per cui le ragioni oggettive ex ante, giustificatorie dell’apposizione del termine al contratto, erano speculari alle ragioni oggettive ex post, giustificatorie del licenziamento nei contratti a tempo indeterminato. A questo punto il riequilibrio del sistema non può che passare attraverso una convinta liberalizzazione della flessibilità in uscita del lavoro stabile che altrimenti verrebbe verosimilmente fagocitato dal lavoro a tempo determinato. Non stupisce in questa prospettiva la posizione della Cgil che all’indomani della presentazione del Jobs Act ha subito aperto al progetto di contratto a tempo indeterminato a tutele progressive. Soluzione però che, per effetto domino, segnerebbe a sua volta la fine del contratto di apprendistato. È bene quindi che in questa fase il sindacato esplori altre strade e, soprattutto, torni a prendere il pieno controllo della propria funzione che è innanzitutto quella di regolare il mercato del lavoro tramite la contrattazione collettiva.
 
I continui aggiustamenti della normativa sul contratto a termine sono del resto il frutto di un uso maldestro, tutto italiano, della logica della sussidiarietà e del metodo del dialogo sociale, di cui il decreto legislativo n. 368 del 2001 è figlio assieme alle “polemiche provinciali” che ne hanno accompagnato la gestazione e la genesi[7]. L’atteggiamento interdittivo nella fase traspositiva delle Direttiva 1999/70/CE, vissuta da una parte del sindacato come last chance di difesa ad oltranza delle linee di non regresso, è solo uno dei molteplici precedenti di ciò che le organizzazioni sindacali si trovano oggi a vivere quale effetto del dissenso pregiudiziale mostrato ora verso un avviso comune per la gestione straordinaria delle opportunità di lavoro aperte dall’Expo 2015, ora verso le misure di flessibilità contrattata a livello territoriale o aziendale. Vale la pena evidenziare, infatti, che se la liberalizzazione del contratto a termine fosse stata definita dalla autonomia collettiva con soluzioni analoghe a quelle ora introdotte per legge, il sindacato avrebbe quantomeno incassato una qualche forma di contropartita alternativa al nulla.
 
È dunque alla luce dell’ennesima riforma sul contratto a termine quanto mai opportuna una (ri)valutazione delle enormi potenzialità e della persistente attualità dell’articolo 8, della legge 148 del 2011, «quale unica ragionevole alternativa rispetto a processi, altrimenti inarrestabili, di pura e semplice deregolazione della nostra materia»[8].
 
Alla schizofrenia normativa sul contratto a termine deve peraltro sommarsi la complessità derivante da una stratificazione regolativa della tipologia contrattuale che, senza contare giurisprudenza e prassi amministrativa, è il risultato di ben sette fonti legislative e contrattuali differenti: l’accordo quadro europeo, la direttiva, l’avviso comune (negoziato, ma non emanato), il decreto legislativo attuativo, la contrattazione collettiva di categoria, la contrattazione collettiva aziendale e, da ultimo, il contratto individuale di lavoro.
 
Restano infine sullo sfondo i dubbi legati alla compatibilità della nuova disciplina della tipologia contrattuale con il diritto dell’Unione europea. Rimosso l’obbligo di motivazione delle ragioni obiettive alla base della apposizione del termine al contratto, infatti, la nuova disciplina del lavoro a termine pone dubbi di incompatibilità rispetto ai contenuti dell’accordo quadro europeo trasposto nella Direttiva 1999/70/CE. Vale allora la pena rileggere, seppur brevemente, l’attuale impianto normativo sul contratto a termine alla luce dei requisiti previsti dalla clausola 5 della direttiva per cui gli Stati membri sono chiamati ad introdurre una o più misure relative a:
 
a)  ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti o dei rapporti a termine;
 
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
 
c)  il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.
 
Pur ponendosi in una prospettiva di rispetto formale della disciplina comunitaria in materia, per la quale il contratto a termine comunque resta sempre una eccezione, il legislatore sembra di fatto “tradirla” con la modifica della precedente disciplina secondo cui l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato era consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro.
 
La piena liberalizzazione del ricorso al lavoro termine ha fatto venir meno compatibilità della normativa interna rispetto alla lettera a) dell’accordo quadro europeo in quanto si è scardinato un assestamento della disciplina in virtù della quale la legittimità della apposizione del termine era valida peraltro non soltanto in presenza di una attività definita, ex ante, “temporanea”, o “eccezionale”, o “straordinaria”, o “imprevedibile”, ma anche sulla base dei criteri di normalità tecnico-organizzativa (o per le ipotesi sostitutive), sulla base di criteri di ragionevolezza che scaturivano dalla combinazione tra la durata delle attività e le esigenze di carattere non permanente, ciò anche grazie al contributo della giurisprudenza[9].
 
