Serve studiare per il lavoro? Brevi note sulla indagine ISTAT diplomati e laureati

Lo scorso 29 settembre ISTAT ha pubblicato i risultati delle indagini sui percorsi di studio e di lavoro dei diplomati e dei laureati, fotografando la situazione nel 2015 relativamente a coloro che hanno conseguito il titolo di studio nel 2011.

 

Analizzando i trend generali, emerge un calo del  tasso di occupazione per i diplomati nel 2011, che si attesta nel 2015 al 43,5% rispetto al 45,7% del 2011 (relativo ai diplomati nel 2007). Allo stesso modo, il tasso di disoccupazione si attesta al 21,8%, contro 16,2% dell’indagine precedente. La situazione occupazionale appare migliore per i laureati, che presentano un tasso di occupazione che oscilla tra il 72,8% per i laureati di I livello e l’84,5% per i laureati specialistici biennali di II livello, sempre considerando la situazione a 4 anni dal conseguimento del titolo. Questo fenomeno è, almeno in parte, fisiologico, considerato che una larga fetta (il 48,3%) di coloro che si sono diplomati nel 2011 hanno scelto di proseguire gli studi: il 31,3% è impegnato in via esclusiva negli studi terziari, mentre complessivamente il 18,7% si dedica ad attività lavorative e/o alla ricerca di un lavoro pur continuando gli studi. La stessa situazione vale, anche se con un’incidenza minore, per i laureati di I livello che proseguono gli studi in misura maggiore (20%) rispetto ai laureati di II livello (intorno all’11%).

Tuttavia, secondo ISTAT l’abbassamento dei tassi di occupazione per i diplomati non è del tutto compensato dalla scelta di proseguire di studi: infatti a fronte di un tasso di occupazione in calo, la quota di diplomati che sceglie di proseguire gli studi resta invariata per gli uomini (30,7%) e diminuisce per le donne (da 36,4% a 31,8%), mentre aumenta la quota di chi cerca lavoro, sia per gli uomini (da 14,2% a 19,6%) che per le donne (da 18,1% a 23,9%).

 

La situazione complessiva è ben rappresentata da questo grafico:

 

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Fig. 1 – Diplomati e laureati del 2011 per condizione rispetto al mercato del lavoro del 2015 – ISTAT

 

 

La difficile fase di transizione scuola-lavoro

 

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Fig. 2 – Laureati che lavorano al momento della laurea, a 1 e 4 anni dopo la laurea, per tipo di laurea – ISTAT

 

Questa figura mostra la situazione occupazionale dei laureati al momento della laurea, dopo 1 anno e dopo 4 anni.

Il 28,7% dei laureati di I livello lavora già al momento del conseguimento del titolo di studio. Dall’indagine ISTAT si evince inoltre che l’8% degli studenti abbandona il percorso universitario prima di conseguire un titolo. Il motivo prevalente di questa scelta è quello di aver trovato un lavoro o volerlo cercare (32,9% gli uomini e 23,2% le donne); seguono studi troppo difficili, limitati sbocchi professionali e spese universitarie e di mantenimento troppo alte (quest’ultimo indicatore, al 9,4% e 11,5%). Pare quindi che su entrambi i fenomeni – quello di abbandonare gli studi e quello di iniziare a lavorare prima del conseguimento del titolo universitario – incidano prevalentemente due fattori: oltre al costo degli studi, che è materia su cui le politiche per l’istruzione e il diritto allo studio potrebbero incidere in maniera decisiva, la percezione di inutilità del titolo di studio o del percorso universitario gioca un ruolo determinante. Un tale scetticismo potrebbe essere giustificato dalla reale situazione occupazionale dopo un anno dalla laurea (il tasso di occupazione per i laureati di I livello cresce infatti pochissimo, attestandosi solo al 37,4%), ma si rivela in realtà errato guardando ai trend di più lungo periodo: come abbiamo visto sopra, infatti, dopo 4 anni dal conseguimento del titolo il tasso di occupazione per laureati di I livello sale al 72,2% contro il 43% dei diplomati.

