Politically (in)correct – La legge Biagi vent’anni dopo

Bollettino ADAPT 13 febbraio 2023, n. 6

 

Tra qualche giorno – il 14 febbraio – ricorre il ventesimo anniversario della Legge Biagi ovvero della legge n. 30 del 2003 (nello stesso anno fu varato il d.lgs. attuativo n. 276). Il 14 febbraio è una data importante, non solo per il San Valentino degli innamorati, ma anche per la ricorrenza in quel giorno di eventi importanti per quanto riguarda il lavoro. Nel 1984 ebbe inizio l’operazione/scala mobile, l’istituto della rivalutazione automatica delle retribuzioni che era divenuto uno stabilizzatore dell’inflazione (per un lungo periodo a due cifre e a due decine) e che si concluse con il protocollo Governo-parti sociali del 23 luglio 1993 (dedicato a San Tommaso), preceduto, l’anno prima, dall’accordo del 31 luglio che aveva tolto di mezzo qualunque forma di automatismo. La legge n. 30/2003 fu nello stesso tempo un punto di arrivo e di partenza. Nel senso che portò a compimento un processo di innovazione legislativa del mercato del lavoro iniziato con il “pacchetto Treu” del 1997 e proseguito col d.lgs. n. 368/2001 in attuazione della direttiva n. 99/70/UE in materia di lavoro a termine (ancorché gravato dalla ambiguità del c.d. Causalone (le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività del datore di lavoro”) che verrà eliminato solo col decreto Poletti nel 2014). Ma quella legge n. 30 divenne, in una prospettiva rivolta al futuro, un provvedimento che raccoglieva, sistematizzava e regolava una normativa cresciuta alla rinfusa, spesso su impulso della giurisprudenza

 

È bene ricordare anzi che il lavoro “parasubordinato” ricevette una copertura previdenziale nella legge Dini del 1995, prima ancora di avere un profilo di carattere giuridico attinente alla tipologia del rapporto. Non crediamo quindi di esagerare attribuendo alla legge Biagi la funzione di un secondo tempo dello Statuto dei lavoratori del 1970. Probabilmente si trattò di uno Statuto “figlio di un dio minore”. Ma non si può attribuire a Marco Biagi la responsabilità di un mercato del lavoro diviso in caste. È intuitivo che, per superare una siffatta architettura sociale, non è possibile elevare tutti al rango dei bramini. L’uguaglianza si realizza individuando un denominatore comune. Ed era questa l’idea alla base dello statuto del lavoro che Marco immaginò ma che nessuno, dopo la sua morte, è mai riuscito a realizzare.

 

Per comprendere il senso della legge Biagi – mi ripeto di nuovo dopo citato questo brano centinaia di volte in tante occasioni – è sufficiente dare lettura a quanto disse di lui, nel decimo anniversario dell’uccisione, la moglie Marina Orlandi ad un’assemblea di studenti organizzata dalla Cisl di Bologna. Marina è una biologa, non una giurista, ma riprendeva dei concetti con una folgorante intuizione che solo una intensa comunanza di vita poteva cogliere e comprendere.

 

Marco era un uomo libero che ha sempre detto quello che pensava. Non era legato in particolare ad una parte, si sentiva libero di dire quello che gli sembrava giusto. Ha avuto il coraggio di esporre le proprie idee. Proprio nei giorni in cui è stato ucciso ricordo che Marco mi parlava di una cosa che riguarda i ragazzi. Era consapevole che la società si stava trasformando e che un lavoro per tutta la vita, lo stesso a tempo indeterminato, sarebbe stata una cosa praticamente impossibile, sarebbe arrivata tardi nella vita delle persone. Aveva in mente che bisognava difendere i lavori brevi. Purtroppo ci sarà questa precarietà, diceva Marco, però dobbiamo renderla una precarietà protetta, fare in modo che le persone che non hanno un lavoro protetto abbiano anche dei diritti, siano protette, che una persona non trovi solo un lavoro in nero”.

 

Marco Biagi non era un cultore della precarietà. E non ne fu l’inventore. Riteneva tuttavia ineluttabili talune trasformazioni del mercato del lavoro, nei confronti delle quali l’alternativa, per un giurista che per deontologia deve possedere senso pratico, non era tra stabilità e precarietà, ma tra “flessibilità normata” (è una sua definizione) e lavoro sommerso (laddove fosse possibile evadere) o non/lavoro. Il professore bolognese era un giurista colto, attento osservatore di quanto accadeva nel mondo, che aveva compreso come e quanto le trasformazioni dell’economia avrebbero influito sui rapporti di lavoro. E si era accostato al mondo dell’occupazione confinata nel limbo tra il lavoro dipendente e quello autonomo (a cui i giuslavoristi tradizionali guardavano con sufficienza ed ostilità come se si trattasse di una devianza rispetto a ciò che era sempre stato e tale doveva restare immutato nel tempo) con l’occhio di chi cerca delle soluzioni, propone delle regole in grado di rispondere alle esigenze delle imprese e di indicare delle tutele per i lavoratori. Proprio come poi scrisse nel Libro Bianco del 2001:

 

“I mutamenti che intervengono nell’organizzazione del lavoro e la crescente spinta verso una valorizzazione delle capacità dell’individuo stanno trasformando il rapporto di lavoro. Ciò induce a sperimentate nuove forme di regolazione, rendendo possibili assetti regolatori effettivamente conformi agli interessi del singolo lavoratore ed alle specifiche aspettative in lui riposte dal datore di lavoro, nel contesto d’un adeguato controllo sociale”.

