EPSU v. Commissione, fra discrezionalità e diritti d’informazione e consultazione

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Bollettino ADAPT 13 settembre 2021, n. 31

 

Il diritto dei lavoratori e dei propri rappresentanti all’informazione, alla consultazione ed alla partecipazione sono riconosciuti e garantiti dall’Unione europea allo scopo di raggiungere gli obiettivi primari della politica sociale comunitaria. Diverse sono le norme che identificano tali principi, fra le quali possiamo ricordare l’articolo 27 della Carta Fondamentale dei diritti dell’UE, che recita come ”Ai lavoratori o ai loro rappresentanti devono essere garantite, ai livelli appropriati, l’informazione e la consultazione in tempo utile nei casi e alle condizioni previsti dal diritto comunitario e dalle legislazioni e prassi nazionali”, disciplina poi recepita dall’articolo 21 della Carta sociale europea che riporta come “I lavoratori hanno diritto all’informazione ed alla consultazione in seno all’impresa”, e ancora da diverse previsioni settoriali come la Carta dell’unione sui diritti dei lavoratori ai punti 17 e 18, che riconoscono l’importanza della realizzazione tempestiva di tali forme di partecipazione nei casi di mutamenti nell’impresa aventi incidenze notevoli per i lavoratori in ordine alle condizioni di lavoro e all’organizzazione, o in occasione di ristrutturazioni o fusioni che possano avere ripercussioni nelle politiche occupazionali.

 

Apparentemente il panorama normativo europeo si presenta come un quadro di riconoscimento dei diritti di informazione e consultazione del lavoratore tout court a promozione di una politica partecipata e dialogata del mondo del lavoro ed a sostegno della politica sociale comunitaria.

 

Con una più attenta lettura si denota, però, un necessario approfondimento delle norme, da cui derivano i contrasti fra le parti della Causa C-928/19, EPSU/Commissione. La sentenza della Corte di giustizia dell’Unione Europea del 2 settembre 2021 si pone a valle di una lunga vicenda processuale sorta nelle aule del Tribunale dell’Unione europea nel 2019, ma con origini ben più risalenti.

 

Nell’aprile 2015 la Commissione avvia una consultazione con le parti sociali sulla possibilità di estendere alcune direttive in materia di informazione e consultazione dei lavoratori ai funzionari ed ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni degli Stati membri.

Pochi mesi dopo, la Trade Unions’ National and European Administration Delegation – TUNED e gli European Public Administration Employers – EUPAE, aderiscono alla negoziazione di tale accordo e, in un breve volgere di tempo, concludono un’intesa, oggetto della sentenza, sulla consultazione e l’informazione dei funzionari pubblici e dei dipendenti delle amministrazioni nazionali. Nel giugno 2018 richiedono alla Commissione, sulla base dell’articolo 155, paragrafo 2, TFUE, di dare attuazione alla stessa a livello UE. Tale petizione viene però respinta.

 

Due mesi più tardi, la European Public Service Union – EPSU, associazione che riunisce i sindacati europei dei lavoratori dei servizi pubblici, impugna la decisione dinanzi al Tribunale dell’Unione europea, chiedendone il contestuale annullamento. Le motivazioni a sostegno sono duplici: da una parte, motivando secondo errore di diritto, la Commissione avrebbe erroneamente interpretato la propria estensione di potere decidendo per il rifiuto di presentare al Consiglio la proposta di decisione per l’attuazione dell’accordo in questione; in aggiunta, la motivazione addotta per il rifiuto sarebbe stata insufficiente e manifestamente erronea.

 

Se interessanti sono le argomentazioni a supporto della decisione del Tribunale poi sostanzialmente recepite e ampliate dalla Corte, sulla base delle quali il ricorso dei ricorrenti è stato integralmente respinto, ancor di più lo sono i motivi di ricorso, affrontati, vagliati ed argomentati dai giudici in senso sistematico, teleologico e letterale.

 

La disamina svolta parte proprio dal dato testuale della norma europea controversa, ed in particolare dell’articolo 155, paragrafo 2, TFUE, che recita “2. Gli accordi conclusi a livello dell’Unione sono attuati secondo le procedure e le prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o, nell’ambito dei settori contemplati dall’articolo 153, e a richiesta congiunta delle parti firmatarie, in base ad una decisione del Consiglio su proposta della Commissione. Il Parlamento europeo è informato”.

