Politically (in)correct – Pensioni e demografia: basterebbe fare 2 + 2

Bollettino ADAPT 2 dicembre 2019, n. 43

 

Il 27 novembre la solita OCSE è ritornata a mettere il naso negli affari degli italiani. Nel suo rapporto annuale sui sistemi previdenziali, “Pensions at a Glance 2019”, l’organizzazione dei paesi industrializzati ha scritto che, sulle pensioni l’Italia dovrebbe “dare priorità all’aumento dell’effettiva età di ritiro”, e questo riflette “la necessità di limitare i sussidi ai pensionamenti anticipati e di attuare adeguatamente il collegamento dell’età di ritiro alla speranza di vita”.

 

Dopo pochi minuti di smarrimento gli italiani si sono resi conto che nessun governo avrà il coraggio di provare a seguire i suggerimenti dell’OCSE. Ma l’indignazione non ha dato tregua agli “gnomi del rigore” che non vogliono mandare in pensione gli onesti lavoratori per continuare a sfruttarli anche da vegliardi tremebondi. Anche in questo caso 2+2 non fa 4.

 

Vi è una corrente di opinione nel dibattito sull’immigrazione, la quale sostiene esservi un preciso disegno politico (corredato di finanziamenti) nel trasportare migranti africani in Europa con l’obiettivo di sostituire i lavoratori nati nel Vecchio Continente – onusti di diritti e prerogative –  con manodopera priva di ogni forma di tutela (schiavi al posto di cittadini liberi). Costoro, magari, sono gli stessi che denunciano un disegno perverso nei progetti di incremento dell’età pensionabile (attenzione: si parla di età effettiva non dei limiti legali) in coerenza con l’evolversi dell’attesa di vita. Si vede che, secondo questa corrente di opinione, i poteri forti demoplutocratici soffrono di schizofrenia, perché sarebbe il pensionamento anticipato (che loro criticano) a favorire l’effetto sostituzione (che invece perseguono).

 

Ma non perdiamo tempo ad inseguire le farfalle sotto l’Arco di Tito (come si diceva un tempo quando questi graziosi lepidotteri ancora esistevano). È sufficiente riflettere con un po’ di attenzione (e di onestà intellettuale) su di un altro Rapporto (questa volta dell’Istat) reso noto pochi giorni prima (il 25 novembre) dell’entrata a gamba tesa dell’OCSE. Si tratta del Report sulla natalità e fecondità nel 2018. Anche gli strenui difensori del pensionamento anticipato non possono non riconoscere che la demografia è una sorta di tapis roulant su cui cammina quasi tutto il resto.

 

Per quanto riguarda le pensioni (oltre a tanti altri fattori, tra i quali primeggiano gli andamenti dell’economia e dell’occupazione), in un sistema a ripartizione in cui le prestazioni, di volta in volta, in essere, sono finanziate dai lavoratori, di volta in volta, contribuenti, appare ovvio che questi ultimi – prima ancora di lavorare, di guadagnare e di pagare le tasse e i contributi – devono esistere ovvero essere nati e cresciuti, aver studiato ed essere entrati nel marcato del lavoro. Il punto sta proprio qui. Costoro, nei prossimi decenni, non ci saranno perché non sono nati e non nasceranno, quanto meno in numero adeguato a finanziare un sistema pensionistico che, al contrario, vedrà aumentare, sia nel numero che nella durata, lo stock dei trattamenti.

 

Nell’arco degli ultimi dieci anni – sottolinea il Rapporto – le nascite sono diminuite di 136.912 unità, quasi un quarto (il 24% in meno) rispetto al 2008.  Questa diminuzione è attribuibile esclusivamente alle nascite da coppie di genitori entrambi italiani (343.169 nel 2018, quasi 140 mila in meno nell’ultimo decennio). Di fronte a questi dati si vanno a ricercare le cause di una corsa all’estinzione e ci si accontenta dei soliti discorsi (che poi un fondamento lo hanno come è riconosciuto anche dall’Istat).

Tra le cause (soprattutto del calo dei primi figli) vi è – è scritto nel Rapporto- la prolungata permanenza dei giovani nella famiglia di origine, a sua volta dovuta a molteplici fattori: il protrarsi dei tempi della formazione, le difficoltà che incontrano i giovani nell’ingresso nel mondo del lavoro e la diffusa instabilità del lavoro stesso, le difficoltà di accesso al mercato delle abitazioni, una tendenza di lungo periodo ad una bassa crescita economica. L’effetto di questi fattori è stato amplificato negli ultimi anni da una forte instabilità economica e da una perdurante incertezza sulle prospettive economiche del Paese, che ha spinto sempre più giovani a ritardare le tappe della transizione verso la vita adulta rispetto alle generazioni precedenti.

 

Se vi sono motivi di carattere economico nella denatalità, non vanno sottovalutati altri aspetti importanti che attengono agli stili di vita e a processi culturali consolidati che non si modificano con interventi di sostegno. O, quanto meno, richiedono del tempo. Il Rapporto, poi, mette in evidenza un altro aspetto. Il fenomeno della denatalità è in parte dovuto agli effetti “strutturali” indotti dalle significative modificazioni della popolazione femminile in età feconda, convenzionalmente fissata tra 15 e 49 anni.

