Donne e politica: una democrazia a metà?

Il dibattito relativo alla presenza delle donne in politica è sempre più attuale. Al fine di analizzare tale questione, che richiede interventi concreti ma anche un vero e proprio cambiamento di mentalità e cultura, è bene partire da una premessa. In molti Stati, tra cui l ‘Italia, le donne hanno acquisito i diritti politici solamente nel corso del XX secolo. Ciò nonostante, tale riconoscimento appare più di forma che di sostanza, visto il perdurare in molti contesti della rappresentazione mentale secondo cui la politica non è “un affare da donne”.
 
Si consideri che la sotto-rappresentanza politica delle donne è un problema globale. La percentuale media mondiale dei membri donna nelle legislature nazionali si ferma infatti solo al 19%. Focalizzando l ‘attenzione sulla situazione nei principali Paesi dell’Unione Europea, la composizione di genere nelle istituzioni pubbliche appare molto diversificata. Se la più alta presenza di donne in politica si attesta nei Paesi scandinavi, in Olanda e in Germania varia tra il 42% e il 30%, seguite poi da Austria, Spagna, Gran Bretagna, Italia e Francia dove si registra una media intorno al 20% (fonte: Le donne al Parlamento europeo, documento per la Giornata internazionale della Donna, 8 marzo 2012).
 
Il caso più virtuoso riguarda i Paesi Scandinavi, dove le donne hanno conquistato ampi spazi politici, sia per quanto riguarda la presenza in Parlamento – 46% in Svezia, 43% in Islanda, 40% in Norvegia e Finlandia, 38% in Danimarca – sia per ciò che concerne il numero delle donne ministro – 63% in Finlandia, 53% in Norvegia, 45% in Svezia e Islanda e 42% in Danimarca (fonte: Le donne al Parlamento europeo, documento per la Giornata internazionale della Donna, 8 marzo 2012). Vero è che si tratta di Paesi in cui la cultura delle pari opportunità in ogni settore della società è molto radicata. In effetti le donne scandinave hanno più possibilità di ricoprire posizioni di potere perché vige una vera e propria politica di promozione della leadership femminile. Basti pensare che i Paesi nordici sono stati tra i primi a sancire il diritto di voto alle donne (nel 1906 in Finlandia, nel 1913 in Norvegia, nel 1915 in Islanda e Danimarca, nel 1919 in Svezia). In più, già dagli anni settanta i partiti politici norvegesi, svedesi e danesi hanno introdotto quote rosa su base volontaria, con un conseguente aumento della partecipazione politica femminile.
In realtà, anche in Germania, la presenza delle donne in politica è un fenomeno importante. Al di là del fatto che attualmente vi sia una donna alla guida del Paese, alte sono le percentuali di rappresentanza femminile sia nel Bundesrat che negli organi direttivi dei partiti.
 
Da cosa deriva tutto ciò? Il dato si deve certamente a fattori di tipo culturale, ma anche dalla consolidata tendenza tedesca ad adottare provvedimenti diretti a rimuovere le situazioni di discriminazione sociale della donna nei diversi ambiti della società e alla circostanza che vengano previste esplicitamente negli statuti dei partiti misure idonee a promuovere la rappresentanza femminile nelle liste elettorali. Ulteriormente, mentre si prende atto di un fenomeno molto positivo che riguarda la Spagna dove dal 9% del 1987 si è passati ad un 23 % (si veda La rappresentanza femminile nel Parlamento europeo e negli Stati membri dell’Unione, IV parte della pubblicazione – dati sulla rappresentanza femminile nel Regno Unito, in Spezia e Svezia, 2003) attuale di presenza femminile in Parlamento, in Gran Bretagna, non si riesce ad andare oltre il 20% nonostante l’esperienza al Governo della Lady di Ferro, Margaret Tatcher, primo ministro dal 1979 al 1990.
Ad ogni buon conto, tralasciando dati e percentuali, l ‘aumento della presenza femminile nelle istituzioni politiche va innanzitutto favorito dalle iniziative dei singoli governi, volte a promuovere la partecipazione politica delle donne.
 
