Cosa intendiamo quando parliamo di occupabilità. In ricordo di Guido Rossa

L’occupabilità non è una formazione piegata alle esigenze contingenti del mercato del lavoro e neppure una formazione per un preciso mestiere. Difficile, del resto, che un giovane di quindici o vent’anni conosca la realtà dei mestieri dietro le singole etichette e, ancor di più, già sappia cosa vorrà fare da grande.

 

Così inteso quello di occupabilità è un concetto vecchio e forse anche sbagliato, per la nuova economia almeno, anche perché, già ora e ancor più in futuro, si cambieranno almeno dai cinque ai dieci “lavori” nell’arco di una vita. Lavori che non sono semplicemente posti e contratti, in una mobilità professionale statica e ordinata, ma, più in profondità, gli stessi mestieri, le specializzazioni e le relative competenze professionali necessarie per svolgerli.

 

Occupabilità è, semmai, un percorso di crescita e sviluppo integrale della persona che ci porta a essere padroni del nostro destino in quanto attrezzati per le sfide lavorative e non solo che incontreremo nella vita anche perché non formati ottusamente su un singolo mestiere, che magari sarà già scomparso non appena ci affacceremo nel mercato del lavoro, ma piuttosto in quanto capaci di apprendere e risolvere i problemi che via via incontreremo forti di una consapevolezza di chi siamo e cosa vogliamo, delle nostre potenzialità e talenti così come dei nostri limiti e lacune.

 

In questi giorni, nell’anniversario della sua scomparsa, mi ha molto colpito una riflessione di Guido Rossa, il delegato CGIL ucciso il 24 gennaio 1979 dalle Brigate Rosse che forse non abbiamo ricordato con la dovuta attenzione, quando scrive: “ l’indifferenza, il qualunquismo e l’ambizione che dominano […]: da parecchi anni ormai mi ritrovo sempre più spesso a predicare agli amici, l’assoluta necessità di trovare un valido interesse nell’esistenza […] che ci liberi dal vizio di quella droga che da troppi anni ci fa sognare e credere semidei o superuomini chiusi nel nostro solidale egoismo, unici abitanti di un pianeta senza problemi sociali, fatto di lisce e sterili pareti sulle quali possiamo misurare il nostro orgoglio virile”.

 

Ecco in questa riflessione c’è molto di quello che intendo per un moderno concetto di occupabilità che, nell’essenza, altro non è che la curiosità, l’intraprendenza, il senso di servizio, la ricerca di un senso; che è l’andare oltre il nostro stretto orizzonte e i nostri piccoli egoismi per occuparci anche del mondo e degli altri; che è anche la dimensione di quel senso della possibilità e del sogno di cui parla Musil in Luomo senza qualità e, dunque, la capacità di pensare a tutto quello che potrebbe essere e non solo a quello che è o che già è accaduto. Questa è la mentalità che ci porta a sviluppare capacità di autonomia, decisione, scelta e con esse competenze di comunicazione, relazione, lavoro di gruppo e problem solving.

 

Guarda caso proprio le capacità e le competenze che sono oggi alla base di solidi percorsi di carriera professionale che danno valore alle imprese e alle comunità di appartenenza e, con esse, sostanza e sviluppo a potenzialità, attitudini e vocazioni professionali incanalando lungo i giusti percorsi di disciplina, apprendimento e metodo quelli che, altrimenti, sarebbero semplici passioni e desideri destinati a evaporare alle prime difficoltà che incontreremo lungo il nostro cammino. Questa è la persona occupabile – o l’uomo di “successo” nel senso di cui ci parlava Freud – e cioè la persona che – anche grazie alla presenza di guide, educatori ed esempi da seguire – “riesce, a forza di lavoro, a trasformare in realtà le sue fantasie di desiderio”.

 

Michele Tiraboschi

Coordinatore scientifico ADAPT

@Michele_ADAPT

 

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