Politically (in)correct – Pensioni: il restyling contributivo a vocazione statalista

Bollettino ADAPT 21 gennaio 2019, n. 3

 

Anche in tema di pensioni il governo giallo-verde si è profuso in parole di pace. La c.d. pace contributiva non è un condono travestito come in materia fiscale, ma si tratta di una serie di agevolazioni a favore di chi intende coprire con versamenti dei “buchi” della propria storia previdenziale. Un insieme di misure, dunque, che dovrebbero determinare delle entrate. Ma tutto il pacchetto che accompagna l’introduzione di quota 100 sarà verificato con maggiore attendibilità quando diventerà disponibile la relazione tecnica.

 

Con il titolo “Facoltà di riscatto di periodi non coperti da assicurazione” l’articolo 20, prevede – in via sperimentale, per il triennio 2019-2021 – che i lavoratori dipendenti privati e pubblici, gli autonomi e i parasubordinati, privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995 e non già titolari di pensione abbiano la facoltà di riscattare, in tutto o in parte, i periodi antecedenti alla entrata in vigore del decreto compresi tra la data del primo e quello dell’ultimo contributo comunque accreditato nelle suddette forme assicurative, non soggetti a obbligo contributivo e che non siano già coperti da contribuzione, comunque versata e accreditata, presso forme di previdenza obbligatoria.

 

Detti periodi possono essere riscattati nella misura massima di cinque anni, anche non continuativi. Questa possibilità di riscatto è sottoposta a precise condizioni: gli interessati non devono aver versato contributi prima del 31 dicembre 1995 (e quindi devono aver cominciato a lavorare dal 1996, e quindi con le regole del sistema contributivo); non devono essere titolari di pensione e far valere una storia lavorativa, da implementare (e non da costruire ex novo) attraverso il riscatto. Non a caso il periodo da riscattare deve essere compreso tra il primo e l’ultimo contributo versato dal soggetto. Questa operazione di restyling non è consentita allo scopo di rientrare nei requisiti che danno accesso a quota 100 ed è fissato il limite anagrafico di 45 anni.

 

Tali condizioni lasciano intendere che il governo, con questa norma, guarda oltre il 2021, magari – se sarà possibile – alla regola dei 41 anni di anzianità che dovrebbe entrare in vigore alla fine del triennio di sperimentazione. Quell’appuntamento è importante, perché non è affatto superato il rischio che i benefici del triennio 2019-2021 diventino strutturali. Se così non fosse si sarebbe aperta una finestra solo per alcune centinaia di migliaia di lavoratori, in condizione di spartirsi alla cuccagna del “triennio del destino giallo-verde”: una finestra che poi sarebbe rinchiusa per quanti venissero dopo.

 

Il versamento dell’onere può essere effettuato ai regimi previdenziali di appartenenza in unica soluzione ovvero in massimo 60 rate mensili, ciascuna di importo non inferiore a € 30,00, senza applicazione di interessi per la rateizzazione.

 

L’opzione del riscatto (in tutto o in parte) degli anni della laurea e del dottorato costituiscono da decenni un vero e proprio paradigma di questo istituto previdenziale. L’ammontare dell’onere da versare era calcolato sulla base del reddito di cui il soggetto disponeva al momento della domanda di riscatto. Pertanto era conveniente attivarsi già all’inizio della carriera lavorativa. In seguito queste disposizioni sono state migliorate consentendo anche ai genitori di farsi carico – con il medesimo regime fiscale – del riscatto dei figli. Con le regole previste nel decreto, limitatamente ai soggetti che abbiano i requisiti sopra ricordati, è stato calcolato un onere occorrente per il riscatto pari ad un contributo, uguale per tutti, di 5.241,30 euro per ogni anno di studio. La Fondazione dei consulenti del lavoro ha sviluppato alcuni esempi. Un lavoratore con il regime contributivo, che guadagna 40mila. euro, avrebbe pagato, con le regole previgenti, circa 13.200 euro l’anno mentre se chiede il riscatto ora dovrebbe pagare il 60% in meno. L’effetto è legato alla nuova modalità di calcolo introdotta nel decreto.

