Il lavoro tramite piattaforma sarà autonomo ex lege?

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Finalmente, anche in Italia si parla concretamente di disciplina del lavoro tramite piattaforme digitali. Il merito è della proposta di legge Disposizioni in materia di lavoro autonomo mediante piattaforma digitale che vede il Prof. Ichino quale primo firmatario. A dire il vero, in Parlamento giace presso la Camera dei Deputati la proposta di legge n. 3564/2016 (presentata nel gennaio 2016 ed esaminata, da ultimo, in Commissione, nel gennaio 2017, qui il testo presentato) relativa alla Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione, primo tentativo nostrano di disciplinare il fenomeno dei rapporti resi possibili tramite piattaforme digitali. I due fenomeni di cui sopra, però, come emerge anche dalla lettura del titolo delle norme, sono solo apparentemente riconducibili alla medesima categoria di prestazioni. Quest’ultimo progetto di legge, almeno formalmente, si occupa infatti delle prestazioni lavorative nell’ottica della economia collaborativa, tanto è vero che l’obiettivo primario della proposta sembra essere quello di regolamentare le piattaforme digitali (attraverso la introduzione di un registro elettronico, dell’obbligo di implementazione di specifiche policies, di una specifica tassazione e di un sistema di monitoraggio), tanto è vero che la tutela del lavoratore risulta essere invero assai minimale, considerata la semplice introduzione di una presunzione di abuso di dipendenza economica, la cui sola conseguenza, però, determina la applicazione del regime di tutele previsto dalla legge n. 192/1998 in tema di subfornitura (sulla mancata disciplina del lavoro tramite piattaforma cfr., in questo senso, anche le riflessioni di Emanuele Dagnino Proposta di legge sulla sharing economy: il grande assente è il  ‘lavoratore’”. Di tutt’altra fattura è, invece, la proposta Ichino, incentrata sulla qualificazione del rapporto e sugli aspetti connesi alla tutela, anche economica, del lavoratore che presta i propri servizi tramite le piattaforme digitali.

 

A caldo, si formulano quindi alcune osservazioni su tale testo, partendo dalla lettura dello stesso e da uno dei primi commenti, di Emanuele Dagnino, al quale si rimanda per specifiche di dettaglio sulla normativa (cfr. l’articolo di quest’ultimo “La regolazione giuridica del lavoro su piattaforma: una breve nota critica alla proposta Ichino”, su questo sito).

 

Anzitutto, la disciplina viene calata all’interno del c.d. Statuto del lavoro autonomo (d.lgs. n. 81/2017) attraverso l’aggiunta degli artt. 17-bis e ss., coerentemente con la proposta di qualificare ex lege tali rapporti come di lavoro autonomo. Sul punto, al netto delle criticità “storiche” in merito alla legittima qualificazione del rapporto come autonomo da parte del legislatore a prescindere dalle modalità concrete di svolgimento del rapporto, si ritiene che la soluzione proposta possa risultare sostanzialmente condivisibile nella misura in cui questa si applichi, come certamente è, alle piattaforme di c.d. crowdworking. Tali piattaforme si sono sviluppate negli ultimi anni in particolar modo nei paesi anglosassoni ed in specie negli Stati Uniti e consistono nell’agevolare l’incontro tra domanda di prestazioni di servizi da parte di un committente ed offerta degli stessi da parte di lavoratori, il tutto tramite iscrizione delle parti ad una piattaforma digitale. Tale tipologia ha la caratteristica per cui, in linea generale, l’offerta si rivolge ad un numero potenzialmente indeterminato di lavoratori (ossia tutti coloro iscritti alla piattaforma con determinate caratteristiche) da un lato e, dall’altro, che il lavoratore, nel corso del tempo, eseguirà una molteplicitità di servizi per conto di una pluralità di committenti; nel crowdworking, dunque, appare eventuale o comunque marginale lo svolgimento di attività in regime di monocommittenza. Esemplificando: un lavoratore interessato a svolgere attività di caricamento dati su di un database o che offre servizi di traduzione potrebbe operare nel corso del tempo più volte in favore dello stesso committente ma, naturalmente, sarà portato ad operare in favore di una pluralità di soggetti. La norma, però, qualifica come lavoro autonomo anche il lavoro tramite piattaforma svolto in favore di un solo committente. E qui che, inevitabilmente, le criticità in favore della opzione legislativa nel senso del rapporto di lavoro autonomo si addensano. Inoltre, non sembra esservi dubbio che, nelle intenzioni dei proponenti, la disciplina risulterà applicabile anche alle ipotesi in cui la piattaforma digitale sia riferibile al committente della prestazione di lavoro e coincida con la sua stessa organizzazione aziendale. In questo senso, infatti, lo stesso Prof. Ichino che chiarisce che la proposta di legge èun modo per consentire anche ai lavoratori autonomi “di seconda generazione” – dai fattorini di Deliveroo ai giornalisti free-lance di cui parla Marco Ruffolo oggi su la Repubblica – di godere della tutela previdenziale essenziale, di un minimo di sicurezza mutualistica della continuità del reddito e di uno standard retributivo minimo universale”).

