Politically (in)correct – Pensioni: il “mal francese’’

Bollettino ADAPT 9 dicembre 2019, n. 44

 

La Francia brucia. Da giorni il Paese è paralizzato in conseguenza dello sciopero generale contro la riforma delle pensioni proposta dal governo di Emmanuel Macron. In verità, non è difficile mettere in difficoltà una nazione quando l’epicentro della lotta sta nei trasporti, a partire dalle ferrovie (SNCF); quando piccoli gruppi di dimostranti ricorrono alla violenza ed ogni settore difende ad oltranza il proprio regime pensionistico, senza porsi non solo un problema di sostenibilità, ma anche di giustizia sociale.

 

Abbiamo parlato dei ferrovieri. Indubbiamente il loro è un lavoro usurante che merita particolari tutele. Ma ci sono altri aspetti da considerare. Non abbiamo dati precisi sui saldi di quel fondo in Francia. Ma non crediamo che le cose siano tanto diverse dai processi che quella categoria ha vissuto da noi. È bene ricordare, infatti, che anche in Italia i dipendenti delle Ferrovie dello Stato avevano una gestione pensionistica autonoma presso il Tesoro. I conti sono andati bene fino a quando gli attivi erano tanti e i pensionati pochi. Poi la piramide si è rovesciata, come succede in tutti i regimi “chiusi”. Oggi, a seguito delle nuove tecnologie, dei prepensionamenti e dei programmi di ristrutturazione, le pensioni degli ex ferrovieri e dei loro superstiti sono un multiplo di quello dei contribuenti. La gestione è caratterizzata, pertanto, da un rapporto del tutto sbilanciato tra il numero di contribuenti – si tenga conto che i nuovi assunti vengono iscritti dal 2000 al FPLD-INPS essendosi trasformate le FS in una spa – che nel 2017 è stato pari a 43.290 unità (erano 57.133 nel 2011 e 45.180 nel 2016) e quello dei pensionati pari a 215.520 (erano 234.400 nel 2011 e 217.540 nel 2016). In definitiva – si veda il Sesto Rapporto di Itinerari Previdenziali – la gestione FS presentava nel 2017 un saldo negativo del tutto anomalo di 4,1 miliardi di euro come risultato di uscite per prestazioni di 4,7 ed entrate contributive per 616 milioni (610 milioni nel 2016). In conclusione, il fondo FS, nel 2000, è stato ‘’ospedalizzato’’ all’Inps ed eroga le pensioni grazie ad un robusto trasferimento dal bilancio statale a copertura del disavanzo d’esercizio.

 

Anche gli ex Fondi speciali (elettrici, trasporto locale, telefonici) e l’ex INPDAI sono stati incorporati, come contabilità separate, nel FPLD (Fondo pensioni lavoratori dipendenti), portandosi appresso pesanti disavanzi. In sostanza, in Italia – ma non può non essere così anche Oltralpe perché i processi produttivi e tecnologici sono i medesimi e producono gli stessi effetti – la fine della separatezza contrabbandata per autonomia, sia pure in un quadro di armonizzazione delle regole, non sottrae diritti, ma garantisce che le pensioni continueranno ad essere erogate, grazie all’incorporazione all’interno di sistemi più solidaristici.

 

