Rileggendo i classici del lavoro/21–“L’insicurezza sociale” di Robert Castel: una lettura per comprendere la crisi dei sistemi di protezione sociale

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Bollettino ADAPT 31 gennaio 2022, n. 4
 
Nel clima di forte insicurezza che caratterizza la società contemporanea – specie nell’attuale contesto emergenziale dettato dall’evoluzione della pandemia di Covid-19 – una rilettura utile può essere quella offerta dal saggio di Robert Castel intitolato “L’insicurezza sociale”.
 
Pubblicato nel 2003, il contributo offre una minuziosa analisi dei fattori dai quali scaturisce l’insicurezza sociale, soffermandosi in particolare sul passaggio dalla società fordista, detta anche “società salariale”, a quella post-fordista, viceversa caratterizzata da una sempre crescente “ipermobilità del lavoro”.
 
Il punto di partenza da cui muove la trattazione è che lo Stato sociale ha raggiunto, nell’epoca fordista, l’obiettivo di garantire protezione alla cittadinanza. Di conseguenza, è diventato progressivamente naturale per i cittadini rivendicare protezione in quanto diritto. Tuttavia, a partire dagli anni ’80, la capacità dello Stato di offrire tale protezione è man mano entrata sempre più in crisi, e ciò ha generato un’enorme insicurezza sociale imputabile proprio al fatto che, la società, era ormai “abituata” a sentirsi protetta.
 
Si tratta, questo, di un punto da approfondire: il passaggio dalla società fordista a quella post-fordista è stato particolarmente “traumatico” proprio perché la persona del ‘900 ha visto progressivamente indebolirsi tutto quel sistema di tutele tipiche che lo Stato aveva predisposto sino a quel momento. Il progressivo smantellamento di tali garanzie ha portato alla luce, secondo Castel, la difficoltà degli individui nel saper “rimanere in piedi da soli”.
 
I motivi dell’incapacità del sistema di sicurezza sociale di far fronte ai propri tradizionali impegni sono quelli che, a partire dagli anni ‘90, hanno trovato sempre più spazio all’interno del dibattito pubblico, imponendo riforme strutturali specie sul versante della previdenza sociale. Infatti, se da un lato l’avvento di fenomeni quali la disoccupazione di massa, la precarizzazione dei rapporti di lavoro e la riduzione della popolazione attiva hanno determinato la progressiva riduzione della base contributiva, dall’altro l’allungamento della speranza di vita ha notevolmente allargato la platea dei “protetti”, ponendo non poche difficoltà in termini di equilibri finanziari.
 
In questo contesto, che sembra destinato a perdurare nel tempo, il meccanismo che ha retto lo Stato sociale fino agli anni ’70 si è incrinato. Il patto intergenerazionale su cui si regge ogni sistema di sicurezza sociale è oggi messo in crisi dal paradosso per cui una minoranza di soggetti attivi deve far fronte a una maggioranza di soggetti inattivi, non più viceversa.
 
Parallelamente, nel momento in cui i classici sistemi di protezione sono entrati in crisi, è apparsa una nuova “generazione di rischi” che l’autore definisce come “rischi industriali, tecnologici, sanitari e ambientali”, che sono diretta conseguenza dello sviluppo incontrollato delle scienze e delle tecnologie o, più in generale, della modernità.
 
Di conseguenza, secondo Castel, è la stessa società moderna, mossa dal progresso sociale, a determinare la proliferazione dei rischi tecnologici e dunque a ingenerare nell’individuo quel sentimento di incertezza che oramai “governa l’avvenire della civiltà”, per cui “l’insicurezza diventa l’orizzonte dell’uomo moderno”.
 
I “nuovi rischi”, specifica il sociologo francese, si distinguono notevolmente dai rischi “classici”: mentre quest’ultimi sono sostanzialmente l’infortunio, la malattia, la vecchiaia, ecc., i primi coincidono con eventi quali incidenti nucleari, ambientali, sanitari, legati allo sviluppo incontrollato delle scienze e delle tecnologie.
 
La grande differenza risiede nel fatto che mentre per i rischi classici l’assicurazione pubblica era stata la grande tecnologia che ne aveva permesso il controllo, distribuendone solidariamente gli effetti tra la collettività, per la nuova generazione di rischi tale soluzione risulta inidonea, in considerazione del fatto che, quest’ultimi, risultano largamente imprevedibili e sfuggono alle logiche probabilistiche su cui si regge il principio assicurativo.
 