Anche dopo le novità introdotte, dalla legge Fornero prima e dal Pacchetto Letta poi, il riferimento specifico alle esigenze ordinarie sembrava consentire di estendere il contratto a termine causale anche ad ipotesi per le quali, in passato, c’era qualche dubbio: ciò che contava, in ogni caso, era che il principio di ragionevolezza fosse sempre rispettato. Anche in ossequio alle prescrizioni della Direttiva 99/70/CE. Questo implicava la necessità di indicare le ragioni individuando, sulla base dei principi generali di correttezza e di lealtà che sovrintendono ogni rapporto di natura contrattuale, le esigenze specifiche che il datore di lavoro dovesse soddisfare attraverso il ricorso al lavoro a termine, anche con riferimento alle mansioni affidate. Le ragioni di carattere tecnico, produttivo ed organizzativo, andavano dunque verificate ex ante e dovevano rispondere a requisiti di oggettività, rispetto ai quali era sempre del datore di lavoro il necessario apprezzamento.
 
Il decreto legislativo n. 368 del 2001 non soddisfa neppure requisito previsto dalla lettera c) dell’accordo quadro europeo trasposto nella Direttiva 77/99/CE, posto che nulla prevede in ordine al numero dei rinnovi possibili del contratto a termine, ma fissa soltanto il limite massimo alla possibilità di proroga, nozione non certo assimilabile a quella di rinnovo: mentre la proroga del contratto consiste nel prolungamento dello stesso, ovvero del rinvio del termine stabilito inizialmente, il rinnovo si verifica quando, venuto a scadenza il primo contratto, se ne sottoscrive un altro.
 
La compatibilità della legislazione nazionale con la normativa europea dovrebbe invece essere garantita, rispetto al requisito di cui alla lettera b), dalla previsione del limite massimo del contratto a termine stabilito in 36 mesi, comprensivo di proroghe e rinnovi, fissato dal nuovo articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 368 del 2001 e dall’art. 5, comma 4-bis, dello stesso decreto legislativo. Proprio quest’ultima disposizione, tuttavia, potrebbe esporre il nuovo impianto normativo al giudizio di illegittimità da parte della Corte di Giustizia Europea là dove apre a possibili interventi della contrattazione collettiva volti a modificare o finanche a rimuovere il massimale di trentasei mesi. Nel disciplinare la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato in caso di supero dei trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi, infatti, la norma di legge fa salve «diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale». L’inciso sulla contrattazione può aprire a diverse soluzioni, alcune compatibili con la direttiva altre meno. Per esempio, la contrattazione potrebbe prevedere una durata iniziale del primo contratto superiore a trentasei mesi, oppure la sommatoria dei periodi di lavoro a termine con periodi di collaborazioni coordinate e continuative o in somministrazione. D’altro canto, invece, l’apertura alla contrattazione collettiva potrebbe dar luogo non solo all’innalzamento o all’abbassamento del massimale, quanto alla totale rimozione dello stesso. Nonostante tale ultima prospettiva sia altamente irrealistica, considerando il costo opportunità che implicherebbe sul piano della dinamica negoziale, è sufficiente che la rimozione del vincolo sia anche solo potenziale a mettere in discussione la compatibilità del nuovo equilibrio normativo rispetto al diritto della Unione Europea.
 
 
4.    Nota bibliografica ragionata
 
Per una ricostruzione in chiave critica, della evoluzione normativa e giurisprudenziale della disciplina del contratto a termine si veda G. Zilio Grandi, M. Sferrazza, In attesa della nuova riforma: una rilettura del lavoro a termine, ADAPT University Press, 2013.
 
Sulla rimessione alla contrattazione collettiva del potere di individuare ulteriori ipotesi di utilizzo del contratto a termine, in base all’art. 23 della l. 28 febbraio 1987, n. 56, si veda in senso restrittivo G. Pera, Compendio di diritto del lavoro, Giuffrè, 1997, 121; nonché L. Menghini, Sperimentazione o svolta nella disciplina del lavoro a termine, in RIDL, 1987, I, 569. In senso contrario e più ampio M. D’Antona, I contratti a termine, in Aa.Vv., Il diritto del lavoro degli anni 80, ESI, 1988, 111; M. Roccella, Dagli ultimi accordi collettivi novità per il lavoro a termine, in DPL, 1990, 73; F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Il rapporto di lavoro subordinato, Utet, 1997; R. Cosio, I contratti a termine tra flessibilità amministrate e flessibilità contrattate, in RGL, 1990, II, 502. Sul rinvio al sindacato maggiormente rappresentativo si veda F. Scarpelli, Lavoro subordinato e autonomia collettiva, Giuffrè, 1993. Sulla liberalizzazione della stipula di contratti di lavoro a termine, avutasi con la legge del 1987, si veda E. Ghera, Diritto del lavoro, Cacucci, 1997, 434, contra L. Menghini, Il Lavoro a termine, in P. Rescigno (diretto da), Trattato di diritto privato, Aggiornamento, Utet, 398.
 