 

In prima battuta, emerge quindi come un accordo conclusosi fra le parti sociali a livello comunitario possa essere attuato secondo due modalità: secondo le procedure e prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri o, nell’alveo dei settori delineati dall’articolo 153, TFUE, tramite un atto dell’Unione secondo una procedura definita dallo stesso Trattato. Tale iter viene delineato dallo stesso articolo 155, paragrafo 2, ovvero su richiesta congiunta delle parti firmatarie, tramite presentazione di proposta di decisione della Commissione al Consiglio.

Qual è dunque il punto critico? L’articolo non precisa, almeno non esplicitamente, se vi sia un obbligo per la Commissione di presentare la suddetta proposta al Consiglio, dopo aver ricevuto richiesta dalle parti sociali.

 

Ed è questo vuoto, riempito dalle diverse interpretazioni delle parti, l’origine della controversia: da un lato i ricorrenti che sostengono come i termini “shall be implemented” e “intervient” impiegati, rispettivamente, nella versione inglese e francese dell’articolo 155, facciano sorgere l’obbligo di agire per la Commissione. L’argomentazione di EPSU si poggia sulla genesi dell’articolo stesso che prevedeva, in origine, un’oggettiva discrezionalità per la Commissione nella decisione di presentare la proposta. Proprio il “cambiamento letterale” intervenuto nella norma (da “[the] agreements (…) may be realized” e “la mise en œuvre des accords (…) interviendra” verbi dunque modali o al tempo futuro, sino a formulazioni all’indicativo, “intervient” e “shall be implemented”), sostengono i ricorrenti, deve far propendere per un vincolo imposto; dall’altro la Commissione, “sostenuta” nella propria posizione dalle stesse argomentazioni del Tribunale. Infatti, ricorda il Tribunale, se è pur vero che ora si può riconoscere una formulazione imperativa nella norma, tale enunciazione è comparsa nel momento di redazione dell’accordo sulla politica sociale, dunque quando le due procedure di attuazione degli accordi conclusi dalle parti sociali sono state riunite nel medesimo paragrafo.

 

In aggiunta, se l’articolo avesse tenore imperativo ne deriverebbe, in seguito alla presentazione di una richiesta di attuazione di un accordo a livello comunitario delle parti sociali, sia un obbligo di accoglimento di tale proposta per la Commissione, sia per il Consiglio un’adozione della stessa.

 

In primo luogo, il Tribunale e la stessa Corte di Giustizia dell’Unione europea hanno chiarito che ben sussistono circostanze escludenti in cui la Commissione è legittimata a non presentare una proposta al Consiglio, ossia in caso di mancanza di rappresentatività delle parti sociali firmatarie dell’accordo in questione o di illegittimità delle stesse clausole; in secondo luogo, per quanto riguarda il Consiglio, ammettere l’interpretazione letterale dei ricorrenti, priverebbe lo stesso del proprio margine di discrezionalità nel decidere se adottare o meno una decisione relativa all’attuazione di un accordo.

 

Guardando poi alla stessa procedura, bisogna ricordare come l’iniziativa, la fase negoziale e la conclusione dell’accordo siano di stretta pertinenza delle sole parti sociali interessate; resta la possibilità di agire per richiederne l’attuazione a livello comunitario. Alle parti sociali non viene dunque riconosciuto né il potere di adottare esse stesse atti che producono effetti giuridici obbligatori nei confronti della Commissione, né quello di presentare direttamente al Consiglio una proposta di decisione che attui un accordo. Il potere della Commissione si dispiega, dunque, una volta definito e risolto l’accordo stesso, secondo i principi definiti dall’Articolo 17 TUE, che afferma la sua piena indipendenza nell’esercizio delle sue responsabilità, in particolare di promozione dell’interesse generale dell’Unione.

 

Aggiunge la Corte di giustizia dell’Unione europea, come nulla faccia intendere per l’interpretazione di lex specialis affidata da EPSU all’articolo 155 TFUE rispetto all’articolo 17, che assegna invece alla Commissione l’importante ruolo di valutazione di opportunità. Come infatti ben espresso dai giudici, l’argomentare diversamente, cioè per un obbligo di presentazione della proposta da parte della Corte, non solamente metterebbe in discussione l’equilibrio dei poteri affidati alle diverse istituzioni europee e rischierebbe di ostacolare l’obiettivo e la finalità della Commissione stessa di promuovere “l’interesse generale dell’Unione europea”, ma ancor più finirebbe per far prevalere gli interessi delle parti sociali firmatarie dell’accordo al di sopra dell’interesse generale dell’Unione, di cui la Commissione è garante.

