Jobs Act, la questione mediatica che non valeva una fiducia

Con un insolito cortocircuito istituzionale il Governo ha infine posto la questione di fiducia sul disegno di legge che delegherà il governo stesso ad adottare i provvedimenti di dettaglio del c.d. Jobs Act.
 
A questa scelta il governo sarebbe probabilmente giunto comunque, riconosciuto il rischio di dover ricorrere ai voti di Forza Italia per permettere il prosieguo del percorso di riforma del lavoro. La minoranza del partito di maggioranza (a questo tocca assistere nella congiuntura parlamentare) aveva infatti presentato 7 emendamenti al Senato, determinando l’incertezza dei numeri.
 
Tuttavia l’accelerazione impressa al percorso del Jobs Act, oggi aveva nelle intenzioni di Renzi un obiettivo prevalentemente comunicativo. Il premier aveva tanto sperato di poter portare il risultato dell’approvazione del Jobs Act al summit europeo sull’occupazione svoltosi parallelamente a Milano. La posta in gioco avrebbe dovuto essere la sua leadership interna, ed ora, con il semestre di presidenza Italiana, anche quella europea. Un passo in avanti per questa riforma del lavoro sarebbe stato comunque un atto in sè significativo, convincente. Non importa se si sarebbe trattato di un’approvazione parziale; non importa se i reali tempi di implementazione delle nuove regole si estenderanno comunque almeno fino alla primavera del 2015 (con innumerevoli sorprese possibili, incluso il ricorso alla Corte Costituzionale).
 
Non ha quindi potuto mascherare Renzi il fastidio nel dover ingoiare lo spigoloso rospo a cinque stelle che a colpi di contestazioni e ostruzionismo ha rimandato la votazione del Senato alla serata. “Sceneggiate!” ha sommessamente commentato il Presidente con imperfetto aplomb durante la conferenza stampa con i leader europei.
 
A ben vedere i risultati ottenuti da questo meeting sono stati alquanto modesti. I contenuti sono riassumibili aprossimativamente in una serie di dichiarazioni di intenti, mentre l’apprezzamento al Jobs Act italiano ha mantenuto toni tutto sommato tiepidi. Gli osservatori interni lo avevano già previsto (cfr. Di Vico): non sono questi i contesti che contano per l’economia di un Paese, nemmeno dal punto di vista dell’immagine.
 
La qualità della riforma in questione che gli conferiva un valore strategico nei confronti dell’Europa era la decisione nel perseguire la flessibilizzazione continuamente sollecitata dagli organismi economici comunitari. Si potrebbe quindi pensare che, se la questione  meramente comunicativa non valeva una fiducia, quella riformatrice era sufficiente a motivare la fretta del Governo.
 
E’ la giornata odierna ad imporre l’imperfetto, perché dopo l’ordine del giorno approvato in direzione del PD, il maxiemendamento interamente sostitutivo presentato oggi dal governo ha compiuto altri passi in direzione delle richieste della minoranza PD (si veda il tetto all’uso dei voucher e il mantenimento dei livelli retributivi per il demansionamento).
Ma di quale minoranza PD si tratta? Sostanzialmente quella dei c.d. giovani turchi, che risultano i più soddisfatti. Restano contrarie alla delega tutte le altre anime minoritarie del PD e non esulta il Nuovo Centro Destra che conoscendo cosa attenda la delega alla Camera avrebbe preferito un testo più esplicito, soprattutto in materia di licenziamenti.
 
La maggior parte dei temi che hanno composto il paniere informativo sul lavoro negli ultimi mesi rivelano ora invece un vuoto definitivo nel testo della delega. Non si legge qui di legge sulla rappresentanza, di contrattazione aziendale, figuriamoci di Statuto dei Lavoratori di cui si era giunti a parlare.
 
Nonostante la fiducia richiesta, il governo ha quindi scelto di perseguire la via della delega ampia, la cui genericità permetta di sfuggire a interventi netti alla Camera per giungere poi in sede di decretazione, dove nessuno potrà più opporsi.
Sinora però questa soluzione equilibrista ha scontentato tutti. Oggi anche lo stesso governo.
 
Francesco Nespoli
ADAPT Research Fellow
@FranzNespoli
 
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