 

In questa sede si osserva che sussiste una sostanziale differenza, che probabilmente meriterebbe una diversa disciplina, tra le piattaforme di crowdworking che favoriscono l’incontro tra domanda ed offerta di servizi e le piattaforme che sono attribuibili al committente del servizio che è anche una delle due parti del rapporto di lavoro. Infatti, mentre nel primo caso, si tratta di vere e prestazioni di servizio tra due soggetti, nel secondo caso, per esempio nella citata ipotesi di Deliveroo, il cliente è un consumatore che non richiede un servizio ma acquista un pasto, di cui il servizio di consegna è elemento insito nel “pacchetto” ma meramente accessorio e strumentale alla vendita. La prestazione di servizio di consegna è invece oggetto di un contratto tra il titolare del ristorante e la piattaforma, la quale realizza il servizio tramite operatori. Tanto è vero che, attualmente, le aziende che operano nel settore sono remunerate dal ristorante di una somma tale che dovrebbe consentire alla piattaforma stessa, per la sostenibilità stessa del business nel lungo periodo, di remunerare l’attività dei collaboratori, garantendo al contempo un margine per il rischio di impresa assunto. Tra l’altro, e sempre per restare in tema, lo stretto collegamento tra piattaforma e lavoratore è ben chiaro anche dall’utilizzo degli stessi di una “pettorina” o strumenti di lavoro riferibili alla stessa piattaforma (come il porta pizza), elementi che, ben difficilmente, il gestore del servizio (per esigenze di pubblicità piuttosto che di immediata riconoscibilità del fattorino, in primis in favore dell’esercente che usufruire della piattaforma) avrebbe interesse a far venir meno anche laddove si trovasse ad applicare la nuova disciplina legislativa. In ogni caso, la copertura normativa di siffatte piattaforme porterebbe ad un bivio: o si ammette la legittimità di piattaforme che sono al tempo stesso committenti, con il summenzionato rischio di qualificare tale specifico rapporto di lavoro come autonomo ex lege; oppure, si dovrebbe ritenere che è l’utente finale/consumatore, in quanto committente del servizio di consegna, nel caso di lavoratore sprovvisto di umbrella company, ad essere onerato di seguire la modalità di pagamento del compenso al lavoratore tramite la piattaforma Inps, tecnicalità evidentemente totalmente impraticabile e paradossale.

 

Un secondo aspetto trattato dalla normativa è quello relativo alle umbrella company (art. 17-ter). Sul punto si limita ad osservare che l’utilizzo di tali soggetti, meramente eventuale, determina un costo del servizio di gestione “amministrativa” che non è (ne potrebbe) essere determinato per legge ma che certamente costituisce un elemento negativo per il lavoratore che potrebbe essere tutt’altro che irrilevante (e su tale aspetto solamente l’applicazione pratica ci potrà dire la sua incidenza sul guadagno generato dal lavoratore).

 

Infine, diversi sono gli aspetti previsti all’art. 17-quater che, ad avviso del sottoscritto, meritano riflessione. Il comma 1 dell’art. 17-quater si occupa di stabilire la disciplina in tema di modalità di erogazione del corrispettivo al lavoratore che non opera sotto la copertura di una umbrella company, prevedendo l’utilizzo della piattaforma Inps prevista dall’art. 54-bis decreto-legge n. 50/2017 (convertito con legge n. 96/2017) per i “nuovi” libretto famiglia e prestazioni autonome occasionali. Premettendo che tale doppio binario di modalità di pagamento (ossia quello attraverso umbrella company o piattaforma Inps) potrebbe creare problematiche di carattere amministrativo e gestionale in capo ai committenti che, in base alle qualità soggettive del prestatore dovrà adottare un diverso sistema di pagamento a fronte di due identiche prestazioni, si evidenzia come tale comma faccia riferimento esclusivamente alla modalità di erogazione. Non dovrebbero pertanto trovare applicazione, tra l’altro ed in particolare, i vari limiti economici presenti all’interno del summenzionato art. 54-bis.

 

La mancanza di limiti economici, unitamente all’ipotesi per cui il lavoratore si possa trovare ad operare in via esclusiva tramite una o più piattaforme, potrebbe poi indurci a chiedere se, nel caso di svolgimento delle attività in regime di abitualità e professionalità, il prestatore di lavoro medesimo non debba essere tenuto ad aprire la partita IVA oppure se la norma costituisca una sorta di eccezione rispetto alla disciplina ordinaria. Per quanto riguarda, invece la disciplina relativa al comma 2 che concerne la determinazione per via ministeriale di un compenso minimo orario, al netto delle problematiche sottese alla possibilità per il legislatore di intervenire sul punto (trattandosi di lavoratori definiti come formalmente autonomi) appare chiaro il segno di attenzione al punto cruciale della “retribuzione”. Con la consapevolezza, però, che qualsiasi legislazione nazionale potrebbe rivelarsi insufficiente in mancanza di prese di posizione non solo a livello europeo ma anche internazionale posto che le piattaforme digitali consentono anche lo svolgimento di attività lavorative esclusivamente da remoto e da paesi con un basso costo della vita e, conseguentemente, del lavoro. In chiusura, si segnala che non appare chiaro se il summenzionato comma 2 (e dunque la determinazione del compenso minimo) ed il successivo comma 3 (contenente la disciplina che chiarisce l’esenzione dei compensi da ritenuta d’acconto) siano applicabili ai soli rapporti posti in essere con pagamento tramite la piattaforma Inps (e dunque senza umbrella company), come appare dalla circostanza per cui la disciplina è contenuta all’interno dell’art. 17-quater, oppure alla generalità delle prestazioni di lavoro autonomo eseguite tramite piattaforma digitale, come sembrerebbe suggerire una valutazione sistematica della disposto normativo, nel qual caso potrebbe essere opportuna l’introduzione di un successivo art. 17-quinquies all’uopo dedicato.

 

In definitiva, il merito della proposta qui in commento è certamente quello di aver portato il dibattito, al quale si vuole contribuire il presente intervento, dalla teoria alla pratica, con la messa in campo di soluzioni interessanti ed innovative che necessariamente tentano di rispondere alle mutate esigenze del lavoro e della tutela dei lavoratori.

 

Gabriele Bubola

Commissione di certificazione Centro Studi DEAL,

Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

@gbubola

 

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