 

I giudici riconoscono infatti la titolarità della Commissione a valutare non solo della legittimità dell’accordo ma anche dell’opportunità dello stesso, in considerazione di apprezzamenti di ordine politico, economico e sociale; aggiungono invece i ricorrenti come non solo fosse difficilmente riconoscibile un margine di discrezionalità nel potere della Commissione, ma in aggiunta come il rigetto sia stato comunque errato sulla base delle motivazioni di merito indicate.

 

Motivi che vertono su tre ordini di argomentazioni che si possono riassumere nella specificità del carattere e delle prerogative delle pubbliche amministrazioni di ciascuno stato membro, viste anche le previsioni in numerose normative nazionali di disposizioni sull’informazione e consultazione per i funzionari e i dipendenti pubblici, pertanto che qualsiasi decisione del Consiglio che attui l’Accordo avrebbe applicazione ed effetti differenti. Il nodo, il punto determinante non era quindi il “se” fosse possibile una proposta della Commissione, quanto “se fosse opportuna”, dato il panorama su cui era doveroso svolgere valutazioni e su cui necessariamente si sarebbero riversati gli effetti decisionali.

 

Ed è questa tipologia di valutazione posta in essere, discrezionale ed avente ad oggetto interessi divergenti e decisioni che implicano considerazioni di ordine politico, economico e sociale, che pone i limiti al controllo giurisdizionale.

 

Per quanto, dunque, le argomentazioni del rigetto di ricorso ed impugnazione del Tribunale e poi della Corte siano legittime, si comprende il disappunto delle parti sociali, tanto più che ancora nessuna delle direttive relative al diritto dei lavoratori ad essere informati e consultati si applica ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

 

Come è stata recepita la sentenza? Leggiamo dal comunicato apparso nel sito di EPSU le parole “sentenza dannosa” pervenendo infatti, secondo la Union ad un duplice, disastroso, risultato finale: il diniego a quasi dieci milioni di dipendenti pubblici e dipendenti delle pubbliche amministrazioni della stessa protezione giuridica nell’UE dei diritti di informazione e consultazione degli altri lavoratori; la discussione dell’autonomia delle parti sociali e l’incertezza giuridica riguardo gli accordi futuri.

 

Lo stesso principio 8 del pilastro europeo dei diritti sociali conferma l’importanza e la centralità del dialogo sociale e del coinvolgimento dei lavoratori: se esso si conferma come componente fondamentale del modello sociale europeo, in quanto consente a rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori di contribuire attivamente alla definizione della politica europea in materia sociale e occupazionale, deve essere concretizzato mediante la collaborazione di tutti gli enti in causa, comprese le istituzioni che debbono darvi attuazione. Tanto più che fra i motivi di doglianza di EPSU è stata dedotta una violazione del “legittimo affidamento”: se guardando allo stretto nucleo dei fatti di causa, la Corte sottolinea come in mancanza di un impegno esplicito e univoco da parte della Commissione, non si può ritenere che la Commissione si sia autolimitata nell’esercizio della competenza in questione, tanto più che detto potere sia espressione di una disposizione di diritto primario (in altre parole, solo a determinate ed esplicite condizioni, la Commissione può trasformare la competenza discrezionale in competenza vincolata, ma sempre per esplicito indirizzo della stessa istituzione), si comprende, d’altro canto, come in temi di primaria importanza fra i quali può essere ascritto il dialogo sociale europeo, le parti sociali ben possano aspirare ad una maggiore collaborazione e relazione con le istituzioni europee.

 

Se effettivamente l’obiettivo da perseguire è ben chiaro e condiviso per tutti, l’iter per raggiungerlo sembra essere un compromesso tra rigore e adattabilità, un’associazione fra discrezionalità istituzionale europea, votata ai più alti obiettivi politici, economici e sociali, e le specificità di ciascuna realtà che si interfaccia con essa. Il dialogo sociale, ma più in generale una co-partecipazione a temi di così alto spessore ed impatto, non solamente contribuisce a rispondere alle reali esigenze delle parti sociali nonché dei sistemi di governance nazionali e sovranazionali, ma arricchisce il clima di fiducia e stima reciproco delle parti, al fine di massimizzare i possibili benefici che possano derivare dall’incontro dei diversi interessi in gioco.

 

Sara Prosdocimi

ADAPT Junior Fellow

@ProsdocimiSara

 

 

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