Un altro tema di polemica, in Francia, riguarda il tentativo di unificare i 42 regimi speciali esistenti. Anche in Italia è stato affrontato questo problema. Ma diversamente che in Francia, i primi a sollevare la questione e a pretendere una riforma sono stati i sindacati. Quando iniziò la stagione dei riordini (circa 25 anni or sono) esistevano ben 47 regimi pensionistici (amministrati da numerosi enti previdenziali) così suddivisi: a) il regime generale dell’Inps con le sue quattro gestioni (lavoratori dipendenti, coltivatori diretti, artigiani e commercianti). Tra queste gestioni, l’assicurazione generale obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti (Ago-Ivs) del FPLD era certamente la più consistente di tutti i regimi con circa 12 milioni di iscritti e 10 milioni di prestazioni erogate. b) I regimi sostitutivi dell’Ago-Ivs: dieci fondi di cui alcuni (autoferrotranvieri, telefonici, volo, dazieri, elettrici, clero e ministri del culto) con gestioni autonome presso l’Inps. I lavoratori dello spettacolo e assimilati erano iscritti all’Enpals, i giornalisti all’Inpgi, i dirigenti d’azienda dell’industria all’Inpdai. c) I regimi esclusivi dell’Ago-Ivs: nove gestioni nelle quali erano collocati i dipendenti dello Stato (a carico del Tesoro), i ferrovieri, i postelegrafonici e le Casse ora amministrate dall’Inpdap (Cpdel per enti locali e personale del Servizio sanitario, Cps per medici, veterinari e ufficiali sanitari, Cpi per gli insegnati d’asilo, Cpug per gli ufficiali giudiziari e loro coadiutori). d) I regimi esonerativi: otto gestioni relative a fondi pensionistici di banche. Tali gestioni, insieme a due regimi esclusivi, furono trasferite ad una gestione speciale dell’Inps a seguito della trasformazione dei relativi istituti in società per azioni, nel 1991. e) I regimi integrativi: tre gestioni presso l’Inps (minatori, gasisti, esattoriali). f) I regimi dei professionisti: dodici gestioni (notai, avvocati e procuratori, ingegneri, architetti,ecc.). g) Un regime assistenziale presso l’Inps che erogava la pensione sociale.

 

Prendendo a prestito il titolo di un romanzo di Alessandro Dumas (“Vent’anni dopo”) il sistema pensionistico italiano può vantare una sostanziale uniformità delle regole. È questo probabilmente il risultato più importante delle riforme, proprio perché si partiva da una realtà fortemente differenziata, connotata da una pluralità di regimi, molti dei quali erogavano trattamenti migliori di quelli previsti dall’assicurazione generale obbligatoria, sia pure a fronte di analoghe condizioni di lavoro e assicurative.

 

E non si trattava solamente di piccole nicchie privilegiate, riservate a qualche categoria di lavoratori; i vantaggi riguardavano, in generale, tutto il pubblico impiego. Ci furono parecchie resistenze frapposte all’omogeneizzazione dei trattamenti, tanto da impedire nel corso degli anni ’80 – quando già si era consapevoli delle prospettive di crisi del sistema – l’avvio di quei processi di riordino che poi furono adottati a partire dal 1992, dapprima in un clima di emergenza per la finanza pubblica, poi nel quadro delle misure di risanamento legate al provvidenziale “vincolo esterno”: il conseguimento degli obiettivi del trattato di Maastricht e l’ingresso nel club della moneta unica.

 

L’uniformità delle regole è stata raggiunta secondo criteri di gradualità (probabilmente più lunghi di quanto sarebbe stato auspicabile ed equo), ma dettati da ineludibili esigenze di consenso. L’uniformità delle regole tra pubblico e privato è comunque un vanto dell’Italia sullo scenario europeo (neppure la virtuosa Germania è riuscita a realizzare tale obiettivo e superare gli statuti dei dipendenti pubblici). Va ricordato, altresì, che la ricerca di una disciplina uniforme non ha impedito di riconoscere trattamenti e benefici differenziati per alcuni istituti (l’età pensionabile, ad esempio) a tutela di particolari categorie con specifiche caratteristiche (si pensi agli addetti a mansioni usuranti o ai militari, alle forze di Polizia, al personale viaggiante delle ferrovie, agli sportivi e alla gente di spettacolo, ecc.).