 

Così Marco Biagi non esitò a divenire un «giurista di frontiera», attento a quanto si muoveva nei pascoli sconosciuti dei nuovi rapporti di lavoro. Mentre i suoi colleghi  contrassegnavano le aree grigie del mercato del lavoro  con la classica scritta «hic sunt leones», Marco parlava apertamente di «diritto dei disoccupati» cioè di «quella fragile trama normativa esistente per coloro che non hanno ancora un lavoro, che lo hanno perso o che sono occupati nell’economia sommersa», nella consapevolezza che il primo dovere del giurista è di portare la «regola» laddove non esiste: una regola che serva alla società reale e che non pretenda di fare il contrario, di costringere cioè i processi fattuali a sottoporsi a norme insostenibili e perciò condannate ed essere violate, neglette od eluse. In una qualche misura Marco fu protagonista, a cavallo tra la fine del secolo breve e l’inizio di quello nuovo, di un’operazione di innovazione culturale nell’ambito di un diritto del lavoro che vedeva inaridirsi, giorno dopo giorno, i campi su cui i giuslavoristi avevano costituito rendite di posizioni dottrinarie e scientifiche, fino a non avere più nulla di nuovo da dire e da scrivere che non fosse stato scritto già tante volte.  

 

In tale contesto, Marco Biagi (giurista empirico, più attento alle  buone pratiche e al benchmarking, piuttosto che alle teorie generali del diritto) è stato un precursore, in quanto ha compreso tra i primi che stava sorgendo ed ampliandosi una sorta di “terra di nessuno” nel mercato del lavoro che non costituiva un fenomeno degenerativo, come riteneva e purtroppo ritiene ancora la cultura dominante, ma aveva delle caratteristiche proprie, verso la quale stava indirizzandosi l’evoluzione (magari anche l’involuzione) dei rapporti di lavoro. Mentre la dottrina tradizionale si sforzava di ricondurre tali processi (considerati anomali se non proprio truffaldini) all’interno di una visione classica del lavoro dipendente standard, Biagi cercava (e con la legge n. 30 riuscì nell’intento) di intravederne e studiarne i presupposti giuridici che li rendevano non solo legittimi, ma utili se regolati e trasparenti.

 

Nonostante la damnatio memoriae a cui venne sottoposta, la legge Biagi non ha alcuna reale responsabilità per la lamentata destrutturazione del mercato del lavoro; essa intervenne con l’obiettivo di correggere e migliorare la situazione di una realtà spaccata in due, nella quale sulle giovani generazioni di occupati gravava e grava l’onere di dover sopportare e subire gran parte delle flessibilità di cui l’economia non può fare a meno. E in fondo anche le forze politiche e sindacali che attaccarono quella legge come il vaso di Pandora in cui erano rinchiusi tutti i mali del mercato del lavoro, non sono mai riuscite ad introdurre sull’impianto della legge n. 30 delle modifiche sostanziali anche quando disponevano, in alcune fasi della storia recente, della possibilità di dare corso alle loro visioni alternative. La ratio della legge Biagi è la medesima che ha ispirato la legge n. 92 del 2012 e il pacchetto del jobs act del 2014-2015. Certo, strada facendo ci sono state delle modifiche, delle revisioni e delle masse a punto. Alcune forme contrattuali sono state abolite più per ragioni sceniche che per esigenze effettive. E comunque si è trattato sempre di situazioni marginali, di tipologie che rasentavano il virtuosismo legislativo ma che non avevano un riscontro concreto nella pratica.

 

Per una serie di circostanze anche oggettive, occorre riconoscere che il processo di cambiamento non è andato avanti in modo ordinato e coerente: il binomio nuove flessibilità/nuovi diritti non ha superato la cesura esistenziale che lo contraddistingue. Già nel Libro Bianco del 2001 era sottolineato il rischio connesso all’incapacità di accompagnare l’introduzione di nuove flessibilità con l’introduzione di nuovi strumenti di tutela. Al punto da determinare conseguenze negative, fino al rigetto, nel nuovo contesto più flessibile. Fino a considerare una sconfitta e non un effetto dell’evoluzione della società il tramonto del “posto fisso”.

 

“L’impressione è che, nel facilitare l’accesso al lavoro di soggetti prima esclusi (donne, giovani), gli strumenti di flessibilità all’ingresso abbiano contribuito a ridurre le iniquità e le inefficienze discendenti da un mercato del lavoro rigido. Al tempo stesso, però, l’incompletezza del processo di introduzione di nuove flessibilità, lo scarso sviluppo di importanti strumenti di tutela nel mercato – un tratto tradizionale dell’Italia, in cui scarsamente efficaci sono stati i meccanismi di mediazione di manodopera e gli ammortizzatori sociali – il ridotto sviluppo di strumenti di sostegno al reddito dei meno abbienti, possono avere conseguenze negative nel nuovo contesto più flessibile. In altri termini, vi è il rischio che all’attenuazione delle rigide tutele relative al singolo rapporto di lavoro posto in essere non faccia da contraltare lo sviluppo di efficaci forme di tutele nel mercato, tutele tanto più necessarie nel contesto attuale di maggiore flessibilità, con un turn over occupazionale più intenso”.

 

L’approccio dei grandi soggetti collettivi non è stato quello dell’unità nella diversità, ma quello della prevalenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come esempio di virtù a fronte del sospetto con cui si continua a considerare, nonostante i ragionevoli cambiamenti, il ruolo spurio della flessibilità. Non si sono allargate le mura della cittadella dei diritti; si continua solo a coltivare l’illusione di potervi trascinare, all’interno, quell’enorme cavallo di legno (il lavoro subordinato standard) abbandonato sulla spiaggia.

 

Giuliano Cazzola

Membro del Comitato scientifico ADAPT

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