 

In questa fascia di popolazione, le donne italiane – sottolinea l’Istat – sono sempre meno numerose: da un lato, le cosiddette baby-boomers (ovvero le donne nate tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta) stanno uscendo dalla fase riproduttiva (o si stanno avviando a concluderla); dall’altro, le generazioni più giovani sono sempre meno consistenti. Queste ultime scontano, infatti, l’effetto del cosiddetto baby-bust, ovvero la fase di forte calo della fecondità del ventennio 1976-1995, che ha portato al minimo storico di 1,19 figli per donna nel 1995. Al primo gennaio 2019 le donne residenti in Italia tra 15 e 29 anni sono poco più della metà di quelle tra 30 e 49 anni. Rispetto al 2008 le donne tra i 15 e i 49 anni sono oltre un milione in meno. Un minore numero di donne in età feconda (anche in una teorica ipotesi di fecondità costante) comporta, in assenza di variazioni, meno nascite.

 

Questo fattore è alla base di circa il 67% della differenza di nascite osservata tra il 2008 e il 2018. A partire dagli anni duemila l’apporto dell’immigrazione, con l’ingresso di popolazione giovane, ha parzialmente contenuto gli effetti del baby-bust; tuttavia questo impulso sta lentamente perdendo la propria efficacia man mano che invecchia anche il profilo per età della popolazione straniera residente. Il che dimostra il ruolo che gioca un processo culturale che si accompagna al progredire della integrazione.

 

Il Rapporto segnala, poi, un ulteriore fenomeno di portata strutturale. La fase di calo della natalità avviatasi con la crisi si ripercuote soprattutto sui primi figli, diminuiti del 28% circa tra il 2008 (283.922, pari al 49,2% del totale dei nati) e il 2018 (204.883, pari al 46,6%). Complessivamente i figli di ordine successivo al primo sono diminuiti del 20% nello stesso arco temporale. Ma che ci sia una sorta di rifiuto culturale ad affrontare questo tema è dimostrato dalla levata di scudi che accolsero, nel 2016, la proposta del ministro della Salute Beatrice Lorenzin per l’istituzione di un Fertily Day.  Il ministro ammise che la campagna era stata organizzata male ma si dichiarò “Stupita e amareggiata” per la pioggia di critiche che si era abbattuta sulla sua proposta. “Perché – domandò in un’intervista a ‘la Stampa’ – si possono fare campagne sul diabete o sul cancro, e sulla fertilità no?”.

 

Tutto ciò premesso – così abbiamo intitolato l’articolo – sarebbe sufficiente sommare 2 + 2 per comprendere che la crescente denatalità in sinergia perversa con l’invecchiamento creerà un mare di guai sia per quanto riguarda sia il mercato del lavoro, sia il sistema pensionistico. ll picco dell’invecchiamento colpirà l’Italia nel 2045-2050 quando si riscontrerà una quota di ultrasessantacinquenni vicina al 34%. L’età media passerà entro la metà del secolo dagli attuali 44,7 anni a 50 anni. E non basterà a raddrizzare gli squilibri neppure l’apporto dell’immigrazione, ammesso e non concesso che continui con gli attuali flussi, cosa che ora viene messa in discussione, dalla stessa OCSE, anche con riguardo alla sostenibilità della stessa riforma Fornero prima delle manipolazioni del dl n.4/2019.

 

Secondo il Rapporto n.20/2019 della RGS, il flusso migratorio netto presenta un profilo tendenzialmente crescente fino al 2040, in cui raggiunge il livello di 220 mila unità. Nei trenta anni successivi, la previsione degli immigrati è decrescente raggiungendo 197 mila unità nel 2050 e 164 mila nel 2070. Nel periodo 2018-2070 la consistenza media annua è prevista pari a 190 mila unità.

 

Persino Matteo Salvini, nel suo discorso al Senato nella giornata-chiave dell’agosto scorso, affermò che, a metà del secolo, verranno a mancare circa sei milioni di persone in età di lavoro e che l’Italia correrà il rischio di doverli rimpiazzare con altrettanti lavoratori immigrati che diventeranno, a suo dire, nuovi schiavi. Ovviamente, il leader della Lega vuole impedire che tutto ciò avvenga, senza rendersi conto che non sarebbe mai possibile – anche con nuove politiche a sostegno della famiglia – invertire un ciclo già in corso. Le coorti che accederanno al mercato del lavoro nel 2050 sono, in buona misura, già nate. Ma non è necessario andare (in apparenza) tanto lontano. Come ha scritto su Il diario del lavoro Nunzia Penelope, commentando una conferenza del demografo Alessandro Rosina, un’intera generazione, che oggi sta fra i 30 e i 34 anni è destinata, tra dieci anni, a sostituire i “fratelli maggiori” quarantenni, vale a dire la parte della società italiana oggi più produttiva ai fini dello sviluppo del Paese. Ebbene, questi “fratelli minori” che dovranno occupare quel posto sono appena 3,4 milioni, contro gli attuali 4,4 milioni dei 40-44enni.

 

Dunque, fra dieci anni, l’Italia avrà perduto un terzo netto di quello che viene considerato il pilastro centrale del capitale umano e della forza lavoro: un milione di braccia e cervelli in meno. E il problema che dovremo affrontare sarà l’opposto di quello che oggi va per la maggiore: non sarà il lavoro che manca per i giovani, ma i giovani qualificati che mancheranno per i posti di lavoro disponibili.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

 

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