Inclusione. Chi ha paura di un asterisco?*

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Bollettino ADAPT 10 gennaio 2022, n. 1
 
Perché l’Ateneo di Udine, (non oggi, ma già) nel 2020, ha usato lo slogan dell’Università inclusiva? L’inclusione è una delle principali sfide della società contemporanea. Ed è figlia della crescente complessità e del cambiamento economico-sociale e culturale, accelerato dalla pandemia.
 
Ha ragione chi critica l’uso di questa parola, perché ci ricorda che esiste pur sempre un ordine precostituito a cui “adeguarsi”. Tuttavia, è utile e opportuno ricorrervi perché serve a farci vedere che c’è un dentro e un fuori. O meglio chi sta dentro e chi sta fuori dal recinto dello Stato di diritto e dello Stato sociale. Ci aiuta in altri termini a considerare i privilegi (che non vediamo) e le ingiustizie (che osserviamo quotidianamente). Non solo, la parola inclusione intende dire di più: coltiva una nuova visione di futuro in cui le differenze possono essere considerate come risorse, come valore, come ricchezza; non come problema da gestire.
 
Il potenziamento e la promozione dell’inclusione sociale, economica e politica a prescindere da ogni caratteristica o condizione personale svetta tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile individuati nell’Agenda 2030 dell’Onu (Ob. 10.2). A causa della pandemia, (proprio) nel 2020, per la prima volta l’intera Unione europea ha registrato un rallentamento nell’attuazione di questi obiettivi. Come risulta dalla terza edizione, appena pubblicata, del rapporto di Sdsn Europe e dell’Institute for European Environmental Policy.
 
Di inclusione sociale e territoriale ci parla anche il Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza (PNRR). Qui non si tratta soltanto di superare le ingiustizie che affliggono tante e tanti. Qui l’obiettivo è la crescita, evitando lo spreco di risorse e talenti per la collettività. In un’economia sempre più complessa e globale, l’inclusione delle diversità è ormai riconosciuta come elemento determinante e fortemente propulsivo.
 
Per questo gli studi sociali da tempo si dedicano al tema dell’“inclusione negli ambienti di lavoro”: sono i luoghi in cui si concentra maggiormente la promozione dell’integrazione. E si testa il valore innovativo e creativo dell’inclusione delle diversità. La diversità come qualcosa che tutti hanno in qualche modo e non devono aspettare che altri li accettino. Da friulana, mi permetto di ricordare che diverse sono anche le periferie e le autonomie dei territori, le lingue e le identità.
 
Ma tutto questo interesse per l’inclusione nasce ai nostri giorni, solo perché c’è l’Agenda 2030 o il PNRR? Nient’affatto. L’interesse per il tema si deve in primo luogo alle profonde trasformazioni del tessuto economico-sociale che hanno caratterizzato il nostro Paese negli ultimi cinquanta anni. Occorre prendere atto che non ci troviamo più a vivere in una società omogenea, bensì caratterizzata da profonde diversità di ogni tipo. Si tratta di una realtà complessa, che presenta problemi (oltre che opportunità) completamente nuovi per i quali c’è bisogno di risposte articolate. L’orizzonte di tali risposte è evidente. Ce lo ricorda (e ce lo impone) la nostra Costituzione: la tutela della dignità della persona nella sua integralità.
 
L’ambiente del lavoro è specchio della società e delle sue dinamiche: sia quelle positive sia quelle negative. Non è perciò strano che la pandemia abbia accelerato le trasformazioni del mondo del lavoro e, allo stesso tempo, acuito le diseguaglianze. Escludendo ancora di più coloro che già erano svantaggiati nel mercato e fragili nel rapporto di lavoro.  Il mondo del lavoro è, in sintesi, una efficace cartina al tornasole dei mutamenti sociali. Il datore di lavoro, quindi, deve far coesistere le differenze che caratterizzano la sua azienda, valorizzandole. In modo che esse possano divenire punti di forza: a vantaggio sia del benessere dei lavoratori, sia della produttività dell’impresa, quale volano di ricchezza per l’intera collettività.
 
Spesso ci si dimentica che anche l’Università, prima che un’istituzione culturale è un luogo di lavoro. È in questa sua doppia veste che non si può esimere dall’affrontare il quadro che abbiamo appena tratteggiato. L’Università deve saper (e insegnare a) includere, andando oltre il già dato, aprendosi al futuro e proponendo meditate innovazioni, anche sul piano linguistico.

Chiunque abbia una conoscenza della letteratura sul tema sa bene che l’uso del maschile plurale non è (più) considerato da tutte e tutti come inclusivo. L’Accademia della Crusca ha molto discusso il tema, anche con riferimento all’asterisco e alla schwa. Segni, questi, usati per sostituire l’uso di maschile e femminile nel testo scritto, soprattutto ove la comunicazione intenda attirare l’attenzione e necessiti di brevità (https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/un-asterisco-sul-genere/4018).
 
Senza entrare nel dibattito dei linguisti, ma rinviando ai migliori scritti per un uso non sessista della lingua italiana, sorge una domanda. Quali siano le proposte di chi contesta l’uso di queste innovazioni il cui unico scopo è costruire un ambiente di studio, di lavoro, di vita migliori. In poche parole, chi ha paura di un asterisco o di qualsiasi altro modo per segnalare, graficamente, il rispetto di ogni persona? Forse chi l’inclusione non la vuole, né nelle parole, né nei fatti.

Invece le imprese friulane, da tempo, collaborano con l’ateneo sul tema dell’inclusione e delle differenze. E praticano questa nuova visione che serve non solo ai diritti, ma anche allo sviluppo economico e civile del nostro territorio.

 
Marina Brollo

Ordinaria di diritto del lavoro

Università degli Studi di Udine

@MarinaBrollo

 
*Pubblicato anche su Il Messaggero Veneto, 22 dicembre 2021
 

Inclusione. Chi ha paura di un asterisco?*