Da questo punto di vista, in Italia, attualmente, il Governo in carica appena formato si è contraddistinto per l’equilibrio di genere perseguito nella scelta dei ministri (50% donne e 50% uomini).
Si tratta di un traguardo particolarmente significativo per un Paese come il nostro che per avere un ministro donna – il primo della Repubblica – ha dovuto attendere fino al 1976 con l ‘ingresso di Tina Anselmi al Ministero del lavoro e previdenza sociale e che si spera, possa contribuire a superare la cultura di diffidenza che ancora si avverte relativamente alla discesa in campo delle donne e che non può essere tollerata in una nazione che pone la democrazia alla base della sua stessa Costituzione. Se non si persegue la parità, infatti, se uomini e donne non hanno le stesse opportunità in politica, la tanto declamata democrazia rimane esclusivamente una democrazia a metà.
 
Ancora, si ricordi che in Italia alle donne è stato riconosciuto il diritto al voto solo nel 1946: prima di allora erano di fatto, totalmente escluse dalla vita pubblica ed è paradossale che abbiano dovuto combattere per qualcosa che spettava loro di diritto, dalla nascita, al pari di un qualsiasi altro cittadino di sesso maschile.
Un discorso analogo vale per le tanto discusse quote rosa, la cui legge è solo del 2011, ovvero le quote minime di presenza femminile all’interno di organi elettivi perché la presenza femminile all’interno di amministrazioni pubbliche dovrebbe essere qualcosa di ovvio, così come ovvia è la presenza maschile.
Si tratta però di un male necessario perché attualmente la percentuale di donne in Parlamento si attesta intorno al 19%, una percentuale troppo bassa.
Ciò deriva dal fatto che il ruolo politico della donna è stato sempre visto come qualcosa di passivo.
Le donne sono troppo spesso chiamate in causa solo quando devono esprimere un voto. Ebbene, le donne sono sì, elettrici, ma devono anche avere la possibilità di essere elette.
 
Allora come cambiare questo stato di cose? È l’universo femminile in primis che deve promuovere il cambiamento, al fine di ottenere e mantenere un ruolo centrale in ogni settore.
Il fatto che ci sia solo una donna a coordinare un circolo o a guidare una Nazione non deve essere considerato un evento eccezionale, ma una consuetudine, una realtà normale e consolidata.
Una donna deve sapere di poter essere protagonista della vita politica, della vita professionale, della vita sociale e della vita familiare, e deve poter aspirare a questo sin dall ‘infanzia, senza limite o preconcetto alcuno. Se si porterà avanti tutto ciò, la collettività intera ne risulterà certamente migliorata.
 
In definitiva (e perché no, anche in una prospettiva utilitaristica) per quale ragione ci vogliono più donne in politica? Per la qualità fondamentale propria di ogni donna: essere una amministratrice nata. Che si amministri il ménage familiare, un’azienda o un Paese intero, ogni donna ha le caratteristiche per farlo. Per sua natura ella è infatti portata ad occuparsi degli altri: le donne sono madri. E questo vuol dire, che per indole personale, tendono a mettere gli altri al primo posto, e di conseguenza sono più sensibili alle esigenze del cittadino, sono più concrete ed operative, risultando quindi di grande utilità per la cosa pubblica.
E vengono in mente, allora, le parole di Margaret Thatcher «in politica, se vuoi che qualcosa venga detto, chiedi ad un uomo. Se vuoi che qualcosa venga fatto, chiedi ad una donna».
 
Serena Santagata
Scuola internazionale di dottorato in Formazione della persona e mercato del lavoro
ADAPT-CQIA, Università degli Studi di Bergamo
@Serena_Santa
 
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Donne e politica: una democrazia a metà?
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