 

Certo, vi è stata, da parte dei sindacati, una difesa eccessiva dei lavoratori appartenenti alle generazioni della società industriale, i quali, grazie alle regole del pensionamento anticipato/anzianità (che prescindono dall’età anagrafica, ma si basano solo sull’anzianità contributiva) hanno avuto la possibilità di accedere alla quiescenza (specie se maschi ed occupati nelle imprese del Nord) in età non certamente anziana, proprio negli anni in cui l’attesa di vita si incrementava ben oltre ogni previsione. Peraltro, in questo settore, sono in corso dei vistosi passi indietro attraverso i provvedimenti del governo giallo verde (quota 100, ecc.) I processi di armonizzazione dei regimi hanno trainato – sia pure con qualche incorporazione non ancora operativa del tutto – una vistosa semplificazione degli enti previdenziali. Oggi l’INPS è l’unico ente che gestisce la previdenza privata e pubblica, gli ammortizzatori sociali, le altre prestazioni temporanee e la gestione separata per i lavoratori parasubordinati. Solo la tutela assicurativa degli infortuni e delle malattie professionali è rimasta in capo all’INAIL. A fronte della ‘’centralizzazione’’ della previdenza obbligatoria dei lavoratori dipendenti, parasubordinati e autonomi, è tutto in atto una vera e propria ‘’balcanizzazione’’ degli enti (circa una ventina) della c.d. previdenza privatizzata, a cui sono iscritti i liberi professionisti, le cui associazioni rappresentative si guardano bene dal promuovere iniziative di unificazione, anche a proposito di Casse con pochi iscritti e quindi destinate al disequilibrio.

 

Il sistema pensionistico italiano, inoltre, si è dato – sia pure con una transizione risultata eccessivamente lunga – un’effettiva corrispondenza tra la contribuzione versata e la prestazione pensionistica. Questo obiettivo è assicurato grazie al metodo di calcolo contributivo, in vigore – in tutto o in parte – a seguito della riforma Monti-Fornero, per tutti gli assicurati solo a partire dal 2012. Tale metodo consiste nell’accredito virtuale di una quota annua pari al 33% della retribuzione se lavoratore dipendente e del 24% se parasubordinato iscritto in via esclusiva alla Gestione separata dell’Inps (sempre del 24% per gli autonomi). L’accredito viene rivalutato sulla base del Pil nominale e va a formare, nel tempo, un montante che, a sua volta, viene trasformato in pensione mediante l’applicazione di “coefficienti di trasformazione” ragguagliati all’età anagrafica (dopo la riforma Fornero si arriva fino a 70 anni). Tali coefficienti sono determinati tenendo conto degli andamenti demografici e sottoposti a verifica e a revisione (prima decennale ora triennale). È in corso fino a tutto il 2026 il congelamento dell’incremento automatico all’attesa di vita per il pensionamento anticipato (42 anni e dieci mesi per gli uomini e un anno in mano per le donne), disposto dal dl n. 4/2019. I coefficienti, come è noto, tendono a realizzare un correttivo in senso attuariale della prestazione ovvero producono un effetto premiale per chi va in pensione più tardi, mentre tendono a disincentivare, sul piano economico, il pensionamento nella fascia bassa.

 

Si è poi cercato di dare consistenza alla creazione di un sistema misto, in parte a ripartizione di matrice pubblica, in parte affidato a forme di previdenza complementare privata a capitalizzazione (con una netta preferenza per la contribuzione definita).

 

Tutto ciò premesso, in Italia, non abbiamo risolto il problema della sostenibilità del sistema pensionistico, già provato dalle misure adottate nell’ambito della legge di bilancio 2019 e in attesa di capire che cosa succederà in futuro in rapporto all’evoluzione (o involuzione) del quadro politico. Perché allora ci siamo dedicati, così a lungo, al “come eravamo”? Se non altro per toglierci una soddisfazione con i “cugini” francesi. Le organizzazioni sindacali italiane, spesso, hanno collaborato alle riforme. Anzi, le modifiche più importanti, destinate a restare comunque vadano le cose in politica – l’armonizzazione dei regimi, l’unificazione degli enti, l’introduzione del sistema contributivo – ha visto come protagonisti proprio i sindacati confederali. È vero che, in Francia, la CFDT, diretta da Laurent Berger (una sorta di Marco Bentivogli francese), ha capito e condivide l’esigenza di una riforma, mentre la gloriosa CGT sembra essere diventata una costola dei gilet gialli.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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