Jobs Act e tutele crescenti: una comunicazione della riforma dal fiato corto

Tanto tuonò che piovve. I primi casi di licenziamento con il cosiddetto contratto a tutele crescenti che sono giunti alla attenzione dei media rischiano di fare scattare una molla che la strategia comunicativa del Jobs Act da parte del Governo Renzi ha contribuito a caricare progressivamente con la promessa della stabilità perduta del lavoro.

 

“Primo licenziato col jobs act: era stato assunto 8 mesi fa” (Messaggero Veneto); “Il Jobs Act ha il suo primo licenziato” (Il Manifesto); “Jobs act, ecco i primi licenziati a tutele crescenti” (Il fatto quotidiano); “I due volti del Jobs Act. Prima assunto e poi licenziato” (Il Tempo); “Primo assunto col Jobs Act e licenziato: “Altro che tutele crescenti” (La Repubblica). Sono gli ultimi titoli comparsi sui quotidiani italiani che riguardano la controversa vicenda della fase 2 del Jobs Act, della quale vale la pena ricapitolare brevemente alcuni passaggi fondamentali.

 

Il 28 febbraio 2014, di fronte al nuovo record della disoccupazione misurato dall’Istat, Renzi twitta: «La disoccupazione è al 12,9%. Cifra allucinante, la più alta da 35 anni. Ecco perché il primo provvedimento sarà il Jobs Act». Quasi un anno dopo, per Renzi l’Italia si trova di fronte al «giorno atteso da anni»: il 20 febbraio viene approvato il decreto che introduce le tutele crescenti nei casi di licenziamento illegittimo per i contratti a tempo indeterminato e viene presentato il decreto dedicato alla razionalizzazione delle altre tipologie contrattuali. L’effetto combinato è quello di una nuova rottamazione: il compimento di quella rivoluzione copernicana che per il Presidente del Consiglio consisteva nella fine della precarietà del lavoro.

 

Sarà così che si potranno raccontare le storie di giovani che migreranno da un regime di incertezza a uno di garanzie economiche, accesso a un mutuo e quindi sostenibilità progettuale di un futuro da padri e da madri. Lo scenario si completa con l’ulteriore leva della generosa e sicura decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato già avviata da gennaio con la legge di stabilità.

 

L’ottimismo aveva preso il sopravvento anche nelle imprese, alcune delle quali avevano individuato un’opportunità per il loro employer branding e avevano quindi cominciato ad annunciare importanti piani di espansione e relative assunzioni. Gli ultimi dati trimestrali dell’Istat (gli unici che valga la pena di considerare con una certo margine di sicurezza), ossia quelli del secondo trimestre 2015, mostrano però una crescita dell’occupazione dello 0,8% in un anno, con un andamento che rimane ancora negativo per i giovani tra 15 e 34 anni. Alla ricerca di comportamenti deprecabili da parte delle imprese, i media cominciano poi ad aprire il capitolo dei “furbetti del Jobs Act” del quale i due casi di licenziamento recentemente citati costituiscono la rappresentazione più plastica e attesa.

 

In questo ordine di avvenimenti si possono rinvenire le trame di due rovesciamenti. Il primo riguarda il Governo. Renzi a più riprese sceglie lo storytelling per dare un volto più concreto ai supposti effetti della sua tanto agognata riforma del lavoro. Si tratta però di un azzardo, perché chi di storie sa ferire, di storie può perire. Anche i licenziati con le (poche) tutele crescenti non sono numeri ma persone in carne ed ossa, e lo sa bene chi su tutti ha riportato la vicenda di una di loro con un’intervista, restituendone direttamente la voce.

 

La guerra di storie che si presenta si potrebbe inquadrare a sua volta in uno schema narrativo che è quello del grido “al lupo, al lupo”, ma al contrario. Come sottolineano tutti i rappresentati sindacali di Cisl, Uil e Cgil interpellati dai giornali, la vicenda dei primi licenziati rivela una realtà inversa a quella dipinta dal premier. A dispetto della vulgata, infatti, il contratto a tempo indeterminato risulta oggi più precario di uno a tempo determinato, quale che sia la sua tipologia, essendo in questi casi ben noto il termine e ristrette le possibilità di sciogliere anticipatamente il contratto.

 

Si tratta di un aspetto tecnico che forse al grande pubblico potrà continuare a essere celato. Il fenomeno dei tutelati-licenziati potrebbe però ampliarsi facilmente a sufficienza da condurre la narrazione renziana a un sonoro epic fail, almeno se non verranno prese contromisure comunicative. Infatti, giacché i fatti negativi fanno molto più facilmente breccia nelle menti delle persone rispetto alle pur frequenti good news, basterebbero poche ulteriori storie a far pendere al pessimismo la bilancia vista dal punto di vista dei lavoratori, i quali sono già inclini a ponderare con cautela il piatto delle tutele, avendo perso il contrappeso dell’articolo 18.

 

Quella governativa non è però l’unica strategia che deve affrontare un rischio di rovesciamento. Vero è che un uso fosse anche strumentale delle tutele crescenti come soluzione di flessibilità a convenienza datoriale sarebbe comunque meno discutibile della volontà politica che ne ha posto le condizioni. Vero è anche che il messaggio lanciato dal Governo non solletica la lungimiranza delle imprese: per parafrasare il celebre sillogismo di Maslow, se pensi che tutto quello che hai è una decontribuzione (e un licenziamento facile), ogni problema ti sembrerà un costo. Tuttavia anche il mondo dell’impresa rischia di non fare una bella figura. Se le classe dirigente infatti non risiede solo nelle stanze della politica, l’imprenditoria italiana resta facilmente disarmata di fronte a chi oggi la accusa di astigmatismo progettuale per non aver sollecitato il Governo ad adottare misure che davvero potessero rilanciare l’economia, come previsto dall’idea dei piani industriali contenuti originariamente nello schema del Jobs Act lanciato da Renzi nel gennaio 2014.

 

Dopo aver promesso assunzioni e stabilizzazioni, ora che l’occupazione non è ripartita con lo slancio prefigurato, l’immagine dell’imprenditoria italiana sconta il fatto di essersi dimostrata compiaciuta da un Jobs Act che “realizza tutti i suoi sogni”. Delizia, ma ora anche croce, per il Governo.

 

 

Francesco Nespoli

Scuola di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Bergamo

@franznespoli

 

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