Ad ogni modo, la proliferazione dei nuovi rischi alimenta costantemente una domanda travolgente di sicurezza da parte delle società. Una domanda a fronte della quale lo Stato fatica a formulare una risposta, generando un mismatch tra domanda e offerte di protezione che inietta nelle comunità un sentimento d’impotenza che l’autore definisce efficacemente col nome di frustrazione sicuritaria”.
 
Un primo argine alla “frustrazione sicuritaria” è suggerito da Castel stesso, il quale afferma che tale frustrazione è generata dall’eccessivo abuso del termine di “rischio”.
 
Secondo l’autore, un rischio è, nel senso proprio del termine, un avvenimento prevedibile. Di conseguenza, quelli sinora catalogati come “nuovi rischi”, non sono propriamente tali, piuttosto possono essere definiti come “eventualità nefaste” o “pericoli”, che rischiano effettivamente di prodursi, ma senza che esistano tecnologie in grado di affrontarli (come l’assicurazione “classica”).
 
Nessuna società, infatti, può assicurarsi dalla proliferazione di tutti i pericoli prodotti dalla modernità, di conseguenza, non esiste una risposta a quell’enorme domanda di sicurezza. Una domanda che l’autore arriva a definire, per l’appunto, come irrealistica.
 
È chiaro, dunque, che per affrontare la questione della protezione sociale è necessario, secondo Castel, ricondurre il dibattito nel giusto perimetro etimologico della nozione di rischio, evidenziandone i confini e operando un distinguo dalla nozione di mero “pericolo”.
 
È un passaggio “culturale” necessario, perché “nessun programma di protezione ha la possibilità di darsi per obiettivo la sicurezza dell’avvenire, cancellando pericoli e incertezze”. Anche perché, gli effetti del verificarsi di quest’ultimi, non possono essere democraticamente ripartiti all’interno della collettività, a differenza, come sopra scritto, dei rischi classici.
 
Di conseguenza, se la risposta al rischio risiede nell’assicurazione, la risposta adeguata al pericolo dev’essere necessariamente diversa. Secondo Castel, a farsi carico di questa risposta è stato, sino ad ora, il mercato e non lo Stato. Infatti, la proliferazione incontrollata dei pericoli ha aperto il mercato del commercio delle assicurazioni private, che invita l’individuo ad assicurarsi da solo (se può) tramite strategie individuali e privatizzate.
 
Secondo l’autore, tuttavia, lo Stato può e deve ritagliarsi un ruolo predominante nell’affrontare l’esplosione dei nuovi pericoli. In questa sfida, il primo punto è quello di porre in risalto la dimensione sociale di questi nuovi fattori d’incertezza ed interrogarsi su come affrontarli collettivamente. Ammette Castel che si tratta di un compito difficilissimo, che non può riproporre gli schemi di protezione classica del capitalismo industriale e fordista, ma deve tener conto delle transizioni in atto che stanno modificando il capitalismo e sgretolando la società salariale: frammentazione del lavoro, decollettivizzazione, mondializzazione degli scambi, esasperazione della concorrenza.
 
Infatti, l’inadeguatezza del modello “tradizionale” di protezione sociale nel tempo è divenuta sempre più evidente poiché quest’ultimo riesce ad intercettare sempre meno coloro che sono in rottura con il mondo del lavoro o che, seppur inseriti all’interno di esso, non hanno assunto una posizione “protetta”, restando così fuori dal perimetro delle tutele esistenti. Pertanto, alla luce di questo mutato contesto socioeconomico e dell’enorme senso d’insicurezza che caratterizza la società contemporanea, è di fondamentale importanza interrogarsi su quale forma debba assumere il nuovo modello di protezione sociale affinché possa continuare ad essere efficace e su come si possa ricostruire la sicurezza che un tempo caratterizzava le condizioni di lavoro e accompagnava gli individui nei loro percorsi professionali.
 
E così il focus analitico di Castel si muove verso i nuovi regimi di protezione sociale che, nel sostituirsi ai precedenti, hanno incentivato il moltiplicarsi dei minimi sociali, quasi sempre accompagnati da politiche d’inserimento e da vari dispositivi di aiuto all’impiego. Questi nuovi interventi sociali sono più flessibili e si differenziano dai precedenti poiché operano una sorta di discriminazione positiva definendo le prestazioni non sulla base di un criterio di uniformità ma partendo dai bisogni sociali specifici dei loro beneficiari e cercando di stimolare la partecipazione attiva del soggetto nella costruzione della propria protezione. Castel esemplifica lo spirito di tale nuovo regime di protezioni con il reddito minimo d’inserimento introdotto in Francia già nel 1988.
 