Tuttavia, il dato negativo sull’occupazione dei laureati di I livello e dei laureati a ciclo unico ad un anno dal conseguimento del titolo può essere sintomatico di un altro problema chiave del nostro sistema di transizione scuola-lavoro: la scarsità o inadeguatezza dei servizi di orientamento per gli studenti, sia da parte dell’Università che da parte dei Centri per l’impiego. Una possibile interpretazione dei dati infatti suggerisce che, nel momento in cui si affacciano sul mercato del lavoro, i giovani restano disorientati per molti mesi e non riescono a trovare subito un’occupazione. Questo sembra accadere in misura minore per i laureati di II livello con la specialistica, che forse incide sul grado di consapevolezza rispetto al proprio profilo professionale: questo, però, è un tema molto dibattuto che qui non abbiamo lo spazio di trattare.  

 

Quella dei servizi di orientamento non è l’unica criticità sollevata da questi dati. Come abbiamo visto, molti giovani abbandonano il percorso universitario o iniziano a lavorare durante lo svolgimento degli studi a causa delle spese troppo alte e della percepita inutilità del titolo. Una delle conclusioni che potremmo trarne è che, dal punto di vista degli studenti, potrebbe essere utile prevedere all’interno dei curricula di alcuni corsi di laurea la possibilità di svolgere esperienze di formazione on-the-job. Questo consentirebbe ai giovani, da una parte, di ricevere un reddito dall’impresa che li ospita e, dall’altra, di rendere utili i propri studi nella realtà di un’impresa. Non ci riferiamo evidentemente ai tradizionali stage, in Italia poco e male utilizzati, ma ad esperienze più strutturate e coerenti dal punto di vista formativo e più estese dal punto di vista della quota di tempo e CFU dedicata, che potrebbero realizzarsi ad esempio attraverso l’utilizzo dell’apprendistato di terzo tipo. Pensiamo, in particolare, ai sistemi di apprendimento duale alla tedesca. In alcune università germaniche, infatti, gli studenti pagano una quota (in alcuni casi anche consistente) per l’iscrizione all’università e trascorrono il 50% del proprio percorso in un’impresa da cui percepiscono uno stipendio. Sintetizzando un altro tema molto ampio, questo sistema ha il triplice vantaggio di (1) essere economicamente sostenibile per l’università, (2) permettere agli studenti di vivere un’esperienza di formazione on-the-job che risponda alle loro esigenze di reddito e formative e (3) migliorare l’occupabilità dei giovani fornendo competenze più spendibili nel mercato del lavoro.

 

 

La condizione dei giovani occupati

 

L’indagine ISTAT offre anche un’interessante panoramica delle condizioni di lavoro dei diplomati e laureati che riescono effettivamente ad avere accesso ad un’occupazione. Ho elaborato ed organizzato i dati a questo proposito più interessanti in queste due tabelle che mostrano, separatamente per diplomati e laureati, l’incidenza di ogni forma contrattuale sul totale degli occupati, la retribuzione, l’indice di Gini e la soddisfazione lavorativa.
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Fig. 3 – Incidenza di ogni forma contrattuale sul totale degli occupati, retribuzione, indice di Gini e soddisfazione lavorativa per i diplomati – elaborazione ADAPT su dati ISTAT
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Fig. 4 – Incidenza di ogni forma contrattuale sul totale degli occupati, retribuzione, indice di Gini e soddisfazione lavorativa per i laureati – elaborazione ADAPT su dati ISTAT

 

Un primo fenomeno evidente è la miglior condizione reddituale dei laureati rispetto ai diplomati, laddove i membri di quest’ultimo gruppo percepiscono una retribuzione media di 850 euro al mese, con una condizione particolarmente drammatica (400-500 euro) per coloro che lavorano con contratto a progetto, di prestazione d’opera, voucher, una borsa di studio/lavoro o che svolgono un’attività formativa retribuita (tirocinio, stage, praticantato, corsi di formazione o di aggiornamento).

L’indice di Gini evidenzia una bassa disuguaglianza interna tra le retribuzioni dei laureati, mentre per quanto riguarda i diplomati (su cui, tra l’altro, abbiamo dati più precisi) la disuguaglianza interna è più grande e varia molto in base alla forma contrattuale con cui lavorano.

