Politically (in)correct – Rinnovo del contratto dei metalmeccanici: sarà davvero tutto pacifico?

E’ possibile che l’intesa sottoscritta il 26 novembre scorso tra la Federmeccanica e i sindacati dei lavoratori sia avvenuta in un momento particolare in cui l’attenzione era concentrata sul referendum e che, di conseguenza, non ne siano stati valutati compiutamente gli effetti nell’ambito del sistema delle relazioni industriali? E che, in sostanza, sia ormai acquisito e scontato  in tutti i settori del movimento sindacale – segnatamente nella Cgil – un assetto contrattuale tanto diverso da quanto sostenuto, per anni, dalla Confederazione di Corso d’Italia su sollecitazione della Fiom? Il dubbio ci è venuto leggendo su “Il diario del lavoro” un articolo di Alessandro Genovesi, segretario generale della Fillea-Cgil (il sindacato delle costruzioni).  ‘’Prendo atto – scrive Genovesi  – della firma unitaria sull’ipotesi di rinnovo del contratto collettivo nazionale dei metalmeccanici, firma unitaria che – dopo anni di divisioni sindacali – è di per  sé una notizia positiva. Così come prendiamo atto  dell’investimento sul welfare bilaterale (anche con diversi spunti innovativi interessanti).

 

Al contempo non sfugge a nessuno – prosegue il sindacalista senza indorare la pillola – la scelta fatta sul meccanismo salariale che è esclusivamente di recupero ex post e differito nel tempo, con aumenti successivi e solo eventuali sui minimi salariali legati meramente all’inflazione, con tanto di assorbimento di altre voci. Detto ciò ai mille commentatori “interessati” alle vicende sindacali, dico subito che, come Fillea Cgil, siamo più affezionati alle proposte di Cgil, Cisl e Uil sul nuovo modello contrattuale e soprattutto – in maniera molto laica – siamo fortemente convinti che ogni settore abbia le proprie specificità, che il singolo contratto collettivo nazionale di lavoro deve saper  valorizzare  e declinare.  Per noi  il contratto collettivo nazionale di lavoro – afferma Genovesi –  deve essere anche sul versante salariale un’autorità fondamentale nel tutelare non solo il potere di acquisto ma anche nel riconoscere elementi specifici che variano da settore a settore (andamento di mercato, innovazione organizzativa, esportazioni, profitti e ricavi), con aumenti salariali che aiutino il rafforzamento della stessa domanda interna’’.

 

 

Il richiamo ai sacri testi di Genovesi ci ha indotto a risalire alle fonti e ad andare a rileggere quanto, dopo un confronto durato mesi, Cgil, Cisl e Uil avevano partorito  nel documento   ‘’Un moderno sistema di relazioni industriali’’ del settembre scorso. Ecco il testo riguardante il ruolo del contratto nazionale di categoria: ‘’Il contratto nazionale, con la determinazione delle retribuzioni, dovrà continuare a svolgere un ruolo di regolatore salariale, uscendo dalla sola logica della salvaguardia del potere d’acquisto, che nasceva da un’esigenza di contenimento salariale in anni di alti tassi di inflazione, per assumere nuova responsabilità e ruolo.

 

Le dinamiche salariali dovranno, così, contribuire all’espansione della domanda interna, a contrastare le pressioni deflattive sull’economia nazionale, a stimolare la competitività delle imprese e la loro capacità di creare lavoro stabile e qualificato, nonché a valorizzare, attraverso una equa remunerazione, l’apporto individuale e collettivo delle lavoratrici e dei lavoratori. L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione. A tal fine, il salario regolato dal contratto nazionale, sarà determinato sulla base di opportuni criteri guida ed indicatori, che tengano conto: a) delle dinamiche macroeconomiche, non solo riferite all’inflazione, in particolare per quanto riguarda il valore reale dei minimi salariali valevoli per tutti i dipendenti; b) degli indicatori di crescita economica e degli andamenti settoriali, anche attraverso misure variabili, le cui modalità di erogazione e di consolidamento nell’ambito della vigenza contrattuale saranno definiti dai specifici Ccnl di categoria, anche in relazione allo sviluppo del secondo livello di contrattazione’’.

 

In pratica, con tale impostazione si andrebbe molto lontano da quanto previsto dal Protocollo del 1993 e le sue successive modifiche. In quell’ambito,il contratto nazionale di categoria svolgeva il ruolo di salvaguardare il potere d’acquisto delle retribuzioni. Si prendeva a riferimento, al momento del rinnovo contrattuale, l’inflazione programmata; poi, trascorso un biennio, vi era un confronto negoziale per l’adeguamento, non automatico, delle retribuzioni, rispetto all’andamento dell’inflazione reale. In seguito, sia pure contro il parere della Cgil, venne adottato l’indicatore IPCA, al netto dell’inflazione importata.

 

Con il crollo dell’inflazione e del prezzo dei prodotti petroliferi questi parametri si sono rivelati inadeguati, al punto da legittimare gli imprenditori a chiedere la restituzione di aumenti salariali non dovuti. Così le confederazioni sindacali – nel loro documento – hanno cambiato le carte in tavola e proposto di trasformare il contratto nazionale in uno strumento di incremento retributivo per un’intera categoria sulla base di criteri cervellotici e pretestuosi. Persino la Cisl accettò questa impostazione, abbacinata dalla disponibilità della Cgil ad intraprendere esperienze di partecipazione dei lavoratori. Addirittura, con settant’anni di ritardo, Cgil, Cisl e Uil, nel loro documento sulle relazioni industriali, sono arrivate a chiedere persino l’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione allo scopo di “dribblare” l’insidia del salario minimo legale. “L’esigibilità universale dei minimi salariali definiti dai Ccnl, in alternativa all’ipotesi del salario minimo legale, va sancita attraverso un intervento legislativo di sostegno, che definisca l’erga omnes dei Ccnl, dando attuazione a quanto previsto dall’Art. 39 della Costituzione”. Per fortuna, questa proposta – come del resto tutto il documento confederale – non è stata, giustamente, presa sul serio da nessuno, essendo già ‘’fuori mercato’’ fin dalla sua presentazione pubblica. Ma, come in un sistema di scatole cinesi, ridare una funzione al contratto nazionale di categoria era una condizione necessaria per trovare un’intesa con la Cgil, la quale era “controllata a vista”, al suo interno, dalla Fiom.

 

Con l’intesa del 26 novembre – inaspettatamente ed improvvisamente – Maurizio Landini ha sciolto i nodi con cui teneva, da anni, l’intero movimento sindacale legato al palo della conservazione. Ne ha fatto le spese la sacralità del contratto nazionale, che si riduce a stabilire le retribuzioni minime e le loro variazioni ex post (come ha scritto Alessandro Genovesi) sulla base dell’IPCA, “al netto degli energetici importati”. L’ammontare prevalente delle risorse, non impiegate in iniziative di welfare a carattere nazionale (previdenza complementare e sanitaria integrativa), saranno gestite sul posto di lavoro. Sic transit gloria mundi. Ma avverrà tutto in modo pacifico, a partire dal referendum?

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

Docente di Diritto del lavoro UniECampus

 

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