Tuttavia, dalla sua analisi emergono i costi e le contraddizioni nei quali incorrono i criteri di diversificazione e di individualizzazione della protezione sociale che caratterizzano questi nuovi modelli. Infatti, secondo il sociologo francese, il rischio è quello di concentrare le tutele principalmente verso coloro che sono particolarmente fragili e di fallire contemporaneamente nel tentativo di coinvolgere attivamente quest’ultima categoria nella costruzione attiva della propria protezione. 
 
Nell’ambito di tale riflessione Castel adotta la distinzione operata da Alexis de Tocqueville tra i diritti ordinari, come ad esempio i diritti civili e politici, che garantiscono pari dignità ai soggetti ai quali si rivolgono e i diritti ai sussidi che, invece, sembrerebbero legalizzare una condizione di inferiorità del soggetto. Egli sostiene che nel ridefinire il nuovo modello di protezione sociale sia necessario ispirarsi ai primi, ossia ai diritti ordinari, adottando un approccio in cui gli individui vittime dei rischi sociali non siano considerati degli “assistiti” bensì delle persone provvisoriamente prive delle prerogative connesse alla cittadinanza sociale.
 
Sul piano realizzativo, secondo Castel, i collettivi di inserimento potrebbero contribuire alla messa a terra di tale approccio. Egli li definisce come “delle agenzie pubbliche che raggrupperebbero, con finanziamenti propri e poteri decisionali, le diverse istanze attualmente incaricate di facilitare l’aiuto all’impiego e di lottare contro la segregazione sociale, la povertà e l’esclusione.” Tuttavia, egli precisa che un tale schema di protezione sociale non può e non deve essere inquadrato all’interno di una relazione di scambio commerciale poiché i beneficiari – proprio in ragione della loro posizione di fragilità – non disporrebbero del potere negoziale necessario per partecipare a tali logiche di scambio.
 
Concludendo il proprio ragionamento Castel approfondisce la questione della sicurezza delle condizioni di lavoro e dei percorsi professionali. Egli fa notare come la protezione sociale, nonostante le trasformazioni già citate, si basi ancora essenzialmente sul paradigma “diritti del lavoro/previdenza sociale”. Tuttavia, se è vero che il lavoro non ha perso la sua importanza nel contesto odierno si può notare come stia perdendo sempre di più la sua consistenza dalla quale derivava il suo potere di protezione. Una consistenza garantita dall’egemonia dei contratti a tempo indeterminato, dalla stabilità dei posti di lavoro, dalla stringente definizione della propria qualifica e da tutti quegli elementi che in passato consentivano di preservare la solidità della propria condizione salariale dalle fluttuazioni del mercato.
 
Oggi, invece, le forme nelle quali l’individuo esperisce la propria dimensione lavorativa sono sempre più lontane da quelle che un tempo garantivano sicurezza e non sorprende, dunque, che tale sicurezza vada cercata altrove, forse proprio nel programma dei mercati transizionali del lavoro che tenta di conciliare protezioni e mobilità lavorativa.
 
Infatti, i sostenitori del TLM ritengono che sia necessario garantire la continuità dei diritti pur all’interno della discontinuità dei percorsi professionali, ad esempio, attraverso dei “diritti di prelievo” che consentano di gestire in sicurezza e con maggiore autonomia tutte le inevitabili – e spesso auspicabili – fasi di transizione che caratterizzano la vita lavorativa dell’individuo nel mondo del lavoro contemporaneo, soprattutto qualora si intenda garantire la possibilità che le transizioni avvengano non solo tra una posizione lavorativa e l’altra ma anche verso una fase dedicata, in tutto o in parte, alla propria formazione il cui valore strategico non può far altro che crescere di fronte all’ipermobilità che caratterizza il mercato del lavoro.
 
Il contributo di Castel, dunque, non si limita soltanto ad indagare le ragioni che possono aver condotto la società contemporanea verso un forte senso di “frustrazione sicuritaria” bensì suggerisce quale possibile argine di un senso d’insicurezza divenuto ormai strutturale il ridisegno di un nuovo modello di protezione sociale che consideri come via privilegiata da esplorare quella della ricerca di nuovo statuto del lavoro che plasmi e che sia plasmato dal mutato contesto socioeconomico nel quale l’individuo è inserito.
 
Jacopo Saracchini

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@JacopoSaracchi1
 
Marco De Filippis

Scuola di dottorato in Apprendimento e innovazione nei contesti sociali e di lavoro

ADAPT, Università degli Studi di Siena

@mardefilippis

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