Tensioni giurisdizionali nell’ordinamento “multilivello”: il rapporto tra diritto interno e diritto europeo nella giurisprudenza italiana

ADAPT – Scuola di alta formazione sulle relazioni industriali e di lavoro

Per iscriverti al Bollettino ADAPT clicca qui

Per entrare nella Scuola di ADAPT e nel progetto Fabbrica dei talenti scrivi a: selezione@adapt.it

Bollettino ADAPT 6 settembre 2021, n. 30

 

Se, per un verso, indiscusse sono prospettive e potenzialità di un «ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani [e] che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati membri ma anche i loro cittadini», ai quali attribuisce diritti soggettivi (C. giust.5 febbraio 1963, C-26/62), anche immediati, per altro, notevoli sono le complicazioni di un ordinamento “multilivello”, specialmente nel coordinamento fra diritti positivi plurimi – eurounitario e dei singoli Stati membri – all’esito di procedimenti giurisdizionali che, ancorché stratificati, devono comunque assicurarne la “traduzione” in diritto effettivo.

 

Invero, solo parzialmente sufficienti risultano gli originari principi di “leale cooperazione” (art. 4 TUE), “attribuzione”, “sussidiarietà” e “proporzionalità” (art. 5 TUE) espressi dai Trattati o il riparto di competenza giurisdizionale espressamente prevista dai medesimi (art. 267 TFUE).

 

Ad esempio, vertendo del peculiare rapporto fra le “alte” corti, nemmeno compiuti appaiono gli sforzi adattivi perorati dalla Corte Costituzionale, la quale, pur riconoscendo «i principi del primato e dell’effetto diretto del diritto dell’Unione europea» (C. Cost. 20 dicembre 2017, n. 269, “Considerato in diritto”, sub 5.2.) e considerare come un arricchimento di tutela il possibile concorso di rimedi giurisdizionali (C. Cost. 27 febbraio 2019, n. 20, “Considerato in diritto”, sub 2.3), si limita a legittimarne i presupposti, facendo leva sul fatto che «i principi e i diritti enunciati nella Carta intersecano in larga misura i principi e i diritti garantiti dalla Costituzione italiana» (ancora C. Cost. 20 dicembre 2017, cit.), senza tuttavia valutare, nel concreto, i possibili effetti di questo “binario parallelo”.

 

Tantoché, fatto salvo, per il giudice comune, il previsto esperimento della “doppia pregiudizialità” (ad esempio, in ambito lavoristico, si veda il doppio rinvio operato da App. Napoli, Ord. 18 settembre 2019) ossia sottoporre una fattispecie concreta al giudizio di costituzionalità, ma anche al rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, non risulta altrettanto indagata l’ipotesi che l’esito della Consulta, alla luce dei parametri interni e di quelli europei (per il tramite degli artt. 11 e 117 Cost.), si rilevi difforme o contrastante con una “coeva” decisione della Corte di Giustizia, creando in tale guisa un “corto circuito” di competenza.

 

Permesso di soggiorno e diritti sociali: le ordinanze gemelle della Cassazione

 

E proprio in materia di legislazione sociale, due recenti ordinanze della Cassazione (la n. 9378 e la n. 9379 del 2021) sembrano in grado di prefigurare un simile scenario.

 

Senza pretesa di esaustività (per la quale si rimanda al contributo di S. Giubboni, N. Lazzerini, L’assistenza sociale degli stranieri e gli strani dubbi della Cassazione, in Questione Giustizia, 2021), il doppio incidente di costituzionalità sollevato dal giudice della nomofilachia, si colloca al termine di due concomitanti giudizi, coinvolgenti un soggiornante di lungo periodo ai sensi della direttiva 2003/109 e un titolare di permesso unico di lavoro ai sensi della direttiva 2011/98, ai quali INPS opponeva il rifiuto di versare l’assegno per il nucleo familiare, in relazione ai periodi in cui le rispettive mogli e figli avevano soggiornato nei paesi di origine.

 

Posto che il Tribunale e la Corte d’appello di Brescia, nell’un caso, e la Corte di appello di Torino, nell’altro, disapplicavano l’art. 2 comma 6-bis della legge n. 153/1988, ritenendolo in contrasto con il diritto alla parità di trattamento disposto dalle direttive in esame (in particolare l’art. 11, p.1, d), direttiva 2003/109 e l’art. 12, p. 1, e), direttiva 2011/98), i ricorsi promossi da INPS inducevano la Cassazione a sospendere i giudizi e operare due distinti, ma contestuali, rinvii pregiudiziali.