Sulla disciplina del lavoro a termine introdotta dal d.lgs. n. 368/2001, di attuazione della direttiva 1999/70/CE, si vedano M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Giuffrè, 2002; A. Garilli, M. Napoli (a cura di), Il lavoro a termine in Italia e in Europa, Giappichelli, 2003; L. Menghini (a cura di), La nuova disciplina del lavoro a termine, Ipsoa, 2001; G. Perone (a cura di), Il contratto di lavoro a tempo determinato nel d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Giappichelli, 2002; A. Vallebona, C. Pisani, Il nuovo lavoro a termine, Cedam, 2001. In particolare, per un bilancio sulla prima fase di applicazione del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, cfr., per tutti, L. Montuschi, Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in DRI, 2006, n. 1, 109-129, cui adde le opinioni raccolte nel supplemento di GLav, 2006, n. 1, A. Vallebona (a cura di), Colloqui giuridici sul lavoro; nonché M. Tiraboschi, La recente evoluzione della disciplina in materia di lavoro a termine: osservazioni sul caso italiano in una prospettiva europea e comparata, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Giuffrè, 2002, 41 ss. e M. Tiraboschi, Apposizione del termine, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine, Giuffrè, 2002, 106.
 
Sulle novità introdotte dalla l. 28 giugno 2012, n. 92 si vedano D. Costa, M. Tiraboschi, La riforma del contratto a tempo determinato, in M. Magnani, M. Tiraboschi (a cura di), La nuova riforma del lavoro, Giuffrè, 2012, 97-108; P. Tosi, Il contratto a tempo determinato dopo la legge n. 92/2012, in DRI, 2012, 957; L. Menghini, Contratto a termine (art. 1, comma 9-13, l. n. 92/2012), in LG, 2012, 929; M. Brollo, Lavoro a tempo parziale dopo la l. n. 92/2012: meno flex, più security, in LG, 2012, 968.
 
Sulle novità introdotte dal dl n. 76/2013 si veda M. Giovannone, M. Tiraboschi, Il lavoro a termine nuovamente riformato, in M. Tiraboschi (a cura di), Il Lavoro Riformato, Giuffrè, Milano, 2013, 175-190.
 
Per un primo commento a caldo sulle novità del dl n. 34/2014, prima delle correzioni apportate dal ministero prima ancora della sua pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, si veda i contributi rispettivamente di Michele Tiraboschi e di Maria Giovannone in ?M. Tiraboschi (a cura di), Jobs Act. Le misure per favorire il rilancio dell’occupazione, riformare il mercato del lavoro e il sistema delle tutele, ADAPT University Press, 2014.
 
Maria Giovannone

Senior Research Fellow di ADAPT

@MariaGiovannone

 
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT
 
Paolo Tomassetti
ADAPT Research Fellow
@PaoloTomassetti
 
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*Il presente contributo è pubblicato in “Decreto-legge 20 marzo 2014, n. 34, Disposizioni urgenti per favorire il rilancio dell’occupazione e per la semplificazione degli adempimenti a carico delle imprese. Prime interpretazioni e valutazioni di sistema” a cura di Michele Tiraboschi, ADAPT Labour Studies ebook series n. 22



[1] Così pure Circolare n. 5/2014 della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.
 
[2] Artt. 63, 65, 66, Ccnl Terziario.
 
[3] Secondo una prima lettura della norma, il 20% andrebbe verificato di volta in volta al momento della decorrenza giuridica di ciascun contratto di lavoro. Cfr. Fondazione Studi, op cit.
 
[4] Sempre secondo una prima interpretazione fornita dalla Fondazione Studi, la definizione di “organico complessivo” si ritiene debba comprendere i solo contratti di natura subordinata e debba riguardare complessivamente tutte le tipologie contrattuali a tempo indeterminato (compreso i contratti intermittenti). Cfr. Fondazione Studi, op cit.
 
[5] Cfr. Cass. 21 maggio 2008, n. 12985, cui adde Cass. 26 luglio 2004, n. 14011, e ancora per la giurisprudenza di merito Trib. Bari 20 luglio 2010, n. 7423; Trib. Bolzano 20 aprile 2006; Trib. Bologna 7 febbraio 2006, n. 43; Trib. Firenze 11 luglio 2006.
 
[6] Sul tema si veda Cass. 21 maggio 2008, n. 12985.
 
[7] M. Biagi, La nuova disciplina del lavoro a termine: prima (controversa) tappa del processo di modernizzazione del mercato del lavoro italiano, in M. Biagi (a cura di), Il nuovo lavoro a termine. Commentario al d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, Giuffrè, 2002.
 
[8] M. Tiraboschi, L’articolo 8 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138: una prima attuazione dello “Statuto dei lavori” di Marco Biagi, DRI, I, 2012.
 
[9] Si vedano sul punto Cass. 18 novembre 2009, n. 24330; Cass. 24 maggio 2011, n. 11358; Cass. 16 febbraio 2010, n. 3598.
La disciplina del contratto a termine tra istanze di semplificazione e logiche di sistema
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