Anche la percentuale di lavoro non stabile sul totale degli occupati si riduce tra i laureati rispetto ai diplomati.

 

Per i nostri fini è inoltre particolarmente interessante guardare alla soddisfazione lavorativa dei giovani, che viene misurata con vari indicatori relativi sia alla situazione economica che ad aspetti afferenti alla realizzazione professionale. Di seguito, due figure del rapporto ISTAT circa la soddisfazione di diplomati e laureati.

 

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Fig. 5 – Soddisfazione per alcuni aspetti dell’attuale lavoro per i diplomati – ISTAT
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Fig. 6 – Soddisfazione per alcuni aspetti dell’attuale lavoro per i laureati – ISTAT

 

Questi dati danno immediata conferma del mismatch di competenze tra quello che gli studenti imparano a scuola o all’università e le mansioni che poi dovranno svolgere.

È interessante notare come, nonostante i livelli di reddito significativamente differenti, i livelli di soddisfazione lavorativa non siano molto diversi tra diplomati e laureati. Una possibile chiave di lettura potrebbe quindi supporre una correlazione tra soddisfazione e forma contrattuale con cui i giovani lavorano – che, come abbiamo visto, incide molto anche sui livelli di retribuzione. L’alta diffusione di contratti non stabili mostra infatti la doppia faccia di un’alta soddisfazione rispetto ai livelli di autonomia e alle mansioni svolte, ma nello stesso tempo una bassa soddisfazione rispetto alla stabilità lavorativa (soprattutto per i laureati), il trattamento economico, la possibilità di fare carriera. A questo proposito, i dati ISTAT evidenziano anche le criticità relative alla transizione ad una situazione abitativa indipendente, dovuta soprattutto alla mancanza di un lavoro stabile o di risorse economiche sufficienti (41,1% tra le donne e 44,9% tra gli uomini) ma anche al fatto di essere ancora studente (41,7% donne, 32,8% uomini). È doveroso sottolineare che una quota non trascurabile (14-18%) dichiara poi di gradire questa sistemazione e stare bene così: questo fenomeno evidenzia il ruolo cruciale che svolgono i fattori culturali rispetto alla condizione giovanile e ricorda una delle tesi di Alessandro Rosina secondo cui “l’iperprotezione da parte delle famiglie italiane tende a mantenere immaturi più a lungo i figli” (“NEET Giovani che non studiano e non lavorano”, Vita e pensiero, 2015). Ma questo aprirebbe un altro, non meno importante ma qui troppo esteso e complesso, capitolo di analisi, che si può efficacemente sintetizzare sempre con le parole di Rosina: “Chi è giovane oggi vive in modo diverso la sua condizione […], non solo perché il sistema di vincoli e opportunità cambia nel tempo e con le trasformazioni economiche e sociali, ma mutano, sottotraccia, anche desideri, bisogni, obiettivi di vita, modo di relazionarsi con gli altri” (Alessandro Rosina, 2015).

 

Dal punto di vista di policy, invece, il dato interessante è la situazione per cui i giovani si trovano a ritardare alcuni degli step fondamentali delle fasi di vita per motivi legati al reddito e alla stabilità lavorativa. Questo fenomeno potrebbe quindi suggerire che le riforme delle regole del mercato del lavoro abbiano un reale impatto (se non sulla creazione di occupazione, come qualcuno bizzarramente sostiene, almeno) sulle condizioni effettive di lavoro. La progressiva e spesso incoerente precarizzazione del mercato del lavoro è stata attuata in maniera spot e con riforme al margine (cioè non di sistema), senza prevedere politiche attive e misure di welfare che bilanciassero la crescente insicurezza nei percorsi di lavoro e di vita dei giovani. Vedremo nei prossimi mesi se l’Agenzia nazionale delle politiche attive del lavoro (ANPAL) riuscirà almeno in parte a risolvere alcune delle principali criticità che i giovani si trovano ad affrontare. Certo è che, anche in questa occasione, si è preferito dare precedenza alla flessibilità e solo in seguito si è pensato alla sostenibilità del sistema dal punto di vista delle storie di lavoro e di vita dei giovani.

 

 

Chiara Mancini

Apprendista di ricerca, ADAPT Junior Fellow
@_ChiaraMancini

 

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