 

In esito, per quel che rileva, la Corte di Giustizia, con le sentenze del 25 novembre 2020 nelle cause C-302/19 e C-303/19, facendo perno, da un lato, sull’assenza di una deroga esplicita alla limitazione della parità di trattamento nella direttiva 2011/98 e, dall’altro, in difetto di una chiara ed espressa intenzione dell’Italia di avvalersi di quelle previste dalla direttiva 2003/109, dichiarava la non conformità della disciplina nazionale al diritto dell’Unione.

 

Senonché, alla riapertura dei giudizi, la Cassazione riteneva che «per dare piena esecuzione alla sentenza della CGUE in oggetto non è sufficiente limitarsi a respingere il ricorso per cassazione dell’INPS, confermando la pronuncia di affermata disapplicazione adottata dalla Corte d’appello», dichiarando, a quel punto, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 comma 6-bis della legge n. 153/1988 per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione alle direttive testé richiamate.

 

Il cuore del ragionamento – e, come si dirà, probabilmente la parte più controversa – è la ritenuta mancanza di “efficacia diretta” del principio di parità contenuto nelle direttive in parola ovvero l’assenza di «una disciplina self-executing […] direttamente applicabile alla fattispecie oggetto di giudizio» (Ord. 9378 e 9379/2021, p. 16).

 

È da tale premessa che, una volta esclusa – correttamente – la percorribilità della “interpretazione conforme”, nascono le “forti” asserzioni della suprema corte ossia che «non potendosi dare immediata applicazione ad una disciplina eurounitaria inesistente, quella che viene definita “disapplicazione” altro non realizzerebbe che una modifica della norma nazionale mediante la sostituzione del criterio della reciprocità ovvero della specifica convenzione internazionale con quello della parità di trattamento [e] tale operazione, del tutto distante dal fenomeno che si suole descrivere con l’efficacia diretta delle direttive self executing, si tradurrebbe inevitabilmente in un intervento di tipo manipolativo inibito a questa Corte di legittimità» (Ord. nn. 9378 e 9379/2021, p. 21 e 22).

 

Così opinando, la Corte di Cassazione aderisce – piuttosto che costruire, come sostenuto, invece, nel contributo di S. Giubboni e N. Lazzerini – alla giurisprudenza più recente della Corte Costituzionale, la quale prevede che «quando una disposizione di diritto interno diverge da norme dell’Unione europea prive di effetti diretti, occorre sollevare una questione di legittimità costituzionale, riservata alla esclusiva competenza di questa Corte, senza delibare preventivamente i profili di incompatibilità con il diritto europeo» (C. Cost. 20 dicembre 2017 cit., “Considerato in diritto”, sub 5.1.).

 

Licenziamento collettivo e profili sanzionatori: il caso del Tribunale di Milano

 

Dell’articolato processo di trasformazione – rectius “conformazione” (art. 4 TUE) – del diritto sostanziale europeo in diritto effettivo interno, ne è altresì esempio particolarissimo un recente intervento del Tribunale di Milano (sentenza 28 maggio 2021, R.G. n. 5797/2018), anche nell’occasione, impegnato nella “gestione” di una sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia, all’esito di un rinvio pregiudiziale dal medesimo promosso.

 

In sintesi estrema (per una disamina più approfondita, F. Avanzi, La disciplina del licenziamento collettivo (illegittimo), nel diritto eurounitario, in Lav. Prev., 2021, n. 7-8), nell’ambito di una stessa procedura di licenziamento collettivo, a seguito di impugnazione e ricorso innanzi al Tribunale di Milano, causa violazione dei c.d. criteri di scelta , veniva dichiarata l’illegittimità dei provvedimenti di recesso, dalla quale tuttavia, secondo il giudicante, conseguiva l’applicazione di una doppia disciplina, una con reintegrazione (art. 5 c. 3 L. 223/1991), a favore della totalità, meno uno, dei lavoratori appellanti, l’altra meramente indennitaria (artt. 10 e 3 D.Lgs. 23/2015), in ragione del momento di conversione – successiva al 7 marzo 2015 – del contratto, da tempo determinato a tempo indeterminato, nei riguardi di una sola ricorrente.

 

Alla luce di ciò, il giudice del rinvio si interrogava rispetto alla conformità della normativa interna rispetto al diritto dell’Unione, sotto un duplice profilo: da un lato, se le previsioni contenute negli articoli 20 e 30 della CDFUE e nella direttiva 98/59, risultassero ostative a una disposizione come quella di cui all’articolo 10 del D.Lgs. 23/2015 che introduce, per i soli lavoratori assunti – ovvero “convertiti” – a tempo indeterminato a decorrere dal 7 marzo 2015, una disposizione secondo cui non è prevista la reintegra nel posto di lavoro, dall’altro, se i principi di parità di trattamento e di non discriminazione contenuti nella clausola 4 dell’accordo quadro sulle condizioni di impiego, fossero ostativi alle previsioni normative dell’articolo 1, secondo comma e dell’articolo 10 del D.Lgs. 23/2015 che, con riferimento ai licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta, contengono un duplice regime differenziato di tutela, uno dei quali, di minore effettività ed inferiore capacità dissuasiva.

