Appunti di viaggio /1. Lo scenario bresciano delle relazioni industriali

“Appunti di viaggio” è il diario di un percorso di studi sulla evoluzione del sistema di relazioni industriali nella provincia di Brescia avviato da ADAPT nell’ambito di una collaborazione con FIM-CISL Brescia di cui si è dato atto nell’intervento “A Brescia un nuovo ponte tra ricerca e sindacato” che potete trovare qui.

 

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Nelle valli intorno a Brescia, le mura geometriche degli impianti siderurgici e meccanici si alternano ai contorni morbidi delle montagne prealpine. Intervengono le statistiche a confermare ciò che il paesaggio lascia presagire: sul suolo bresciano c’è un’impresa ogni 8 abitanti e la percentuale di occupati nell’industria tocca il 34%, superando ancora oggi la media italiana (*). Il lavoro in fabbrica caratterizza la quotidianità di molte persone, impiegate in varie aziende che non di rado portano uno stesso nome. A Lumezzane e in Val Trompia si producono armi e posate, in Val Sabbia sono spesso le maniglie e i prodotti termoidraulici l’output del processo produttivo, mentre nella Bassa si realizzano macchinari per l’agricoltura e presse per l’automotive. Moltissime a Brescia e dintorni sono le fonderie, acciaierie e i tubifici.

 

Gli stravolgimenti internazionali del settore manifatturiero non hanno risparmiato la provincia bresciana, che dagli anni Ottanta ha sperimentato lo smantellamento degli impianti, le chiusure degli stabilimenti e severe riduzioni di personale. Un processo, quello di deindustrializzazione, cui si sono aggiunte recentemente la crisi economica e finanziaria, l’aspra competizione internazionale e la sovrapproduzione di acciaio. L’impatto di questi fenomeni si misura oggi in numeri e percentuali: più 211 per cento la proporzione di disoccupati a Brescia dal 2008 al 2014; meno 30.000 le assunzioni a tempo indeterminato; meno 25.000 il numero di dipendenti nell’industria e meno 9,1 per cento le attività manifatturiere dal 2009 al 2015 (*). Il motto “laúra, laúra” non è più sufficiente a reggere il passo delle evoluzioni strutturali e per sopravvivere ai capricci del mercato, gli imprenditori bresciani hanno spesso scelto la via esterna delle delocalizzazioni o quella interna degli ammortizzatori sociali. Da 1.000.000 nel 2008 a 17.000.000 nel 2009: l’entità dell’aumento delle ore di cassa integrazione (*).

 

Queste cifre rendono inequivocabile la partita che le forze sociali sono chiamate a giocare sul territorio bresciano e per cui si auspicherebbe l’unità di azione sindacale a rappresentanza e tutela dell’interesse collettivo. Al contrario, la divaricazione tra i modelli sindacali dei metalmeccanici della Cisl e della Cigl costituisce l’essenza della cosiddetta “anomalia bresciana”, laddove le intenzioni fimmine, incentrate sullo sviluppo della contrattazione aziendale, la flessibilità e la partecipazione dei lavoratori, non trovano condivisione tra le fila della Fiom. A contrapporsi sono l’ottica dell’investimento e quella della conservazione: un approccio teso a formalizzare momenti di confronto tra lavoratori e impresa per discutere obiettivi di competitività cui corrisponderanno, sulla base del grado di conseguimento, elementi retributivi variabili, e una linea volta all’ottenimento di maggiorazioni fisse per tutti i lavoratori, a fronte però della loro estromissione dalla organizzazione del lavoro. Una posizione quest’ultima che non di rado trova complicità in una classe imprenditoriale ancora molto paternalista, indisponibile a condividere l’esercizio di quelle che tradizionalmente erano prerogative datoriali, anche a costo di subire carenze logistiche, comunicative e inefficienze produttive.

 

Nella pratica delle relazioni industriali, questa anomalia si traduce in regole specifiche che gli agenti sindacali si sono dati nella provincia bresciana, dove le caratteristiche del tessuto sociale e culturale non permettono l’attuazione di quanto pattuito dalle grandi confederazioni a livello nazionale. È così che nella maggior parte delle aziende, anziché assistere alla presentazione di una piattaforma unitaria da parte delle Rsu, vengono avanzate piattaforme distinte dalla Fim e dalla Fiom, sottoposte alla valutazione dei lavoratori, che con un “sì” o con un “no” manifestano il proprio giudizio sui documenti sindacali. Se le piattaforme ottengono una maggioranza di voti favorevoli, vengono entrambe proposte all’azienda. La sintesi delle posizioni espresse non è mai semplice e dopo una trattativa che dura mesi e a volte anni, conduce a un’ipotesi di accordo su cui i lavoratori sono chiamati a esprimersi. Solo in caso di esito positivo – eventualità non scontata – le disposizioni contrattuali acquisiscono effettività. Ci troviamo, quindi, all’interno di un modello di relazioni industriali diverso da quello delineato dal Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, per cui basterebbe la firma della maggioranza delle Rsu a convalidare l’accordo. Non di rado, peraltro, la possibilità di rigetto dell’intesa da parte dei lavoratori induce gli operatori sindacali a consultare le maestranze in passaggi intermedi anche durante il negoziato, quando le resistenze datoriali costringono il sindacato a riconsiderare le proprie posizioni. Nelle intenzioni dei rappresentanti, tale misura cautelativa serve a contenere il rischio di vanificare gli sforzi negoziali a ipotesi siglata. Tutt’altro che banale è, infine, impedire che certi contenuti pattuiti spingano l’una o l’altra delle sigle più rappresentative a non sottoscrivere l’intesa e si giunga così ad accordi aziendali separati.

 

È in questo contesto regolatorio che si inseriscono l’esperienza bresciana e la peculiarità delle sue logiche di azione collettiva, che finiscono per esasperare il conflitto endosindacale, a sua volta suscettibile di contrarre il bacino di forza lavoro sindacalizzata e compromettere la legittimazione dei delegati nelle fabbriche, oltre a quella del sindacato al tavolo negoziale. La difesa dell’interesse collettivo appare quindi a Brescia ancor più complicata, in ragione della polarizzazione degli interessi divergenti dell’una o dell’altra organizzazione, e dei lavoratori che ad esse sono iscritti.

 

Non sappiamo, ad oggi, se l’urgenza di affrontare talune sfide globali (quali la disintermediazione e la crescente competitività internazionale) indurrà gli agenti sociali bresciani a rinnovarsi, uscendo dalle contrapposizioni per rinsaldare la dimensione collettiva a vantaggio dei lavoratori, della contrattazione e del potenziale produttivo del territorio. Solo il tempo ci dirà se un’evoluzione, che sembra oggi necessaria, avverrà preservando un certo grado di anomalia nelle relazioni industriali o piegando l’indole anarchica a favore di una maggiore effettività delle decisioni interconfederali. La sensazione è, più che mai, quella di trovarsi a un bivio.

 

(*) I dati riportati mi sono stati forniti dalla Fim-Cisl di Brescia e sono il frutto di una ricerca condotta nel 2015 dal titolo “Analisi di scenario dell’economia bresciana”. Questa ricerca è stata commissionata dall’organizzazione sindacale a Raffaele Miniaci, Professore ordinario presso il Dipartimento di Economia e Management dell’Università degli Studi di Brescia.

 

 

Ilaria Armaroli

ADAPT Junior Research Fellow

@ilaria_armaroli

 

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