 

La norma prevede che “ai fini dei periodi da valutare con il sistema contributivo” (in pratica a partire dal 1996 quando questo è stato introdotto), il lavoratore potrà decidere di attivare il riscatto con lo sconto “ai soli fini dell’incremento dell’anzianità contributiva”. Questa possibilità è prevista fino a 45 anni ed è quindi matematicamente impossibile – oltreché vietato – usare il riscatto per poi accedere a quota 100.

 

Come si arriva alla cifra di 5.241,30 all’anno? Il calcolo è abbastanza complesso, nel senso che si fa riferimento al minimo imponibile contributivo di commercianti ed artigiani, a cui si applica l’aliquota prevista per i lavoratori dipendenti. Pertanto, calcolando l’aliquota del 33% sul minimo imponibile di 15.882,81 euro, previsto per il 2019, si determina l’importo di 5.241,30 euro. In pratica il conto varia tra i 15 mila euro di una laurea breve ai 25 mila di un corso di laurea completo. Il risparmio è maggiore quanto più lo è la retribuzione percepita. Se si considera un lavoratore con il regime contributivo il riscatto costerebbe 9.900 euro l’anno con un reddito di 30mila euro, 14.850 euro con un reddito da 45mila euro, 19.800 euro con un reddito di 60mila euro.

 

Va ricordato che questo marchingegno non si applica solo al riscatto della laurea ma a tutte le opzioni analoghe, alle condizioni previste e fino ad un massimo di cinque anni. Vi sono poi altri aspetti discutibili che denotano una precisa scelta politica del governo a favore della previdenza pubblica. Implementare i versamenti contributivi, riscattando dei periodi non “coperti” (in cui non era dovuta la contribuzione), in un sistema a ripartizione significa prima di tutto accrescere le risorse che il sistema può spendere nel presente a favore delle pensioni in essere e acquisire maggiori diritti per il futuro, che dovranno essere onorati dai contribuenti di allora, con risorse proprie. È senz’alcun dubbio un’opzione alternativa a quella della previdenza privata a capitalizzazione, dove un contribuente si porta appresso il suo montante contributivo.

 

Che ci sia un pregiudizio nei confronti della previdenza privata lo si nota anche leggendo l’articolo 21 relativo alla “esclusione opzionale dal massimale contributivo dei lavoratori che prestano servizio in settori in cui non sono attive forme di previdenza complementare compartecipate dal datore di lavoro’”. Che cosa significa questa norma? Nel sistema contributivo – diversamente dal retributivo – è vigente un massimale retributivo e contributivo – ora intorno ai 100mila euro lordi l’anno – oltre il quale non sono previsti versamenti ed effetti sul livello della pensione. In parole povere non si paga né si incassa. La riforma Dini, che introdusse questa norma, incoraggiava, con misure fiscali, i contribuenti a destinare le quote eccedenti il massimale, alla previdenza complementare. Adesso – sia pure in modo opzionale – si incoraggia il lavoratore a rientrare con tutta la sua retribuzione nel sistema pubblico.

 

Vi è poi un’ulteriore questione che lascia molti dubbi. Le risorse per l’implementazione della storia contributiva – d’intesa con il dipendente – può essere sostenuta dal datore di lavoro, mettendola a carico dei premi di produzione dovuti. Il comma 4 dell’articolo 20 recita, infatti, che “Per i lavoratori del settore privato l’onere per il riscatto di cui al comma 1 può essere sostenuto dal datore di lavoro dell’assicurato destinando, a tal fine, i premi di produzione spettanti al lavoratore stesso’’. In tal caso, è deducibile dal reddito di impresa e da lavoro autonomo e, ai fini della determinazione dei redditi da lavoro dipendente, rientra nell’ipotesi prevista per i contributi previdenziali e assistenziali versati dal datore di lavoro o dal lavoratore in ottemperanza a disposizioni di legge nonché per i contributi di assistenza sanitaria versati dal datore di lavoro o dal lavoratore ad enti o casse aventi esclusivamente fine assistenziale in conformità a disposizioni di contratto o di accordo o di regolamento aziendale.

 

In sostanza, non solo la contrattazione della produttività e del welfare aziendale non fa parte delle priorità dell’attuale governo (a forte vocazione statalista), ma le risorse ad essa destinate al pari di quelle che potrebbero alimentare il secondo pilastro (ove non sia già istituito in forma bilaterale) vengono sacrificate sull’ara della nuova divinità italiota: la pensione.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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