 

Con sentenza del 17 marzo 2021, nella causa C-652/19, la Corte di Giustizia, oltre a rispondere alla prima questione stabilendone l’esclusione dall’ambito di applicazione della direttiva e, dunque, della CDFUE, riguardo al secondo rilievo, riteneva non ostativa una normativa nazionale che estende un nuovo regime di tutela dei lavoratori a tempo indeterminato, in caso di licenziamento collettivo illegittimo, ai lavoratori il cui contratto a tempo determinato, stipulato prima della data di entrata in vigore di tale normativa, è convertito in contratto a tempo indeterminato dopo tale data.

 

Non senza sorpresa (in ambito lavoristico, non risultano precedenti), con la sentenza del 28 maggio 2021, il giudice milanese decideva di “disattendere” il disposto della corte del Lussemburgo poggiando, per quel che rileva, sulla già citata separazione di funzioni giurisdizionali (art. 267 TFUE) e cogliendo il rinvio agli accertamenti in concreto disposti, nell’iter motivazionale, dalla medesima Corte di Giustizia.

 

In particolare, il Tribunale del merito rilevava come, proprio nella pronuncia europea, seppur l’obbiettivo di rafforzare la stabilità dell’occupazione configurasse, astrattamente, una “ragione oggettiva” idonea a legittimare la differenza di trattamento, la misura della regressione di tutela, scelta per perseguirlo, dovesse, comunque, superare il test di “adeguatezza”, «circostanza che, tuttavia, spetta al giudice del rinvio verificare» (C. giust.17 marzo 2021, C-652/19, p. 64).

 

Di qui le importanti – e difficilmente contestabili – affermazioni del giudice interno, il quale, dopo aver evidenziato che «il canone della ragionevolezza […] non può limitarsi ad una semplice dimensione discorsiva ma deve investire i profili causali del rapporto strumentale mezzi/fini [e che] In tale prospettiva il giudizio di adeguatezza deve coinvolgere necessariamente l’impiego di dati extra-normativi, quali le conoscenze tecnico-scientifiche, i modelli statistici e i riscontri di tipo fattuale», in specie, assenti sul piano empirico, «dal momento che nessuna correlazione positiva tra riduzione delle tutele e incremento dell’occupazione è mai stata avvalorata nella letteratura economica» (richiamando, a contrario, autorevoli documenti che negano qualsivoglia significativo collegamento), accoglieva il ricorso della lavoratrice, condannando la Società alla sua reintegrazione.

 

Alcune brevi osservazioni

 

Come anticipato in premessa, dalle vicende che sinteticamente precedono, emerge tutta la complessità – e, per lo studioso, il fascino – dell’ordinamento multilivello e delle “zone grigie”, ancora da indagare, che residuano nella delicata relazione giurisdizionale fra Unione e Stati membri.

 

Infatti, nel primo caso, anche se viziata dalla poco condivisibile premessa dell’assenza di efficacia diretta del principio di parità contenuto nelle direttive, in ragione di una disciplina ritenuta addirittura inesistente (circostanza discutibile se si considera che, in altra recente pronuncia, la CGUE ha rilevato l’efficacia diretta anche dell’articolo 157 TFUE «nelle controversie tra privati in cui è dedotta l’inosservanza del principio della parità di retribuzione» C. giust. 3 giugno 2021, C-624/19), non vi è dubbio che dal futuro esito del vaglio costituzionale (si pensi all’evenienza di una dichiarata inammissibilità oppure infondatezza, magari manifeste) potranno affiorare nuove riflessioni su una serie di primarie questioni quali l’influenza giuridica della direttiva o l’evoluzione dell’incisività del diritto discriminatorio europeo.

 

Nel secondo caso invece, se si vuole, ancor più sui generis, l’eventuale evoluzione processuale del giudizio permetterà di approfondire il rapporto fra dispositivo e impianto motivazionale delle pronunce licenziate dalla Corte di Giustizia e, in particolare, della rilevanza effettiva degli “accertamenti in concreto” dalla medesima, sovente, disposti.

 

In ogni evenienza, tanto per i teorici quanto per i pratici del diritto, non è più ammissibile trascurare gli effetti reali dell’interessenza giuridica fra diritto dell’Unione e Stati membri, materia in evoluzione e, evidentemente, tutt’altro che compiuta.

 

Federico Avanzi

Consulente del lavoro

 

Tensioni giurisdizionali nell’ordinamento “multilivello”: il rapporto tra diritto interno e diritto europeo nella giurisprudenza italiana