Apprendistato “scolastico”: ecco le vere criticità e come superarle

Apprendistato per gli studenti delle scuole superiori e degli istituti professionali: se ne parla molto, spesso citando il modello tedesco. Eppure quando si deve passare dalle parole ai fatti qualcosa si blocca (vedi cartina). Lo confermano i preziosi rapporti annuali dell’ISFOL. Unica eccezione la Provincia Autonoma di Bolzano che, per tradizione e cultura, segue un modello di formazione professionale diverso da quello del resto del Paese.
 
Introdotto nel lontano 2003 dalla legge Biagi, l’apprendistato scolastico è stato rilanciato col Testo Unico del 2011 che ha semplificato le procedure di implementazione a livello regionale. Non a caso solo tre Regioni sono oggi sprovviste di una apposita disciplina. In tutte le altre, invece, è già possibile assumere giovani apprendisti per far conseguir loro, in assetto lavorativo, 22 tipologie di qualifiche professionali e 21 tipologie di diplomi professionali differenti. Indubbiamente la competenza regionale ha contribuito a una Babele di discipline molto diverse le une dalle altre. Un caso, tra i molti possibili, è il confronto tra Piemonte e Lombardia. Il primo, per i ragazzi tra i 15 e i 18 anni, prevede 990 ore di formazione strutturata all’anno. La seconda, invece, 400.
 
Più lacunosa la regolamentazione collettiva di attuazione delle disposizioni regionali (vedi tabella). Il XIII monitoraggio dell’ISFOL registra un vero e proprio vuoto: solo 17 contratti nazionali si sono occupati della materia, non sempre in modo dettagliato. Il decreto-legge n. 34/2014 affronta ora il tema dal punto di vista della retribuzione durante il periodo formativo, riducendola a un contenuto 35%. Il paradosso è che tale previsione opera solo in assenza di discipline collettive. Fissata la tariffa ope legis l’incertezza degli operatori è dunque assoluta non essendo presenti regole contrattuali di riferimento per tutti i profili che non siamo quelli retributivi.
 
Il vero nodo critico, tuttavia, è che l’apprendistato di primo livello si occupa unicamente di apprendistato per la qualifica triennale e per il diploma quadriennale mentre tace sui percorsi di durata quinquennale. Questo significa escludere dalla possibilità di coinvolgere in apprendistato gran parte della popolazione giovanile che frequenta gli istituti tecnici o i licei. Più utile sarebbe allora una riforma dell’articolo 5 del Testo Unico del 2011 abbassando dagli attuali 18 ai 16 anni l’età di accesso all’apprendistato di alta formazione per percorsi di scuola secondaria superiore.
Al netto delle resistenze culturali, ancora molto forti nel nostro Paese, l’apprendistato per i minorenni in Italia è dunque bloccato da criticità che possono esser superate anche in tempi rapidi. A livello legislativo sarebbe sufficiente un intervento sull’articolo 5 del Testo Unico e non tanto sull’articolo 3 come fa invece il decreto-legge n. 34/2014. Sul piano contrattuale, invece, sarebbe decisivo un intervento delle parti sociali magari con un accordo “cedevole” a livello interconfederale che renda subito operativo il suo funzionamento in tutti i settori produttivi, se del caso richiamando per analogia la disciplina dell’apprendistato professionalizzante per quanto non disciplinato dai contratti di categoria. Una strada questa che appare facilmente percorribile, vista la sostanziale unità delle parti sociali nella valorizzazione dell’apprendistato, e che potrebbe offrire utile materiale al Parlamento che si appresta a discutere la legge di conversione del decreto-legge n. 34/2014.
 
Michele Tiraboschi
Coordinatore scientifico ADAPT
@Michele_ADAPT

 


* Il presente articolo è pubblicato anche in Il Sole 24 Ore, 1° aprile 2014, con il titolo Qualifica, corsi a durata variabile.
 
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Apprendistato “scolastico”: ecco le vere criticità e come superarle
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